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Autore: Mary P_Stark    09/08/2013    2 recensioni
La Ricerca di Brie e Duncan ha inizio. Non è più tempo degli indugi, i berserkir vanno trovati prima che si riversino sul loro branco per distruggerli tutti. La verità deve infine venire a galla, perché la faida venga fermata sul nascere. Nuove avventure aspettano i nostri eroi, e nuovi amici si uniranno ai vecchi per questo nuovo viaggio tra le lande della Norvegia, dove il culto dell'uomo-orso ha avuto il suo massimo fulgore. Sarà possibile, però, fermarli in tempo? E il nemico è rappresentato solo da loro? O le maglie di Loki sono più intricate di quanto essi non immaginano? TERZA PARTE DELLA TRILOGIA DELLA LUNA. (riferimenti alla storia presenti nei 2 racconti precedenti)
Genere: Avventura, Fantasy, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'TRILOGIA DELLA LUNA'
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Capitolo 2

 

 

 

 

 

 

Belfast era fresca e solleticata dal vento proveniente dal Mar d’Irlanda, quando riuscimmo ad uscire dall’aereo che ci aveva condotti in terra irlandese.

Non appena giunsi casa per ascoltare il resoconto della telefonata di Erin, mi  misi in pista per preparare un bagaglio leggero mentre Duncan si premurò di avvisare Alec e la mia famiglia dell’imminente partenza.

Dopo aver saputo da Alec che avrebbe raggiunto Heathrow per conto proprio, Duncan chiamò Mary Beth per riferirle la notizia e, nel giro di mezz’ora, lei e Gordon giunsero a casa nostra per salutarci.

Naturalmente, Mary B consigliò più e più volte a entrambi di stare attenti e di non farci prendere la mano, qualora fossero successi guai.

Gordon, invece, si limitò a rimanere in silenzio, le mani ben infilate nelle tasche anteriori dei jeans e l’aria di chi non ne poteva più di veder partire le persone che amava, con il terrore di non rivederle più.

Lo capii.

Neppure io ero serena all’idea di partire, soprattutto a così breve distanza dal mio ritorno fortunoso da quello che, per un soffio, non era stato non solo la mia fine prematura, ma l’annientamento del mondo intero.

Sapere di avere una bomba a orologeria nella testa non era piacevole, come non era piacevole sapere che, per tutta la vita, avrei dovuto mantenere un controllo ferreo sulle mie emozioni, ma tant’era.

Quella patata bollente era caduta in mano mia, ed io dovevo gestirla al meglio.

Per mia fortuna, sapevo di avere dei validi collaboratori. Fossi stata da sola, la Terra sarebbe già esplosa da tempo.

  Quando infine giungemmo a Belfast, il giorno seguente alla telefonata di Erin, un vento leggero e fresco solleticava la costa del Mare d’Irlanda.

Io levai il capo, osservando le rade nubi bianche che solcavano il cielo irlandese come mille piccole imbarcazioni dirette chissà dove.

In quel mentre un’auto scura, di grossa cilindrata, si avvicinò a noi nel parcheggio di fronte all’entrata dell’aeroporto.

Quando il motore calò di giri fino a ridursi al minimo, dedicai tutta la mia attenzione alla potente Mercedes Benz Guard che ci aveva raggiunti. La portiera dell’autista si aprì e ne discese un licantropo dalla stazza non indifferente e che indossava – udite, udite – nientemeno che una livrea scura.

O Erin voleva fare bella figura con noi, o aveva un sacco di soldi.

Il licantropo, scuro di capelli e dal viso affilato come un rasoio, ci squadrò per alcuni attimi prima di dire con tono ossequioso: “Ben trovati in terra d’Irlanda, gentili ospiti. La mia signora vi sta aspettando con impazienza.”

Detto ciò, ci raggiunse con passo elegante e possente al tempo stesso e, dopo essersi occupato dei nostri bagagli, ci tenne la portiera aperta perché salissimo in auto.

Non appena mi accomodai sui morbidi sedili di pelle bianco panna, scrutai incuriosita Duncan, seduto al mio fianco, e gli chiesi: “La nostra ospite è così benestante?”

“Ne so quanto te” scrollò le spalle lui prima di voltarsi verso Alec che, però, scosse il capo.

Neppure lui ne era al corrente.

L’auto oscillò leggermente quando l’autista risalì al posto di guida e, non appena la Mercedes riprese la sua marcia, il licantropo che ci aveva accolti in pompa magna tornò a parlare con cortesia. “La mia Fenrir vi attende nella sua villa poco lontano da Green Castle, a nord di Belfast. Non ci vorrà molto per raggiungerla. Il viaggio è andato bene?”

“Ottimamente” disse pacato Duncan.

Era il più indicato tra noi, per parlare, il più diplomatico. Io o Alec avremmo fatto un gran casino, invece, lo ammettevo senza problemi. “La tua signora è stata gentile a offrirci questo servizio.”

“L’ospitalità è primaria, in terra d’Irlanda” chiosò diplomaticamente l’autista, prima di lanciarmi un’occhiata attraverso lo specchietto retrovisivo e aggiungere: “Non stento a credere che voi siate sia wicca che custode del nostro potente progenitore, Prima Lupa. L’energia che scaturisce dal vostro corpo, anche adesso che l’aura è a riposo, è grande e… dolce.”

Sorrisi appena a quel commento e ammisi: “Ne sono consapevole. Mi reputo alla stregua di un enorme vasetto di miele.”

Il licantropo accennò un sorrisino di fronte al mio tentativo di apparire simpatica, e dichiarò: “La mia signora apprezzerà il vostro umorismo. Non le piacciono le persone troppo compiaciute di sé.”

“Oh” esalai, cominciando a subodorare perché Erin ce l’avesse tanto con Sebastian.

Alec ridacchiò sardonico, forse giunto alle mie stesse conclusioni, o forse sentitosi preso in causa.

Neppure lui brillava per umiltà, questo andava detto, anche se nelle ultime settimane era migliorato non poco.

Duncan, limitandosi ad un sorriso di circostanza, celiò: “La tua signora scoprirà presto che la mia Prima Lupa ama scherzare su tutto, e anche nei momenti meno opportuni.”

A quel punto il licantropo scoppiò a ridere di gusto. “Allora andranno d’amore e d’accordo, Fenrir di Matlock. D’amore e d’accordo.”

“Dio ci assista” sospirò a quel punto Duncan, sorridendomi benevolo.

Io ricambiai con un ghigno sardonico, trovando già simpatica Erin, mentre Alec sbuffò contrariato, forse irritato all’idea di trovare una mia emula in terra d’Irlanda. Non aveva mai fatto mistero di non sopportare il mio carattere… mordace.

Impiegammo quasi un ora per liberarci del traffico cittadino ma, alla fine, riuscimmo a raggiungere una piacevole quanto intima area verde.

Una stradina a senso unico si allungava sinuosa attraverso il parco di latifoglie tra cui sorgevano sporadiche ville, intervallate da immensi prati fioriti e alti muri di cinta in sasso.

Al suo interno, protetta da quella naturale barriera di piante ed arbusti in fiore, si trovava una piccola quanto incantevole villetta a due piani in stile neoclassico dell’ottocento francese.

L’entrata ad arco in stucco color panna era sorretta da due belle colonne di liscio marmo bianco.

Una greca in bassorilievo si dipanava orizzontalmente lungo tutto il muro, delimitando il primo piano della villa.

Ai due lati del portone d’ingresso, alte e frequenti finestre si intervallavano a brevi tratti di mattoni faccia a vista e, al piano superiore, ampie porte finestre si aprivano su  balconate in ferro battuto.

Fermata l’auto nell’ampio cortile antistante l’imponente ingresso, il nostro accompagnatore – presentatosi a noi con il nome di Richard – ci aprì la portiera per poter uscire dalla Mercedes.

Affascinata, dopo aver dato un’occhiata al bel pratino all’inglese che si perdeva nel boschetto che circondava la tenuta, esalai: “E’ un luogo davvero delizioso in cui vivere.”

“La mia signora ama la tranquillità. E da qui, il nostro Vigrond è molto vicino” ci spiegò Richard, aprendo il bagagliaio per recuperare i nostri trolley.

Dalla porta d’ingresso, in legno scuro e ricoperta di intagli tondeggianti, fece capolino una sottile figura di bambina che, scrutandoci curiosa e con occhi intelligenti, fece qualche passo nella nostra direzione prima di fermarsi al limitare dei gradini che portavano all’entrata.

Io sorrisi spontaneamente a quella bellezza bionda di circa otto anni, abbigliata con un semplice paio di jeans, scarpette da ginnastica e una maglietta di Hello Kitty.  

Lei, accentuando il proprio, esordì dicendo: “Benvenuti a Villa Chiara. Io sono Penelope Durtmore, ma tutti mi chiamano Penny. La mamma è al telefono, ma arriverà subito.”

Mamma? Erin aveva una figlia?

Tutti e tre ci scambiammo occhiate incuriosite mentre Richard, entrando con i trolley alla mano, sorrise benevolmente alla bimba, chiedendole: “Penny, pensi tu a fare strada ai nostri ospiti?”

“Li porto nel salottino blu?” si informò allora la bimba, annuendo al gigantesco licantropo.

“Ottima scelta” annuì Richard prima di lasciarci nelle mani della bambina che, da perfetta padrona di casa, si scostò dall’entrata per farci entrare.

Basiti di fronte a questa scoperta, entrammo in silenzio nella bella villetta, camminando in fila indiana lungo il corridoio in parquet e ricoperto da un infinito tappeto orientale dai toni del marrone e del rosso.

Alle pareti, ricoperte da pannelli in legno di ciliegio, piccoli quadri di scene campestri si intervallavano a fotografie di Penny e di una donna alta e dai folti capelli biondo-ramati – presumibilmente Erin.  

Piccole cassettiere in stile Luigi XV ricoperte di bei centrini e vasi cinesi ricolmi di fiori freschi abbellivano l’intero ambiente, dando un’idea del gusto sopraffino dei suoi abitanti.

Procedendo spedita dinanzi a noi e mantenendo un’andatura abbastanza sostenuta, la bimba si fermò più o meno a metà del corridoio e aprì una porta in legno di ciliegio, dicendoci con un gaio sorriso: “Prego, entrate pure.”

“Grazie” assentii io per tutti, entrando per prima.

All’interno, il mobilio rispecchiava quello intravisto fino a quel momento.

Un’ottomana era sistemata sotto un’alta finestra, ombreggiata da delicate tende di batista azzurro cielo.

Nel mezzo della stanza, due divani in stile Luigi Filippo dai variopinti cuscini fiorati si accompagnavano a un basso tavolino in radica di legno e una credenza a vetri, dove era esposta una bellissima collezione di bicchieri in cristallo boemo.

Il parquet, in quella stanza, disegnava figure geometriche romboidali, a differenza del corridoio dove, invece, era stato disposto longitudinalmente rispetto alle pareti.

Lo osservai ammirata, notando lo splendore del legno e la totale assenza di difetti prima di accomodarmi e dire, rivolta a Penny: “La tua casa è davvero splendida.”

“Grazie. A me e la mamma piacciono tanto questi mobili. Li aveva comprati tutti papà” sorrise lei, accomodandosi al fianco di Alec che, con mia somma sorpresa, si scostò il più possibile e la fissò come se avesse accanto un serpente a sonagli.

“Paura dei bambini?” chiesi mentalmente a Duncan fissando di sottecchi Alec, che pareva quasi terrorizzato dalla presenza di Penelope.

“E chi lo sa? Non conosco Alec così bene, ma direi che è sinceramente spaventato dalla bimba” commentò divertito Duncan prima di avvertire, al pari mio e di Alec, la carezza vellutata dell’aura di un licantropo. E non si trattava di Richard.

Un attimo dopo aver percepito quel potere morbido e fluttuante, la porta si aprì e al nostro cospetto si materializzò la donna delle fotografie, che si presentò come Erin O’Hara.

Le stringemmo a turno la mano – per i saluti lupeschi avremmo atteso di conoscerci meglio, visto che appartenevamo a due Congregazioni diverse – prima di tornare ad accomodarci sui divani.

Sorridendo alla figlia prima di accomodarsi a sua volta, scegliendo per sé l’ottomana, accavallò le lunghe gambe - abbracciate da un paio di pantaloni di lino color oliva - e asserì elegantemente: “E’ un onore per il mio clan avere simili ospiti. Siate i benvenuti.”

“L’onore è tutto nostro, Fenrir di Belfast” replicò Duncan, prima di aggiungere: “Lei è Brianna, wicca del mio branco e mia Prima Lupa, mentre lui è Alec Dawson, Fenrir di Bradford.”

Annuendo, Erin ci scrutò per un momento con i suoi penetranti occhi verde-azzurri prima di soffermarsi su di me e dichiarare con sincerità: “La tua aura è come un afrodisiaco, wicca, e assaporarla sulla lingua è un’esperienza più unica che rara. Capisco perché i primi uomini che vennero in contatto con il nostro progenitore ne rimasero sconvolti e ne ebbero paura. Immagino che un simile potere potesse essere percepito persino da loro.”

Ha ragione. Ne erano in grado.

Dopo gli eventi traumatici del mio rapimento, Fenrir si era chiuso in se stesso, lasciandomi il tempo di recuperare le forze senza dover affrontare discorsi opprimenti su ciò che ci sarebbe spettato nell’affrontare i berserkir.

Fu per quello che quasi sobbalzai per la sorpresa quando lo sentii emergere dal mio subcosciente così di colpo, senza alcun avvertimento.

“Vuoi farmi morire di paura?”

Scusa. Busserò, la prossima volta. E nel dirlo, ridacchiò prima di scomparire così com’era venuto, in un attimo.

Sbuffando contrariata, replicai con un sorriso di scuse: “Perdonami. Stavo discutendo con Fenrir. Diceva che hai perfettamente ragione. Gli umani erano in grado di percepire il suo potere e, forse, l’odio e la paura nei suoi confronti sono nati anche da questo, oltre che dal suo aspetto apparentemente inquietante e dalla magnifica pubblicità offerta da suo padre Loki.”

Erin sbatté le palpebre un paio di volte prima di sorridere divertita e la figlia, fissandomi con aperta sorpresa, esalò: “E’ davvero la custode dell’anima di Fenrir, mamma?”

“Sì, piccola mia” annuì Erin, prima di reclinare ossequiosa il capo e mormorare: “Onorerai la mia casa e la mia famiglia con la tua benedizione, wicca?”

“Ne sarò lieta” annuii prima di allungare una mano in direzione di Penny, chiedendole: “Puoi venire qui un momento?”

All’assenso della madre, Penny mi raggiunse fiduciosa ed io, sfiorate le sue gote paffute, le sorrisi e appoggiai la mia fronte alla sua. “Che il Sole guidi il tuo cammino, la Madre Terra sfami i tuoi bisogni e la Luna ti accompagni durante il tuo sonno notturno. Che il vento ti sia compagno, il lupo guida e protettore e la notte amica fidata. Che la tua tana sia porto sicuro dal freddo, dai nemici e dalla malasorte. Ciò chiedo per te e per coloro che hai nel cuore.”

Detto ciò, la baciai sulla fronte e Penny, con una piccola riverenza, mi ringraziò prima di trotterellare al suo posto, sempre al fianco di Alec che, in silenzio, aveva assistito a quel rito propiziatorio fissando la bambina con aria accigliata.

Chissà perché ne aveva così timore?

“Ti ringrazio, wicca” disse semplicemente Erin.

Un attimo dopo, ombrosa in viso, ci domandò: “E ora ditemi cosa è successo, e perché necessitate di conoscere la storia dei berserkir. Come mai questo nome è risorto dall’oblio in cui era rintanato con tutti i suoi orrori?”

“Eri dunque a conoscenza della loro esistenza?” le chiese Duncan, vagamente sorpreso.

Annuendo, Erin lanciò uno sguardo all’esterno dell’abitazione, perdendosi in contemplazione del bosco per alcuni attimi prima di tornare a guardarci e asserire: “Mio marito perì a causa loro. Giunsero all’imbrunire, più o meno un anno fa, mentre io ero in ospedale con Penny, e lo uccisero nel suo studio.”

Il mio sguardo corse alla bambina che, silenziosa e col capo chino, teneva le mani strette in grembo, le labbra ridotte a un’esile linea color ciliegia.

Erin la scrutò a sua volta solo per un attimo e continuò dicendo: “Cercavano i documenti risalenti al regno di Conor Mac Nessa, signore dell’Ulster ai tempi di Cu Chulainn. Per lo meno, è quello che è riuscito a dirci Marcus prima di spirare.”

Alec si adombrò in viso e parlò per la prima volta, chiedendole con la sua voce profonda e baritonale: “Perché proprio quei libri?”

Erin scosse il capo, il viso una maschera di impassibilità e gli occhi come diamanti, spiegandoci ciò che sapeva. “Posso solo dirvi che lo hanno torturato, pur di averli, ma Marcus non ha detto loro dove si trovavano gli antichi testi, così lo hanno lasciato morente, in un bagno di sangue, mentre le sirene della polizia si avvicinavano alla libreria dove aveva lo studio. Alcune dipendenti avevano sentito il trambusto provocato dal loro… interrogatorio, così decisero di chiamare le autorità, ma fu troppo tardi, per lui.

Reclinò mesta il capo mentre la mano destra, incessante, torturò l’anello di brillanti che portava all’anulare sinistro.

“Sai cosa ci sia scritto, su quei testi?” chiesi a quel punto io, stringendo le mani in grembo con impazienza malcelata.

“Misi alcune traduttrici al lavoro non appena mi fu possibile e, da quel poco che siamo riusciti a capire finora, si tratta di storie tramandate da antichi cantori sulla vita dei berserkir e sulle loro usanze, su ciò che li rende forti e su ciò che li danneggia” mi spiegò Erin, cambiando posizione sull’ottomana e accavallando le gambe con un gesto nervoso.

Possibile che il mio rapimento fosse solo l’ultimo tassello di un piano molto più complesso messo in atto da Loki?

E’ probabile. Loki non lascia nulla al caso e quelle informazioni, lasciate nelle mani sbagliate, avrebbero potuto danneggiarlo. Se tu avessi saputo, per esempio, come fronteggiarli, lui non avrebbe mai potuto agire sfruttando la loro forza.

“Perché non tornare per recuperare i documenti in un secondo tempo?” chiesi allora prima di scorgere un particolare che, in precedenza, non avevo notato.

Sensori di movimento alle finestre.

Erin, avvedendosi della mia occhiata, annuì. “Tutta la casa è sorvegliata da un sofisticato sistema di sicurezza e camere blindate si trovano nel seminterrato, assieme a una scorta di cibo sufficiente per due mesi. Inoltre, ventiquattrore su ventiquattro, il perimetro è pattugliato dai miei lupi. La stessa cosa si può dire per i sotterranei della libreria, che sono più controllati del caveau di una banca. Hanno tentato di rientrare nel mio territorio più di una volta, da quel giorno, ma sono sempre tornati al mittente. Non hanno più potuto prenderci di sorpresa così, alla fine, hanno desistito. All’incirca tre mesi fa sono finite le scorrerie, se non ricordo male.”

Annuendo grave, borbottai: “I tempi combaciano, più o meno, allora. Io sono stata rapita da un gruppo di berserkir solo poco tempo fa e, a guidarli, era un giovane in cui dimorava lo spirito di Loki. Ora lui è morto assieme ai suoi guerrieri, ma temo che la faida non sia finita. Lui li ha convinti di essere Tyr redivivo e che io, o meglio, lo spirito di Fenrir che alberga dentro di me, sia rinato per distruggere ogni cosa. I berserkir sono fedeli a Wotan e, quando hanno saputo della presenza dell’odiato Fenrir sulla Terra, beh, non hanno gradito. Soprattutto considerando quanto sia deviata la loro credenza nei confronti del nostro progenitore.”

“Il Ragnarök, intendi?” intuì Erin, annuendo a sua volta.

“Esatto. Loro pensano sia qui per questo, e tenteranno di uccidermi per impedire che ciò avvenga, non sapendo che la mia morte violenta, invece, lo scatenerà” dichiarai lapidaria, notando lo stupore balenare nei suoi occhi chiari.

“Che intendi dire?” chiese a quel punto Erin, con aria accigliata.

“Che se morissi di morte violenta, o perdessi del tutto il controllo su me stessa, il potere di Fenrir esploderebbe in tutta la sua devastante potenza, riducendo il mondo intero in briciole” spiegai con voce resa roca dall’ansia che nasceva in me ogni qual volta pensavo a quello che avrebbe potuto succedere se avessimo fallito.

“Come hanno potuto credere a Loki? Possibile che non abbiano riconosciuto in lui il male?” mi chiese Erin, dubbiosa, scuotendo il capo come a non voler pensare alla devastazione potenziale di cui le avevo appena parlato.

“Non so rispondere a questo. Posso dirti che neppure io lo riconobbi, finché non fu lui a mostrarmi il suo vero Io. E, dopotutto, si tratta pur sempre del dio degli inganni” le spiegai succintamente, notando come anche Penny, nonostante la sua giovane età, seguisse i nostri ragionamenti con interesse.

Doveva essere una ragazzina estremamente intelligente e, suo malgrado, più matura della sua età. La capivo. E molto.

Annuendo grave, Erin si oscurò in volto e, annuendo diverse volte, disse con profonda comprensione: “Il peso che porti è immane, wicca, e non ti invidio. Ma capisco l’urgenza che vi muove, e vi aiuterò con ogni mio mezzo. Domani partiremo alla volta di Emain Macha e lì vi mostrerò i documenti riguardanti i berserkir, dopodiché andremo a cercarli per tentare di riportarli a più miti consigli. Questo è ciò che il Consiglio ha deciso.”

Digerii quelle parole molto più lentamente di Alec e Duncan e, quando mi resi conto di ciò che Erin aveva detto, ormai era tardi per fermare le parole del nostro riottoso compagno di viaggio.

Delicato come suo solito, ringhiò un sentito: “Non se ne parla, femmina. Il tuo posto è qui a casa!”

Penny, evidentemente, non aveva mai sentito nessun licantropo rivolgersi così alla madre.

Fissò a occhi sgranati l’enorme Fenrir che le sedeva al fianco mentre lo sguardo di Erin, da calmo e compassato che era, si tinse di fosco, puntando direttamente alla gola del suo ospite non più tanto gradito.

Duncan, fissando malamente l’amico, intervenne con il suo solito tono pacificatore. “Naturalmente la tua proposta ci onora, Erin, ma non vorremmo mai allontanarti dalla tua bambina e dal tuo branco.”

Degnando di una sola occhiata Duncan, Erin continuò a fissare gelida Alec – che ne reggeva lo sguardo con aria strafottente – e replicò: “Ti sono grata per le tue cortesi parole, Fenrir di Matlock, ma la decisione è stata presa già prima del vostro arrivo. Nessun clan della Libera Irlanda è disposto a lasciare che la custode di Fenrir viaggi senza degna scorta, perciò abbiamo votato su chi fosse il più adatto a seguirvi nella Cerca.”

“E sei saltata fuori tu?” esclamò sprezzante Alec.

Il mio branco, per una pistola caricata ad argento!

Dio, avrei voluto strangolare Alec con le mie stesse mani! Ma chi gli aveva insegnato l’educazione? O meglio; gliel’avevano mai insegnata!?

Erin rispose alla sua insolenza sollevando un biondo sopracciglio e replicando ironica: “Avresti preferito dei Fenrir vecchi e non più nel pieno delle forze? Sono l’elemento più giovane tra i capiclan, perciò era ovvio che fossi io a seguirvi. Questo è quanto, prendere o lasciare.”

“Lascio” brontolò Alec, alzandosi per poi guardarci accigliato. “Non permetterò che una femmina ci segua, lasciando a casa una bambina senza alcun genitore a proteggerla!”

Oooh. Scrupoli di coscienza in Alec? E quando mai?

Un po’ confusa, fissai Alec come se lo vedessi per la prima volta in vita mia e Duncan, frastornato non meno di me per quell’uscita inaspettata, cominciò col dire: “Sono lodevoli motivazioni, Alec, ma…”

“Niente ma. Non se ne parla di portarla con noi. Andiamocene. Faremo a meno di quei documenti” sbottò Alec, inviperito.

“E mi spieghi dove andrai a cercarli, possente guerriero?” celiò Erin, divertita dalla sua tirata.

“Me la caverò anche senza ficcare il naso in mezzo a dei libri ammuffiti e di cui non capirei neppure mezza parola” sbuffò lui, intrecciando le braccia al petto con aria burbera.

Okay, questo era l’Alec che conoscevo!

“Allora è vero quel che si dice di te, Alec di Bradford. Che la tua testardaggine è sorpassata solo dalla tua stupidità” mormorò Erin, aprendosi in un sorriso derisorio.

Sollevando gli occhi al soffitto, già pronta a intervenire per sedare una rissa che prevedevo imminente, vidi Duncan alzarsi per afferrare Alec prima che si scagliasse su Erin.

A sorpresa, però, il licantropo in questione si limitò ad espandere la sua aura in preda all’ira più nera, forse non volendo infierire su una donna a mani nude. O, forse, per non spaventare Penelope.

La violenza di quell’onda metapsichica finì così per colpire fisicamente la padrona di casa che, aggrottando la fronte, eresse una barriera per difendersi dal suo attacco mentale.

E mostrandoci qualcosa che mai ci saremmo aspettati.

Bloccandosi subito mentre, preoccupata, Penny si sollevava dal divano per raggiungere la madre – ora visibilmente impallidita – Alec sbottò esclamando: “Non sei un Fenrir!”

***

Sorseggiando il buon the alla cannella che una domestica ci servì in splendide porcellane decorate a motivi fiorati, fissai da sopra il bordo della tazza il volto teso e stanco di Erin.

La donna stava carezzando il capo biondo della figlia e, pacata, ci stava raccontando il perché della sua nomina a capo branco.

“Non avremmo mai potuto mettere al governo di un intero branco un bambino di tredici anni che non aveva neppure iniziato il suo apprendistato come Fenrir presso mio marito, e Sköll venne ucciso assieme a Marcus durante l’assalto dei berserkir. L’unica a poter guidare il branco ero io, così il Consiglio mi nominò Fenrir per procura. Presi sotto la mia ala Albreckt che, al compimento dei sedici anni, assurgerà al ruolo di nuovo Fenrir del branco e, da quel momento, mi assunsi il ruolo che, fino ad allora, era stato del mio compagno” ci spiegò Erin, sfidando Alec con lo sguardo a ribattere al suo discorso.

“Motivo di più per non seguirci. Sei solo una comune lupa e…” cominciò col dire lui, prima di venire fulminato dallo sguardo di Erin. “Okay, sei una Prima Lupa, ma non hai alcun potere. Non hai la forza di un Fenrir, né i doni di Brianna. E avresti sempre la testa rivolta qui.”

Nel dirlo indicò Penny che, sentendosi messa in mezzo, fissò Alec con sguardo adamantino.

“Vedi, Alec, quel che dici non conta nulla, qui, perché in terra d’Irlanda tu non hai potere decisionale. E il Consiglio dei Clan ha decretato che io verrò con voi. Penny starà dai suoi zii, protetta da un intero clan che la adora. E io so badare a me stessa, come so badare alle mie emozioni. Pensi sia stato facile portare a termine una gravidanza all’età di ventuno anni? Pensi che potrebbe farlo qualsiasi lupa?” ringhiò Erin, facendo scintillare gli enormi occhi verde-azzurri. “Pensi sia stato facile portare avanti il clan dopo aver perso mio marito per mano dei berserkir?”

“Proprio per questo dovresti rimanere con lei! Per non rischiare che resti senza neppure un genitore!” sibilò a sua volta Alec adombrandosi, gli occhi percorsi da un sentimento simile all’angoscia. Cosa lo turbava così tanto, in quella situazione?

“Non ha tutti i torti” mi disse mentalmente Duncan, osservandoli con aria combattuta.

“Non lo metto in dubbio, ma non è una decisione che spetta a noi” precisai con tono duro.

“Vero. Ma non mi va l’idea che la bambina rischi di rimanere senza genitori.”

“Perché date per scontato che Erin debba morire?” brontolai a quel punto.

“Non è per mancanza di fiducia, ma le motivazioni di Alec sono valide. Una Prima Lupa non avrà mai la forza di un Fenrir e, volente o nolente, il suo pensiero correrà spesso alla figlia, rendendola vulnerabile.”

“Pensi da maschio” gli feci notare con una punta di sarcasmo.

“Penso con coscienza” precisò Duncan, storcendo la bocca nel fissarmi male.

“E credi che lei non lo faccia? Sa benissimo che questo pericolo minaccia tutti noi! Hanno ucciso il suo compagno! E’ normale che cerchi vendetta, che cerchi il modo di mettere al sicuro la sua creatura!” protestai, accigliandomi a mia volta, mentre Erin e Alec si guardavano in cagnesco.

Sbuffando, Duncan distolse lo sguardo dal mio per rivolgersi a Penny e, con voce tranquilla, le chiese: “Tu cosa ne pensi, Penny? Vuoi che tua madre venga con noi, con il rischio che si faccia male?”

Penny sollevò il capo poggiato sulle ginocchia della madre e, alternativamente, fissò tutti noi in un silenzio di tomba, spezzato soltanto dal rintocco lontano di un orologio a pendolo.

I suoi profondi occhi chiari ci studiarono a fondo, quasi penetrando nelle nostre menti per comprendere se, di noi, ci si potesse fidare a sufficienza.

Lo sguardo più lungo e accigliato lo concesse ad Alec, che resse la sua occhiata senza battere ciglio, senza neppure emettere un fiato. La sua aura, però, tremolò e non ne compresi il motivo.

Alla fine di quell’attento esame, sospirò e annuì dicendo: “La mamma può venire con voi, se vuole così. Io starò con zio Mike e zia Rachel.”

Erin sorrise alla figlia, piegandosi per darle un affettuoso bacio sul capo mentre Alec, disgustato, cominciò a passeggiare nervosamente per la stanza, brontolando sommessamente prima di proclamare caustico: “Sia chiaro. Non sopporterò neppure un piagnisteo da parte tua!”

“Ora lo ammazzo!”, pensai, già sul punto di levarmi in piedi per dirgliene quattro.

Duncan mi trattenne per un braccio, replicando deciso: “Ci penserà Erin a metterlo a tacere.”

Già sul punto di ribattere, mi azzittii quando vidi la donna levarsi in piedi per fronteggiarlo a muso duro.

Portandosi a poco meno di un passo da lui, lo sguardo levato a incontrare gli occhi grigi di Alec e la mascella tesa a contenere la rabbia che sfrigolava sulla sua pelle come olio bollente, ghignò sfacciatamente.

Penny, mordendosi un labbro, si limitò a dire: “Ahia.”

Compresi solo dopo qualche secondo cosa avesse voluto dire la bambina con quel commento profetico.

Senza dar alcun segno di preavviso, Erin scaricò un destro nel bel mezzo dell’addome muscoloso di Alec.

Impreparato a quell’assalto così diretto, e fisico, lui si piegò in avanti emettendo un ‘oh’ strozzato prima di portarsi le mani in grembo per ripararsi da un ulteriore attacco.

Massaggiandosi la mano e squadrandolo da capo a piedi mentre lui cercava di non imprecare davanti a Penny, Erin sibilò a denti stretti: “Rammenta solo una cosa, cane… ho messo al mondo una figlia, e da licantropa. Questo fa di me una lupa un po’ speciale, non credi?!”

Raddrizzandosi a fatica, Alec la fissò malissimo – anche se malissimo è un eufemismo, nel caso specifico – e, massaggiandosi lo stomaco contuso, ringhiò: “E tu rammenta una cosa, cagna… io ho ammazzato il mio Fenrir a quattordici anni per avere il dominio sul branco. Questo fa di me un lupo un po’ speciale, non credi?!”

Penny si nascose automaticamente dietro il corpo della madre e Duncan, ormai stanco di quel braccio di ferro tra i due, si levò in piedi per chetare definitivamente le acque.

Poggiata una mano sulla spalla di Alec, decretò perentorio: “Ora basta, Alec. Credo vi siate ampiamente spiegati.”

“Sentitelo, Mister Diplomazia!” brontolò Alec, scostandosi di malagrazia dal suo tocco.

Sputando aria dalle narici per la rabbia, incanalai dentro di me l’ira febbricitante di Alec e, come Erin, non diedi alcun preavviso del mio attacco.

Scaricai contro l’alfa tutto il suo rancore represso e lo scaraventai gambe all’aria in fondo alla stanza contro la pannellatura di legno, che tremò per alcuni secondi prima di tornare alla normalità.

Se Erin, Penny e Duncan rimasero sorpresi da quell’improvviso capitombolo, non lo fu Alec.

Già vittima una volta dei miei contraccolpi psichici, imprecò – stavolta senza badare alla bambina – e mi ringhiò contro sbottando: “Cazzo, non un’altra volta!”

Duncan mi fissò confuso, non gli avevo mai raccontato del mio incontro-scontro con Alec nella radura ma io, scrollando le spalle come per voler lasciare stare, lo rabberciai acida: “Parla bene, insomma!”

Erin mi fissò con un mezzo sorriso sul volto, tornato nuovamente di un bel color rosa pastello ed io, strizzandole l’occhio, le confidai: “Ci vuole poco per sistemare i bollenti spiriti di certi lupi.”

Rialzandosi un po’ acciaccato, Alec si sistemò nervosamente i pantaloni, minacciandomi con un dito puntato contro di me. “Questa me la paghi, streghetta.”

Gli sorrisi divertita – quello ‘streghetta’ era più un vezzeggiativo che un insulto, detto da Alec – e replicai: “Ti aspetto al varco. Ma, nel frattempo, vedi di non costringermi a usarti per demolire la casa di Erin.”

Alec non mi rispose il che, di per sé, fu un’autentica vittoria.

Duncan si limitò a sorridermi con aria esasperata e, mentalmente, mi domandò: “Sono stato davvero troppo diplomatico?”

“Un po’. Con Alec, certe cortesie non servono a nulla. La prossima volta, opterei per una mossa ‘alla Erin’. Si è rivelata molto efficace” replicai, sorridendogli di rimando.

“Messaggio ricevuto” annuì lui, prima di guardare Penny e dirle: “Siamo un gruppo un po’ strano, eh?”

“Sì” ammise la bambina sorridendo a Duncan che, nel darle un buffetto sulla guancia, allargò il suo sorriso fino ad illuminarsi in viso.

“Vorresti un figlio?” gli chiesi di punto in bianco.

“Voglio te. Punto” replicò lui, scompigliando i capelli di Penny prima di volgersi verso di me per dare maggiore peso alle sue parole. “Solo te.”

  
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