Buona domenica, miei cari
lettori e lettrici!
So bene di avervi detto che
avrei aggiornato dopo due settimane, ma a quanto pare è avvenuto il miracolo
che vi avevo accennato, quindi eccomi qua. Solo... non prendetela a vizio. :P
Prima di tutto vorrei ringraziare
infinitamente chi ha letto il primo capitolo di questa nuova avventura, chi
l’ha già inserita tra preferiti, seguite e ricordate e chi, soprattutto, ha
commentato.
È una gioia immensa
ritrovare utenti di Betulla anche qui,
davvero. Sapere che volete continuare a seguire le gesta di Brethil&Co
mi rende felicissima!
Inoltre vorrei aggiungere
una precisazione che, nel precedente capitolo, ho dimenticato di fare: riguarda
la descrizione dei Colli Ferrosi. Non si trova molto su questo posto, quindi
bisogna andare ad immaginazione. Nelle mie lunghe ricerche ho trovato il forum di un gioco di ruolo;
la descrizione mi è piaciuta, e ho pensato di prendere libero spunto da quella.
Tutti i meriti, quindi, vanno all’autore del post.
Ora, torniamo a noi. Dopo la
premessa iniziale, dove abbiamo fatto un salto prima ad Erebor, poi nel regno
di Dáin ed infine a Minas Tirith, ora si torna alla Montagna Solitaria, e ci
rimarremo un po’.
Brethil e Boromir torneranno
prossimamente, promesso.
Vi lascio alla lettura del
nuovo capitolo – che ha subito mooolti tagli,
aggiunte, e chi più ne ha più ne metta. Inizialmente era lungo 12 pagine, ma mi
stavo addormentando io stessa nel rileggerlo. Ho dovuto lavorarci sopra per un
po’, ma credo che ora sia leggibile.
Almeno, spero. ;)
Buona lettura!
Marta.
Pietra
- sequel di Betulla -
02.
24 Giugno 3019 T. E.
Il suono metallico e possente del martello che batteva il
ferro sull’incudine risuonava incessantemente da ore, nella fucina ormai
deserta. I lavoratori avevano abbandonato le proprie postazioni qualche ora
prima, al suono dell’ultima campana che precedeva la fine del turno di lavoro.
L’ora della cena era passata da parecchio e il forno esalava fumi e un calore
asfissiante, ma il fabbro non pareva accorgersene. Era talmente assorto e con
così innumerevoli anni di lavoro alle spalle, che quella per lui era una
boccata d’aria fresca; amava il suono del ferro incandescente battuto, lo
sfriggere dello stesso quando veniva immerso nell’acqua per essere temprato,
l’odore pungente del metallo fuso; ed era unicamente in quei momenti, infatti,
che poteva tornare ad essere un Nano privo di preoccupazioni e doveri. Aveva
più di 250 anni di battaglie, decisioni e rancori, che l’avevano fatto
invecchiare più in fretta del previsto.
D’altronde, un discendente di Durin non poteva aspirare ad
altro, di quei tempi. Ma nonostante qualche capello bianco in più, rimaneva il
solito burbero Nano di sempre.
Eppure, nonostante i tempi bui che la sua gente, e lui per
primo, avevano trascorso, era stato prima un Principe, e successivamente Re,
amato e giusto. Aveva guidato il suo esercito in innumerevoli battaglie contro
Orchi e Mannari, rischiando seriamente di morire nella Battaglia dei Cinque
Eserciti, se non fosse stato per i suoi nipoti; aveva recuperato il tesoro che
apparteneva di diritto al popolo dei Nani della Montagna Solitaria, e con esso
anche la gemma più preziosa tra tutte, simbolo della famiglia Reale –
l’Archepietra; aveva guidato la ricostruzione della loro città, in modo che
risorgesse più splendente che mai; poi la Guerra dell’Anello era giunta fin
sopra il lontano Nord, solo qualche mese prima, quando i Nani si erano opposti
a Sauron ed esso aveva inviato loro un esercito di Esterling. Dopo tre,
estenuanti giorni di combattimento, Nani e Uomini di Dale avevano dovuto
ripiegare verso Erebor, assediati per giorni, finché fioche ma eccitate notizie
di una vittoria a Sud giunsero a rallegrare i loro animi e ad incupire quelli
del Nemico.
Ora Erebor era il Regno Nanico più ricco della Terra di
Mezzo, a cui molti tra Uomini, Nani ed addirittura Elfi si rivolgevano per il
commercio, o semplicemente per visitare quel fasto fatto di pietra e gemme
preziose. E Thorin, essendo un Nano ed in quanto tale profondamente orgoglioso
del suo operato e del suo popolo, non poteva che gioirne.
Si passò un braccio sulla fronte sporca e sudata, e sospirò
di soddisfazione nel guardare il risultato del suo lavoro: il nuovo paio di
asce che stava fabbricando per Fili e Kili era quasi concluso: erano
incredibilmente leggere, grazie al rivestimento di mithril che le rendeva
maneggevoli, indistruttibili e letali; mancavano solo qualche finitura nelle
decorazioni e i manici che avrebbe saldato nei giorni successivi.
Si avvicinò alla porta della fucina dopo aver ritirato gli
attrezzi, infilò la sudicia camicia un tempo bianca ma ora sporca dalle ceneri,
e si diresse verso le sue stanze, per un bagno rigenerante prima della cena.
Non aveva pensato al cibo fino ad allora, e si rese conto di quanto fosse
affamato.
Ad attenderlo all’ingresso trovò uno dei suoi più cari amici
e consiglieri, Balin, che lo salutò con un inchino e un sorriso. «Vedo che
anche oggi ti sei dato da fare. Trascorri più tempo rinchiuso lì dentro,
piuttosto che nella Sala del Trono, mio Re.»
Thorin fece una smorfia ironica. «Sai bene quanto non mi
piaccia stare con le mani in mano.»
«Ebbene, non sarò certo io a trascinarti lontano dalla
fucina tirandoti per un orecchio!» Balin strizzò un occhio, porgendogli una
pergamena. «Ma forse c’è qualcuno, là fuori, che avrà il potere di osare ben
oltre.»
L’altro si voltò per guardare l’anziano Nano, che aveva ora
tutta la sua attenzione. Prese il rotolo di carta ancora chiuso ed osservò con
interesse la cera che lo sigillava: era un albero incorniciato da sette stelle,
con una corona alata in alto.
Era lo stemma di Gondor.
Cosa avrebbe potuto volere il Re degli Uomini dell’Ovest da
lui?
Aprì il documento frettolosamente, rischiando di strapparlo
a causa delle sue rudi mani. Ciò che lesse lo stupì incredibilmente, e un
profondo senso di orgoglio lo invase, facendolo sorridere. «Pare che i nostri servigi
architettonici siano richiesti al Sud, mio caro amico.»
«Ciò che avevo immaginato. E dimmi, come risponderà il Re?»
Thorin arrotolò la lettera, stringendo la carta con ardore;
e Balin, nel notare il guizzo di entusiasmo negli occhi chiari dell’altro, capì
l’implicita risposta.
Il giorno dopo mandò a chiamare i suoi compagni più vicini
nella Sala Grande, dove preferiva tenere le riunioni e gli incontri con gli
emissari esteri. E al momento della decisione, la gioia della notizia non tardò
a coinvolgere chiunque, soprattutto i più giovani.
«Andremo a Minas Tirith?» esclamò Kili, balzando davanti
allo zio come un bambino eccitato davanti al suo regalo di compleanno. «Hai
sentito, Fili? Andremo finalmente a Gondor!»
«Evviva il Re! Evviva lo zio!» gridò il fratello entusiasta,
abbracciandolo. Nonostante fossero passati parecchi anni da quando quei due
erano giovani ed esuberanti, e ora fossero adulti, ancora faticavano a
comportarsi come tali.
«Partiremo tra un mese.» Thorin si alzò dal suo seggio,
posando le mani sul pesante tavolo in pietra e sedando gli animi accesi dei
nipoti con voce decisa. «E non sarà un viaggio di piacere. Gli Uomini di Gondor
richiedono il nostro lavoro per ricostruire le mura del Rammas Echor, il
Cancello di Minas Tirith e una città intera, Osgiliath; e noi glielo daremo al
giusto prezzo. Esigo il massimo delle vostre capacità, nessuno escluso.»
«E non ti deluderemo certo.» Fu Dwalin a parlare, i piedi
ben saldati a terra come la pietra su cui stava.
Thorin annuì in cenno di assenso, e continuò. «Tu e Balin
richiamerete quanti più Nani di talento possibile, in forze e volenterosi;
conto sul vostro buon metro di giudizio. Ori, voglio che ti occupi della
catalogazione del materiale di cui abbiamo bisogno e dei mezzi di trasporto
dalle cave fino a Gondor; e spedisci due aquile: una al Re, chiedendo Uomini
per aiutarci; credo che abbiano collezionato numerosi prigionieri dopo la
Guerra che potrebbero fare al caso nostro; una ai Nani dei Colli Ferrosi, per
invitarli ad unirsi a noi. E incarica nuovi minatori affinché vadano a Khazad-dûm
e si uniscano all’estrazione del mithril.»
I tre si chinarono e si allontanarono per iniziare ad eseguire i loro compiti.
«Quanto a voi due, occupatevi dell’armamentario. Saremo lenti, durante il
viaggio, e la strada verso Sud è lunga ed ancora pericolosa; organizzate una
scorta per gli operai e il materiale.»
I due fratelli imitarono gli altri tre, chinando il capo e
dirigendosi verso la Sala dell’Addestramento, per arruolare nuovi soldati.
Thorin si sedette, stringendo i braccioli del seggio con
eccitazione. Dopo la Guerra dell’Anello, i Nani avevano dovuto ricostruire
parte del maestoso portale d’ingresso, andato distrutto a causa delle
catapulte. Ma era stato un lavoro che aveva richiesto poco più di due mesi,
grazie alla celerità e alla bravura della sua gente. Era da tanto che gli
Uomini non chiedevano un aiuto così ingente ai Nani, e fu ben felice che lo
avessero fatto in quel frangente. Aveva trascorso troppo tempo senza lavorare
al di fuori dei confini di Erebor e finalmente aveva la possibilità di sentirsi
nuovamente utile. Prima di essere un Re, infatti, era soprattutto un fabbro, e
solo quando lavorava i metalli si sentiva realmente vivo.
Non c’era nient’altro che potesse farlo sentire così –
neanche i tesori di famiglia che tanto amava.
Trascorsero poco più di due giorni prima che Erebor
ricevette risposta dai vicini ed alleati Nani, e meno di due settimane alla
visita di un piccolo gruppo di emissari. Dáin II Piediferro inviò tre dei suoi,
incaricati di mettere a punto i compiti degli uni e degli altri, e di dividere
spese e materiali. Uno di essi era Rulin, il più importante carpentiere dei
Colli Ferrosi, che giunse con due dei suoi migliori apprendisti, Uren e Ulfgar,
fratelli. I tre oltrepassarono l’imponente ingresso di Erebor e camminarono su
un lungo ponte che dava sul vuoto – per quello che potevano vedere
affacciandosi alla balaustra; da quel nero buio spuntavano colonne di pietra
larghe quanto dieci Troll di caverna, che salivano fino alle alte volte
trapuntate di fiaccole. Nonostante Rulin avesse visto le bellezze di Moria nei
suoi periodi di gloria, quello era uno spettacolo che lo lasciò attonito –
sebbene la sua vista fosse dimezzata da una benda che gli copriva l’occhio
sinistro. Raggiunse la Sala del Trono dopo un lunghissimo corridoio largo e
arioso, che s’insinuava verso il cuore della Montagna Solitaria.
Thorin lo accolse caldamente nella sua dimora, alzandosi nel
momento in cui le porte si aprirono per far entrare gli ospiti; ma si accorse
subito che ci fosse qualcosa in quel Nano che stonava eppure risultava
familiare; era più alto della norma e ben tarchiato, ma sul suo viso, deturpato
da quella benda, non vi era traccia di barba, a differenza degli altri due che,
essendo pur giovani, facevano concorrenza al nipote Kili; inoltre le orecchie
che spuntavano dai lunghi e folti capelli ramati parevano a punta, come quelli
degli Hobbit.
O peggio, degli Elfi.
E così, mentre sedeva sul trono adornato dell’Archepietra,
simbolo della casata dei Durin, Thorin studiò il Nano che gli stava di fronte,
a pochi gradini di distanza.
«E ho personalmente ridisegnato il Palazzo del Governatore
di Dale dopo l’ultima apparizione del Drago. Gli Uomini paiono ancora molto
felici di ciò che feci costruire ben settantotto anni fa.» stava dicendo il
carpentiere, mal celando il suo orgoglio.
«Non ne dubito. Conosco l’edificio di cui parli e ricordo
con quale maestria ogni concio venne tagliato e decorato. Ma se la memoria non
m’inganna, esse mi parvero... diverse,
a tratti così delicate che mi sorse il dubbio fossero di fattura Nanica.»
«Posso garantire che ogni pietra fu lavorata dalle mani
callose dei miei carpentieri; ma i vostri occhi sono ben attenti, mio signore.
Ho lavorato a lungo con e per gli Elfi di Bosco Atro e di Forraspaccata*,
poiché una parte del sangue della mia famiglia proviene da lì.»
Un mormorio di disagio e sorpresa si sollevò per la sala, e
Thorin strinse gli occhi, una mano che carezzava distrattamente la barba lunga
ed intrecciata. Un Nano con sangue Elfico nelle vene era un pensiero così
blasfemo da far rivoltare lo stomaco anche al più pacifico. Era ridicolo anche
solo pronunciarlo a mezza voce!
Ma il Re si sforzò di nascondere il suo sconcerto sotto la
consueta maschera di indifferenza, e zittì i presenti con il gesto di una sola
mano. Solo chi lo conosceva bene poteva dire quanto fosse ripugnato da quella
novità, ben visibile dalle rughe contrite che gli si formarono nel mezzo della
fronte. «Ecco spiegato il tuo aspetto e il tuo stile architettonico, dunque. Ti
prego, raccontami un po’ della tua storia, poiché durante queste lunghe Ere
pochi sono stati i Nani che si siano uniti ad Elfi.»
Rulin non si fece intimorire da quello sguardo indagatore e
dai bisbigli che continuava a sentire. «La mia famiglia ha una lunga tradizione
di carpenteria, e siamo conosciuti in numerose città, fin nella lontana Brea.
Mio tris-nonno Rurik si recò a Forraspaccata in giovane età, poiché anche gli
Elfi erano a conoscenza della sua bravura, e avevano richiesto l’aiuto del suo
cantiere. Quando giunse alla Casa di Elrond, egli incontrò un’Elfa e si
innamorò. Il suo nome è Ainariël, dai luminosi capelli rossi, ed era
incuriosita dalle maniere di mio trisnonno, che benché provasse a comportarsi
gentilmente, risultava grezzo e divertente ai suoi occhi. Ed egli fu così
fortunato che, quando tornò a casa, l’aveva al suo fianco come moglie.» Rulin
alzò il mento, fiero delle sue origini. «Capisco che vi sentiate offesi per
questa notizia, perché sono ben consapevole dei rapporti tra Nani ed Elfi; in
particolare con la tua famiglia, Thorin Scudodiquercia. Ma i tempi stanno lentamente
cambiando, e mi è giunta voce che Gimli, figlio di Glóin, venga chiamato “Amico
degli Elfi”, a causa di una profonda amicizia con il principe Legolas e una
devota ammirazione per Dama Galadriel.»
«Suo padre sarà ben lieto della notizia, allora.» mormorò a
denti stretti Dwalin, infastidito.
Thorin fece finta di ignorare il sarcasmo dell’amico, ma non
si preoccupò che l’ospite potesse averlo sentito. «Sei l’unico mezzosangue
esistente o ci sono altri simili a te?»
Il disprezzo nella sua voce nel pronunciare
quell’appellativo fece ribollire il sangue nelle vene di Rulin, ma il suo lato
Elfico e pacato gli suggerì di lasciar perdere qualsiasi tentativo di scontro
da parte del Re. «Sono l’unico, insieme ai miei figli. Ma non preoccuparti, mio
signore, non è una malattia contagiosa.»
Il Re abbozzò un sorriso privo di divertimento. «Ebbene,
come hai ben detto, i rapporti tra la nostra gente e gli Elfi non sono mai
stati dei migliori, né credo lo saranno mai, nonostante qualche sporadico
avvenimento come questi di cui hai parlato. Ad ogni modo, qualunque siano le
tue origini, sei il benvenuto ad Erebor e tra le fila dei nostri operai. Tu e i
tuoi apprendisti verrete scortati alle vostre stanze, e vi attendo per la cena.
Sarei ben felice se vi uniste a noi.»
I tre annuirono e, dopo averlo salutato con rispetto, Thorin
abbandonò l’espressione di falsa cordialità che aveva costruito in quei minuti
di conversazione. «Un’unione come quella dovrebbe essere bandita e punita con
l’esilio.»
«Non essere troppo duro, amico mio. Quel Nano ha ben detto:
i tempi stanno cambiando.»
Dwalin, sconcertato da quelle parole, quasi sputò la birra
che aveva iniziato a sorseggiare. «Nano? Hai davvero il coraggio di chiamarlo Nano? Non insultare la nostra gente,
fratello. Tu ed io siamo Nani, fin dall’inizio dei tempi. Non quel ridicolo
omuncolo più alto della media e senza un filo di barba. Nano!» aggiunse, in un borbottio, riprendendo a bere, come che il
sorseggiare birra potesse fargli dimenticare quell’affronto.
Balin non replicò, poiché sapeva di essere in minoranza. E,
comunque, le sue ragioni non sarebbero state ascoltate. Anche lui era stato
profondamente adirato con gli Elfi, poiché se essi si fossero trovati al loro
posto, vittime di un Drago infuriato, loro non avrebbero voltato le spalle nel
momento del bisogno. Ma gli anni avevano portato anche saggezza, e aveva capito
che serbare rancore fosse solo una perdita di tempo.
E gli faceva perdere i capelli.
17 Luglio 3019 T. E.
Non ricordava
di aver mai lasciato la porta di casa per andare all’avventura. Gli unici
luoghi che aveva visitato nella sua giovane vita erano stati quelli circondati
dal cerchio di colli che davano il nome alla sua città; mai aveva oltrepassato
i loro confini, neppure in compagnia della sua famiglia.
Eppure eccola
lì, due giorni dopo l’arrivo del messaggio del padre che dava indicazioni ai
figli su come e quando raggiungerlo nell’antico Regno dei Nani a nord di Dale.
Trán aveva sempre sognato la Montagna Solitaria, che pareva imponente solo
osservandola da così lontano; ma mai avrebbe immaginato di trovarsi ai suoi
piedi e sentirsi la formica più insignificante. Perché quella era veramente una
montagna, veramente solitaria, ed era enorme. Trán alzò il naso verso l’alto,
ma non riuscì a vederne la fine, poiché un banco di nuvole la nascondeva. Per
quanto poteva saperne lei, quella vetta avrebbe potuto raggiungere il cielo.
«Davanti a te,
i Guardiani di Erebor!» esclamò Káel, non appena passarono una collina e
l’ingresso della Città dei Nani fu visibile. Nessuno di loro fiatò per parecchi
minuti, inebetiti ed affascinati da quei giganti di pietra che vegliavano
silenziosi e temibili sulle porte di Erebor. E per quanto quella vista non fu
una novità per i fratelli, che parecchie battaglie avevano combattuto proprio
davanti a quelle statue, ogni volta che vi posavano lo sguardo non riuscivano a
trattenere un brivido di eccitazione. Quello era il Regno del Re Sotto la
Montagna, il più potente tra i Reami dei Nani, e quel portale dava solo l’idea
delle meraviglie che si nascondevano dietro di esso.
Scesero dai
loro stanchi pony e preferirono compiere l’ultimo tratto del loro viaggio a
piedi. I segni della battaglia, tuttavia, erano evidenti man mano che si
avvicinavano, e l’eccitazione ed il clamore dei fratelli scemò velocemente; la
loro memoria era ancora intrisa del sangue che avevano visto versare, della
morte che quasi li aveva presi, dell’orrore delle battaglie.
Trán questo non
poteva capirlo, ma lo immaginava. Avrebbe voluto essere al loro fianco, a
combattere con loro; non perché amasse l’arte della guerra, né perché
desiderava morire. Ma perché amava il suo popolo e la sua terra, e sarebbe
morta per difenderla, anche se era una donna e anche se non sapeva maneggiare
al meglio una spada.
Abbandonarono i
pony, liberandoli dei loro pochi averi, e sorpassarono l’entrata di Erebor con
gli occhi spalancati nel vano tentativo di assorbire il più piccolo dettaglio
di quello spettacolo. Vennero salutati con un cenno del capo da tutti i Nani
che incontrarono lungo il percorso; molti di essi, infatti, stavano terminando
gli ultimi lavori all’ingresso, per riportarlo agli antichi splendori.
Ma ciò che Trán
aveva visto fuori, fu nulla comparato a quello che vide dopo. Le labbra le si
schiusero per la meraviglia e sentì chiaramente il cuore perdere qualche
battito nel posare gli occhi sull’immenso spazio che le si aprì davanti. Il
vuoto assoluto regnava in quella montagna, ma percorribile da una intricata
rete di passerelle, ponti, scale e piattaforme; e una foresta di pilastri
intagliati in ogni loro angolo in forme rette e regolari, aperture di edifici
scavati lungo le pareti della roccia, e luce. Tanta luce, per essere sotto
terra. Trán non aveva mai visto tanta bellezza in un unico battito di ciglia, e
la commosse.
Il gemello le
strinse un braccio, sorridente. «È magnifica, vero?» L’unica risposta che
ottenne fu un cenno di assenso con il capo. Poche volte la sorella era rimasta
senza parole, poiché voleva sempre avere l’ultima. Per lui, e i loro fratelli,
dunque, quello era un giorno memorabile.
«Abbiamo idea
di dove dovremmo dirigerci?» domandò Káir, mentre attraversavano l’ennesimo
ponte.
Il più piccolo
della famiglia si avvicinò al parapetto placcato d’oro per sbirciare il vuoto,
ma Trán lo prese per mano, allontanandolo.
«Dobbiamo
andare al quinto livello sotto terra, prendere il primo corridoio sulla destra
e cercare le abitazioni degli ospiti.» fece il maggiore.
«Uh, sembra
facile a dirsi.» commentò Káel.
Trán sospirò,
in un misto di meraviglia e rassegnazione. «Eppure mi sembra difficile, guardando
la vastità di questo posto. Ho la netta sensazione che ci perderemo.»
«Ecco, signori
miei, un’altra dimostrazione del pessimismo di Trán!» esclamò teatrale il
gemello.
«Non sono
pessimista, sono realista.»
«Definisci realista, sorellina.»
«Una persona
che sta realmente per picchiarti,
fratellino.»
Gli altri
scoppiarono a ridere, e lei con loro.
«Bah, comunque
non conterei sul senso dell’orientamento di nostro fratello.» continuò Káir,
che si beccò uno scappellotto dal diretto interessato. «Dicevo solo che magari
sarebbe saggio chiedere informazioni, no?»
L’orgoglio di Tarón
fu messo a dura prova. «Solo se necessario. E sono sicuro che non vi sarà
bisogno di chiedere aiuto a chicchessia.»
Percorsero poca
strada prima di rendersi conto che, effettivamente, si erano persi.
«Dicevi?»
domandò Káel, con un bel sorriso ironico sulle labbra.
«Oh, per l’amor
di Mahal, smettila e portami rispetto, una buona volta!» si lagnò il maggiore.
«Lo farei,
davvero... se tu mi dessi un solo valido motivo per farlo!»
Trán riuscì a
contare fino a tre, prima che i due fratelli iniziassero a darsele di santa
ragione, e fu costretta a separarli aiutata da Káir, non senza qualche
difficoltà. «Neppure un bambino è così infantile come voi.»
I due chinarono
il capo, guardandosi in cagnesco. Da quando la loro madre era morta, spettava a
Trán prendere quella posizione vacante, e ci riusciva anche bene, a dirla
tutta. Era sempre stata ferma nelle sue sgridate, e non voleva assolutamente
che qualcuno dei suoi fratelli arrivasse alle mani per risolvere i problemi.
Dovevano stare uniti, perché erano soli in quel mondo. Eppure Káel e Tarón
erano due teste calde, insieme, e non perdevano occasione di punzecchiarsi.
«Per Durin, che
succede qui?» domandò una voce estranea. Si voltarono tutti e cinque,
arrossendo per l’imbarazzo di essere stati colti in fallo da un Nano.
Tarón si
sistemò la casacca, facendo un passo avanti. «Discutevamo sulla direzione da
prendere.»
«Ci siamo
persi, in realtà.» aggiunse Káir, che si lasciò scivolare addosso il grugnito
di disappunto del fratello maggiore.
Il Nano, che
portava un buffo cappello con due punte rivolte verso il basso sui lati, parve
sorridere. «Oh, novelli visitatori di Erebor, benvenuti! Permettetemi di
presentarmi: io sono Bofur, al vostro servizio!» disse, inchinandosi
profondamente. I ragazzi si presentarono uno dopo l’altro e il Nano sorrise
apertamente. «Dove siete diretti, se posso chiedere?»
«Cerchiamo
nostro padre.» fece Káel. «Egli è il carpentiere ufficiale di Re Dáin.»
Gli occhi vispi
dell’altro Nano si fecero incuriositi. «Oh, ho sentito parlare di lui. Ma
questa, ragazzi miei, non è esattamente la strada che dovreste imboccare. Di
qui si va alle officine e alle fucine.»
Trán si fece
attenta tutta d’un tratto e osservò l’imboccatura del corridoio, anche quando
Bofur si mosse per accompagnarli lungo la giusta via. Durante il percorso, il
Nano indicò loro alcuni punti interessanti della città da prendere come
riferimento per non perdersi più. «E lì, proprio in quello sperone di roccia,
c’è la mia bottega di giocattoli.»
«Sei un
giocattolaio?» domandò Trión.
«Oh, sì.
Costruisco giocattoli con la stessa velocità con cui i minatori estraggono
l’oro!» Il più piccolo sorrise vispamente, e Bofur ridacchiò. «D’accordo, uno
di questi giorni ti ci porterò. Ma ora non posso, mio fratello mi attende per
il pranzo. Seguite quel ponte e il corridoio poco più avanti; non vi sarà
difficile trovare la vostra abitazione. I carpentieri vivono insieme in una
grande sala coperta d’oro e argento.»
Dopo averlo
ringraziato innumerevoli volte, l’allegra compagnia si diresse verso la loro
temporanea abitazione e non poterono frenare lo stupore di fronte all’ennesima
meraviglia architettonica. Il soffitto della stanza era così alto e così riccamente
rivestito che credevano fosse quella la Sala del Trono. Piccoli alloggi
spuntavano come funghi in quel grande spazio, e fu in uno di questi che
trovarono il padre. Uren e Ulfgar, che conoscevano bene i figli del loro
maestro, li salutarono con caldi abbracci, e dopo aver posato le proprie cose
nei rispettivi giacigli, si riunirono tutti per il pranzo. Discussero a lungo
di quella città mastodontica, del lavoro che avrebbero dovuto compiere nella
terra degli Uomini e del Re di Erebor. I figli furono parecchio dispiaciuti nel
sentire i racconti del padre sulle malelingue che riusciva ad udire nelle
bocche di tutti, soprattutto tra i potenti, ma non ci badarono più di tanto.
Erano abituati a quel genere di comportamento, e anzi, si sarebbero sorpresi se
fosse accaduto il contrario.
Il pomeriggio
trascorse lentamente, perché Rulin doveva occuparsi del suo compito insieme
agli apprendisti che avrebbero lavorato con lui ad Osgiliath, mentre i figli
furono liberi di girovagare liberamente, a condizione di non allontanarsi
troppo e di non rischiare di perdersi. Ovviamente, nessuno di loro disse dei
problemi che avevano trovato al loro arrivo.
Trán era in
compagnia del gemello e di Trión, che era decisissimo ad andare a trovare Bofur
il giocattolaio, ma nel momento in cui riconobbe il corridoio che portava alla
fucina, si allontanò velocemente senza che gli altri due se ne accorgessero.
Aveva sempre sentito parlare della vastità di quelle officine, calde come
l’alito di un drago, sede degli operati migliori di tutta la Terra di Mezzo.
Così, sola in quel lungo corridoio, camminò fino ad un vicolo cieco, su cui si
apriva una pesante porta in ferro. Lesse l’insegna in rune naniche e sorrise.
Entrò con cautela, stringendo gli occhi che si fecero immediatamente secchi a
contatto con l’aria arida della ferriera. Non vi era nessuno, a quell’ora della
sera, ma poté comunque udire un unico martello sbattere ritmicamente contro
l’incudine. Scese una ripida scala e si guardò intorno con curiosità. Il forte
odore del carbone e del ferro fuso era così piacevole, alle sue narici, che
inspirò profondamente. Appena raggiunse il livello più basso della forgia,
camminò tra i tavoli in pietra, dove un innumerevole quantità di attrezzi e
armi era stata abbandonata in attesa del giorno successivo. Cercò la sorgente
del rumore che aveva accompagnato i suoi passi fino a quel momento, ma si
accorse che, chiunque stesse lavorando lì, aveva smesso.
«Ti sei persa,
mia signora?»
Trán soffocò un
gemito di sorpresa e si voltò alle sue spalle, per incontrare un paio di
profondi occhi azzurri, resi ancora più chiari dalla sporcizia del carbone su
quel viso severo e bello. Scosse il capo ed abbassò lo sguardo, timidamente.
«Al contrario, sono venuta di proposito. Chiedo perdono se ti ho disturbato.»
«Nessun
disturbo; ma non è usuale trovare qualcuno che girovaga per questo posto, a
quest’ora della sera. Soprattutto se si parla di una giovane Nana che rischia
di sporcarsi gli abiti puliti.»
«Sono abiti già
sporchi, hanno visto una settimana di viaggio.» Arrossì nello stesso istante in
cui si rese conto delle sue parole. Chissà che odore terribile doveva avere, per Mahal!
«Una settimana
di viaggio? E da dove provieni, se mi è permesso saperlo?»
Trán parve
sospettosa del Nano; era imponente, dallo sguardo severo e avanti con gli anni.
Ma si ricordò delle sue buone maniere, e rispose ugualmente. «Dai Colli
Ferrosi, mio signore. Sono giunta stamane, con i miei fratelli.»
Senza
accorgersene avevano iniziato a passeggiare, diretti verso un’altra uscita, a
tre livelli di differenza da dove era entrata. Ma non se ne curò, perché il
Nano al suo fianco sembrava affabile e sicuramente le avrebbe mostrato il modo
per ritrovare la via. Non era la tipica persona che amava passeggiare con
perfetti sconosciuti, ma il suo istinto le diceva di fidarsi – almeno una
volta. Come non avrebbe potuto fidarsi, d’altronde, di quegli occhi azzurri?
«Avete parenti
qui?»
«Nostro padre è
carpentiere al servizio di Re Dáin.»
«Il mezzo Nano?»
Trán non si
fece sfuggire il tono sorpreso e quasi sdegnato nella sua voce profonda. Così
tornò seria. «No, il Nano, come me e
te.»
L’altro udì il
cambiamento di umore della giovane, ma non si fece intimorire. «Eppure, con
sangue Elfico.»
«Sì, ma pur sempre
un Nano, nato da Nani, tra i Nani.» rispose, con orgoglio. Non le piaceva
quando qualcuno insinuava cattiverie sul loro conto, soprattutto su quello del
suo buon padre, solo per la presenza di un Elfa nel loro albero genealogico. Lo
trovava ridicolo, e irritante, anche se sarebbe dovuta essere abituata.
«Hai già
incontrato il Re Thorin?» le domandò lo sconosciuto, che aprì la porta della
forgia. Un’aria fresca li accarezzò entrambi, e sospirarono di sollievo.
«No, e non
credo che lo incontreremo.» Trán non riuscì a nascondere il fastidio nelle sue
parole. «E non credo che voglia farlo.» Quello le domandò il motivo solo con
un’occhiata incuriosita. «I miei fratelli mi hanno parlato di una personalità
altera e regale, incredibilmente valorosa in battaglia e di animo buono. Ma da
quando sono giunta, credo che abbiano preso un abbaglio. Ci odia, e senza
motivo. Mio padre mi ha detto di aver visto il disprezzo nei suoi occhi quando
si presentò, e di aver udito molte offese provenire dalle bocche dei suoi
consiglieri.»
«Credo che
abbia a che vedere con il vostro albero genealogico.»
«Sì, ma non
riesco a capire perché ci si ostini ad accusare noi per qualcosa che fece il Re
di Bosco Atro tanti anni fa. Io non ero che una ragazzina, all’epoca.»
Il Nano inspirò
profondamente, nel tentativo di pensare e trovare le parole adatte per parlare.
Ma, forse, stava solo cercando di ritrovare la calma che i brutti ricordi gli
avevano fatto passare. «Re Thorin ha tanti buoni motivi per odiare gli Elfi e i
loro discendenti. Non lo biasimerei per questo.» Si sentì trafitto da quello
sguardo offeso e ferito, e si affrettò a rimediare. «Ma sono sicuro che non ha
niente contro la tua famiglia, in particolare.»
Si scrutarono
qualche secondo e la Nana sospirò, lasciando cadere il discorso. Quando Trán si
accorse che l’avesse riportata all’ingresso del corridoio da cui era giunta, lo
ringraziò, sebbene non gli avesse esplicitamente chiesto di riportarla a casa.
«È stato un
piacere discorrere con te, figlia di Rulin. Ma ora devo andare.»
La Nana sentì
le guance andarle in fiamme nel momento in cui lui, con gentilezza, le prese
una mano e se la portò all’altezza delle labbra, per baciarne fugacemente il
dorso. E lei non riuscì a distogliere lo sguardo dal suo, che non aveva smesso
di osservarla neppure durante l’inchino.
«Il piacere è
stato mio.»
Le labbra dello
sconosciuto si piegarono in quello che parve un sorriso e si allontanò. Fu solo
allora che Trán ragionò sul fatto che non conoscesse il suo nome. Ma quando
decise di domandarglielo, quello era già sparito. Tornò sui suoi passi, per
raggiungere Káel e Trión, e si rese conto di sorridere come un’adolescente
quando il gemello, vedendola, le chiese il perché di tanta felicità.
Trán non
rispose, ma il suo sorriso si allargò ulteriormente.
19 Luglio 3019 T. E.
«Sai,
sorellina, dovresti seriamente prendere lezioni di cucina, invece della scherma.»
Trán sollevò
uno sguardo ferito sul gemello, che annusava con perplessità la zuppa di ceci
che aveva preparato per pranzo. Non fu una sorpresa, però, notare che anche il
resto dei fratelli era parecchio restio ad assaggiarne anche solo un cucchiaio.
«Non l’ho avvelenata; anche se, col senno di poi, avrei voluto farlo.»
Káir scosse il
capo. «Oh, no, lo sappiamo bene. È proprio questo il tuo talento!»
«Sapete,
potreste prepararlo voi il pranzo, di quando in quando.» ribatté seccata la
Nana, sedendosi a tavola e assaggiando la sua zuppa. Effettivamente, lo doveva
ammettere, dava il voltastomaco. Dovette ricorrere a tutto il suo autocontrollo
per non lasciarsi sfuggire una smorfia, mentre mandava giù il primo sorso.
Káel la osservò
attentamente. «Dimmi, Káir, ti sembra che stia diventando verde?»
«No, ma sono
sicuro che in qualche secondo rigetterà tutto.»
«Avanti,
ragazzi, mangiate e non fate storie.» li rimbeccò il padre. «Non può essere
così... terribile.» aggiunse, dopo
averne ingoiato un cucchiaio.
Trán alzò le
braccia al cielo, arrendendosi. «D’accordo, basta così. Sfamatevi a pane e
carne cruda, perché io non cucinerò più per voi.»
Si ritirò nella
sua stanza, lasciandosi alle spalle le lamentele della sua famiglia, e vi
rimase qualche minuto per calmarsi. Sapeva bene di non essere una buona padrona
di casa, né che aveva ereditato la bravura culinaria della madre. Ce la stava
mettendo davvero tutta per prendere il suo posto, ma più sentiva di sforzarsi,
più il risultato era disastroso. E si sentiva un’incapace.
Prese un fodero
che teneva sotto il letto e si diresse verso le fucine. Vi era tornata per le
due sere precedenti, inconsciamente sperando di ritrovare quel Nano sconosciuto
che non faceva altro se non tornarle alla mente; ma lui non si era fatto vivo,
così quando quella sera tornò lì fu solo per affilare la spada che suo padre le
aveva regalato parecchi anni prima. Come i fratelli amavano ricordarle, era una
pessimista nata e aveva la brutta sensazione che avrebbe avuto bisogno di una
lama più affilata di quella, durante il lungo viaggio che li attendeva verso
Gondor.
Così prese posto
ad un rullo, premette i piedi sulla pedaliera e vi passò sopra prima un lato e
poi l’altro della spada. Il suono del metallo che sfregava contro la pietra la
fece rabbrividire, e nel silenzio della sera risuonò tre volte più forte nella
grande e alta sala delle fornaci.
Non si accorse
della presenza alle sue spalle che rimase ad osservarla per parecchi minuti,
prima di farsi avanti.
«Una spada non
è un giocattolo per una ragazzina.»
Trán si morsicò
la lingua pur di non gridare; ma il balzo che quella voce le provocò, le fece
cadere l’arma dalle mani. Imprecò a denti stretti e quello le riservò
un’occhiata di rimprovero. Possibile che dovesse sempre comparirle alle spalle?
Il Nano si
chinò a raccoglierla e la esaminò con curiosità. «È di ottima fattura, maneggevole
e resistente. A quale dei tuoi fratelli l’hai rubata?»
Trán divenne
rossa. «È mia, non l’ho rubata a nessuno.»
Gli occhi
azzurri dello sconosciuto sgranarono impercettibilmente. Quella ragazzina, ora,
aveva tutta la sua attenzione. «Tua? Mi vuoi dire che sai come usarla?»
«Certo.»
Lui parve
compiaciuto da quel tono orgoglioso e le restituì l’arma. «Spero che la stia
affilando solo per mero vezzo, e che non ne avrai bisogno.»
«Lo spero anche
io, mio signore.» mormorò lei, arrossendo ancor di più. «Anche perché, detto in
tutta franchezza, ho solo duellato con i miei fratelli. Non ho molta esperienza
e non so cosa farei se mi trovassi in pericolo.»
«Se mai dovesse
succedere, sono sicuro che i tuoi fratelli ti difenderanno a dovere.»
Titubante e in
imbarazzo nel sentire ancora quegli occhi cristallini su di sé, Trán riprese ad
affilare il metallo. Quello, d’altra parte, rimase in silenzio con le braccia
conserte sul petto.
«Dove sei stato
in questi giorni?» gli domandò, incuriosita. Sapeva di non avere alcun diritto
di chiederglielo; del resto, non si conoscevano che da pochi minuti, se sommava
il loro primo incontro. Ma non poté fermarsi dal domandare.
Lui sembrò
ponderare la risposta. «Ho avuto alcuni compiti da assolvere, e che mi hanno
tenuto lontano dal piacere della forgia. La partenza è vicina e bisogna
prepararsi.»
«E cosa ha da
fare un semplice fabbro fino a tarda notte?»
«Un semplice fabbro?» ripeté il Nano. Si
ritrovò a ridere prima ancora che se ne accorgesse. «Mia signora, c’è sempre
qualcosa da fare.» le disse, quando si rese conto che la sua ilarità non venne
condivisa.
Trán parve
perplessa da quella risposta, e soprattutto da quell’atteggiamento. Strinse gli
occhi, sospettosa. «L’altra volta non ho ben capito il tuo nome.»
«Questo perché
non l’ho detto. E mi pare che neanche tu lo abbia fatto.»
Si morsicò le
labbra, rendendosi conto della sua maleducazione. «Ebbene, io sono Trán, figlia
di Rulin.»
Voleva dare un
nome a quel volto altero, incorniciato da lunghi capelli neri striati di bianco
in qualche ciocca, e una barba folta e ritirata in una piccola treccia. C’era
qualcosa di regale, in quel Nano anonimo; qualcosa che la portava a chinare il
capo quando lui la guardava con intensità, ad annuire ad ogni parola che quella
voce bassa ma potente pronunciava. E aveva due grossi anelli alle dita, per non
parlare dei fermagli sulle punte delle trecce, in oro e piccole gemme
scintillanti. Qualcosa che difficilmente un semplice fabbro avrebbe potuto
permettersi.
Ma la presentazione
che tanto stava attendendo non giunse.
Qualcuno arrivò
velocemente ad interromperli, e il Nano si voltò verso il nuovo arrivato, che
era più basso e dai capelli e la barba candidi come la neve. Parve sorpreso nel
vedere una femmina in sua compagnia, così si chinò gentilmente. «Perdonate
l’intrusione. Mia signora, permettimi di presentarmi: Balin, al tuo servizio.»
Lei ricambiò la
cortesia e ascoltò ciò che aveva da dire al suo amico.
«Dáin richiede
la tua presenza; tuo cugino vorrebbe discutere sul prezzo da trattare con gli
Uomini, alla fine dell’operato.»
Trán dovette
far trascorrere qualche secondo prima di ricollegare il suo Re con la parola cugino. Guardò il Nano con cui aveva
parlato e sgranò gli occhi. Ci mancò poco che la spada le cadesse nuovamente di
mano. E capì il perché di quella segretezza nel confidarle il suo nome; il
perché della risata quando lo aveva apostrofato come un fabbro qualunque; e
soprattutto, perché avesse difeso il Re di Erebor come il migliore dei suoi
sudditi.
Lui era il Re di Erebor.
Quel Nano
altero e dai lineamenti eleganti che aveva di fronte era Thorin Scudodiquercia,
Re Sotto la Montagna. E lei si sentì un’incredibile stupida per non averlo
capito prima, e terribilmente ferita. Strinse i denti e fissò con astio il Re dei
Nani, mentre parlava con Balin. Non solo era lui la fonte delle preoccupazioni
del padre, e colui che alimentava l’odio verso gli Elfi, ma si era preso gioco
di lei, nascondendo la sua identità e ascoltando ciò che aveva da dire contro
di lui senza cambiare espressione del viso. E dire che aveva creduto fosse un
Nano così a modo e gentile, tanto da chiacchierare con lei e mostrarle la via
di casa!
Quando Thorin
si voltò per congedarsi e chiederle scusa per non essersi presentato prima a
dovere, lei si era già allontanata. Fece solo in tempo a vedere la porta della
fucina richiudersi alle sue spalle con un colpo secco.
*Forraspaccata, Gran Burrone
per chi non fosse familiare con questo nome.
*
Bene,
immagino che tutti abbiate indovinato chi fosse il misterioso Nano prima della
fine del capitolo. Mi sono chiesta se Trán non lo abbia scoperto troppo presto,
ma leggendo i prossimi capitoli mi sono detta che sì, è meglio che lo abbia
scoperto prima della partenza. Il perché lo capirete. :)
Spero
vivamente che i brevi momenti con la famiglia di (mezzi) Nani vi piacciano...
personalmente trovo Káel e Káir adorabili rompipalle. Sarà dura per Trán
riuscire a non ammazzarli entro la fine della storia. ;)
Inoltre,
ecco cosa gli Uomini di Gondor vogliono dai Nani, e come le vicende di Thorin,
Gondor e la famiglia di Rulin si intrecceranno. Nelle Appendici si dice che
Gimli abbia richiamato parte della sua gente per riforgiare i cancelli di Minas
Tirith in mithril e per aiutare gli
Uomini a ricostruire ciò che la guerra aveva distrutto – non Osgiliath, però,
quella è una mia idea – diventando poi signore delle Caverne Scintillanti di
Aglarond. Spero che questa mia variante vi soddisfi. :)
A
presto, e grazie in anticipo a tutti coloro che leggeranno!
Marta.