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Autore: Clarice Hai    13/08/2013    2 recensioni
Mi chiamo Noomi e sono l'assassina, il sicario e la ladra più ricercata di tutta Oteph. Non sono solamente i soldati di tutto il regno che da anni cercano di catturarmi o i manifesti appesi per tutte le città con uno scarabocchio mal riuscito del mio lungo mantello nero a dimostrarlo; lo è il mio lungo pugnale nero, che tengo legato con una cintola al mio braccio sinistro, lì, vicino al cuore, come se fosse lui quella parte anatomica che mi fa rimanere in vita, che fa pulsare il mio corpo.
Vivo sulla sofferenza degli altri.
Nessuno sa chi sono veramente. Solo io lo so. Sono un'ombra. Tutti mi conosco ma nemmeno uno sa che faccia ho. Hanno paura di quel mantello nero eppure quando gli passo affianco non una persona fa caso a me.
Si barricano nelle loro case la notte, per scongiurare il terrore che io possa entrare, eppure, alla luce del giorno, ricevo sempre sorrisi e buone parole dalle persone che mi circondano.
Sono un'ombra. L'ombra più oscura alla luce del giorno.
Genere: Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Crono – Nono giorno lunare, quarto mese
Noomi si sentiva incredibilmente sola. Perfino il mondo della prigione le appariva ora vuoto e freddo. All’inizio trovava quasi piacevole stare li nella sua stanza, immaginando ciò che poteva accadere al di la delle mura o pensando a quale vita potessero avere le guardie fuori di li. Erano sposati? Avevano figli?.
Aveva etichettato il cuoco del refettorio come un bonario padre di cinque figli, di cui uno malato di peste rossa. L’aveva sospettato perché vedeva sempre che l’uomo nascondeva qualche pezzo di pane sotto il grembiule e una volta l’aveva intravisto uscire dall’infermeria con un rametto di bacche blu, ingrediente per tenere a bada la febbre alta sintomo di peste. I pezzi di pane erano sempre cinque, probabilmente era anche vedovo. Aveva una lettera tatuata dietro il collo. Noomi non era riuscita a vedere bene di che lettera si trattasse, ma era disegnata affianco a due ali d’angelo. E i suoi turni finivano sempre prima degli altri.
 Invece la donna che sedeva sempre davanti all’ufficio  del  commissario, alta e grave, con i corti capelli neri a coprirle sempre l’occhio destro non aveva sicuramente un marito. Stava in prigione fin’oltre la sua fine del turno, alcune volte non tornava nemmeno a casa. Non chiacchierava mai con nessuno, spesso non rispondeva neppure alle domande. Mugugnava qualcosa e girava le spalle, creando una barriera tra lei e l’interlocutore.
Noomi non provava più nemmeno piacere in quello stupido passatempo. Sentiva che stava tenendo sulle spalle un macigno troppo grosso per lei, che presto le sarebbe gravato addosso, distruggendola. Non poteva resistere ancora a lungo, quel luogo la stava mangiando. Passava le giornate arrancando, minuto dopo minuto, secondo dopo secondo. Aveva iniziato ad avere delle crisi. Iniziava a piangere e una rabbia cieca si prendeva possesso di lei. Distruggeva le lenzuola e i cuscini, picchiava pugni contro le pareti, distruggendosi le nocche. Poi si abbandonava sul pavimento in pietra e li si assopiva.
Sapeva di non essere l’unica così, ogni tanto durante i pasti, nel suo posto isolato al refettorio ascoltava i discorsi degli altri prigionieri. La colpa era di quel posto, quell’edificio buio e sporco in cui dei bastardi li aveva cacciati tutti quanti. Ti lacerava dentro, non lasciandoti più niente se non la tua folle sete di libertà.
Noomi si guardò le mani, le lunghe dita affusolate e quello sfregio sul palmo sinistro che s’era procurata anni prima, durante un combattimento. Le nocche erano ricoperte di crosticine insanguinate, segno dei pugni della notte precedente e le unghie, lunghe e forti erano scheggiate. Detestava le sue mani, tutta la sua essenza era lì. Racchiudevano la morte. Se non tenevano un pugnale allora servivano per strangolare, strappare, uccidere.
Le giornate si susseguivano l’uno all’altro, sovrapponendosi, contorcendosi, sempre uguali. Noomi sentiva il suo cervello palpitare e bruciare ogni volta che apriva gli occhi. Non si alzava più nemmeno dal letto. Riuscire a scappare da li non era  impossibile, ma aveva le membra talmente stanche e pesanti che non aveva nemmeno la forza di fare ciò che una volta le risultava così facile: togliersi dai guai.
Era dimagrita ancora di più. Riusciva a toccarsi le costole e affondare il dito nello spazio tra una e l’altra. Le caviglie erano diventate così sottili che ogni tanto aveva paura che non riuscissero nemmeno a raggere l’esile peso del suo corpo. Aveva la pelle del viso tirata e le guance infossate. Pallida e cerea pareva un fantasma.
 
“Pagherai per tutto quello che hai fatto. Le persone che hai ucciso avranno finalmente la loro vendetta e tu quello che ti meriti. Io avrei optato per la tortura, ma il re è stato magnanimo. Dai uno sguardo a queste case e alla gente, perché questi saranno i tuoi ultimi ricordi, Noomi”
“Tornerò bastardo, e quando lo farò per te sarà la fine”
 
Noomi si svegliò di soprassalto. Per una frazione di secondo non riuscì a capire dove si trovasse, poi si rese conto di essere nelle celle di Crono. Ancora. La notte prima aveva avuto una crisi: Le croste sulle nocche delle mani erano saltate vie e c’era del sangue rappreso sul dorso e palmo delle mani. Bruciavano. Sentiva tutti i muscoli del corpo rigidi e la testa leggera. Stava per alzarsi quando per un momento la memoria tornò. La sua ultima mattina. Il pomeriggio l’avrebbero giustiziata, lasciando cadere nell’oblio quell’assassina tanto ricercata. Le anonime pareti grigie della sua stanza erano bruciate dalla luce rossa del sole che stava sorgendo dietro i pinnacoli della città. Se avesse teso le orecchie probabilmente avrebbe sentito le voci dei mercanti mattinieri pronti a scendere in piazza. Quella mattina i loro affari sarebbero andati a gonfie vele. Molta gente sarebbe stata a Crono, in vista dell’esecuzione dell’assassina.

Sentiva l’occhio destro pulsarle terribilmente e non riusciva bene ad aprire la palpebra. Si portò la mano lì dove sentiva il dolore ma dovette ritirarla subito, emettendo un profondo ringhio. Aveva l’occhio iniettato di sangue, un lungo taglio fino al sopracciglio contornato di viola stava iniziando a prendere infezione. Aveva fatto a botte dopo cena, questo se lo ricordava. La cosa che le sfuggiva era con chi e perché. Nonostante il senso di fame che le attanagliava la pancia facendogliela brontolare, la sola vista del latto e del pane dolce ai mirtilli poggiato sul vassoio vicino alla porta le fece vomitare bile. Si stese sulla branda sfondata del letto, assopendosi in un leggero e inquieto sonno fino a quando la sua porta non venne spalancata.
 
Il commissario sentì un vuoto allo stomaco. Nonostante la sua assassina fosse legata a terra e completamente disarmata riusciva lo stesso a spaventarlo. Non voleva darlo a vedere e farglielo capire ma era sicuro che avrebbe avuto gli incubi tormentati dal suo volto per molto tempo. L’avevano trascinata in piazza quella mattina alle prime luci dell’alba; per un attimo, quando avevano fatto irruzione nella sua stanza, avevano creduto che fosse morta. Uno scheletro pallido incorniciato da capelli corvini abbandonato su una sudicia branda da prigione. Lei aveva reagito agli scossoni delle guardie aprendo piano gli occhi neri. Aveva l’iride offuscata da una leggera patina trasparente e appiccicaticcia, l’occhio destro gonfio. Avevano chiamato un medico. Il commissario non voleva che morisse da sola in quella stanza. Doveva essere una cosa pubblica. Il dottore della prigione era rimasto chiuso nella cella della ragazza per una mezz’ora, prima di uscire. Aveva riferito ai presenti che l’assassina stava male e non ce l’avrebbe fatta, non sarebbe stato nemmeno necessario rimandare il processo. Sarebbe morta lo stesso da li a qualche giorno.
La guancia di Noomi era premuta su della paglia umida. Quando riuscì ad aprire gli occhi davanti sé vedeva sbarre di legno. La cassa in cui era rinchiusa scivolava a destra e sinistra, veniva sbattuta e rimbalzava. Era su un carro. Ancora confusa e tramortita ci impiegò un po’ a capire cosa stesse succedendo. Al di la delle sbarre notò i completi lucidi delle guardie di Crono e i manici delle loro alabarde. Lottando con la nausea che le stringeva lo stomaco si mise a sedere, poggiando la schiena contro le sbarre. Aveva piedi e mani legati ed era imbavagliata. Sentiva la gola riarsa. Aveva bisogno di bere.
Si guardò intorno cercando di riconoscere in che zona della città fossero. Notando i viali alberati e le strade costruite con grossi sassi bianchi capì di essere nel quartiere della cattedrale di Crono. Com’era consuetudine il commissario e la guardia avrebbero chiesto al prete se concederle la grazia o no. Nel caso gliel’avessero concessa lei sarebbe stata libera, in caso contrario, il suo destino era segnato. Noomi sapeva benissimo che tutta quella falsa della grazia per lei era solo un gesto di buon costume. Tutti non aspettavano altro che vederla morta. Il prete non avrebbe mai concesso niente. Non a lei.
La porta del carro si aprì. Un soldato, anziano e muscoloso la prese per una gamba e la trascinò fuori. Troppo debole e malferma sulle gambe Noomi cadde tra le braccia dell’uomo. Sentiva che i conati di vomito le torturavano lo stomaco. Salivano verso l'esofago ma li si fermavano, irritando le corde vocali. La ragazza si passò la lingua sulle labbra secche. Un sole caldo bruciava alto nel cielo. Per lei, elfa boschiva, quella luce così forte era un dolore in più che si aggiungeva.
Due soldati la condussero per un buio vicolo accidentato. Noomi si guardò attorno. Conosceva a memoria tutte quelle stradine, erano vicini alla piazza della cattedrale Nell’aria si sentiva la fragranza dolce del pane appena sformato e l’odore stantio delle prigioni aveva lasciato il posto al profumo di fiori secchi del mercato floreale di Crono, famoso in quel periodo dell’anno. In lontananza sentiva il vociare della gente.
 
Le funi che le legavano le mani dietro la schiena le irritavano la pelle, più cercava di divincolarsi più quelle entravano nella carne, feroci e assassine.
“Sta buona” esordì una guardia prendendola per il braccio e scuotendola, notando i suoi tentativi di ribellione.
Noomi si girò verso di lui, con l’aria più innocente che le riuscì. Sorrise, timida e insicura, abbassando appena lo sguardo. Le bastò notare un veloce lampo di compassione nello sguardo del suo custode per sputargli in un occhio. Lo schiaffo arrivò sonoro e a palmo aperto. La rovesciò in terra, facendola rotolare tra i sassi sconnessi della strada. I calci e le botte arrivarono dopo, prendendola all’altezza dello stomaco. Vomitò tutto quello che aveva nello stomaco e la testa iniziò a vorticarle terribilmente. Sentiva di stare sul punto di svenire, ma non voleva dare loro la soddisfazione di vederla inerme. Si alzò da sola e sfidandoli entrambi si girò e iniziò a camminare verso la piazza della cattedrale. A testa alta e malferma sulle gambe.
 
Tutte quelle persone stavano in piedi attorno alla piazza della cattedrale. C’erano nobili a cavallo, bambini, vecchi e contadini. Sembrava che l’intera Crono e anche i paesi vicini si fossero tutti riuniti lì. Per Noomi erano solo un ammasso di volti anonimi. L’unico degno del suo sguardo era il prete, vestito in rosso e in piedi davanti a quattro sacerdotesse in nero. I loro volti erano coperti da uno spesso velo grigio e i loro capelli nascosti da uno strascico color carbone. I due soldati la fecero fermare davanti alle scalinate della cattedrale e con uno spintone la lasciarono crollare a terra, in ginocchio.
Noomi sentì dei passi avvicinarsi dietro di lei. Alzò per un attimo lo sguardo e notò il commissario in piedi affianco a lui, lo sguardo fisso sul sacerdote.
“Sono qui, in veste di commissario delle prigioni di Crono per chiederle se è disposto a concedere la grazia a questa nostra prigioniera”
Noomi alzò lentamente la testa, incrociando gli occhi scuri stanchi contornati di rughe dell’ officiante. Sentiva bruciare lo sguardo dei presenti sulla sua schiena e per un attimo si chiese cosa avrebbe mai fatto se le fosse stata concessa la grazia. Probabilmente sarebbe tornata a fare la sua solita vita, perché solo di quello era capace di vivere. Imparare l’arte della morte era stata una cosa che le era venuta naturale, come se fosse nata per quello. Eterea, ombra, invisibile. Lei era quello, era cresciuta per esserlo.
Il prete la squadrò. I pesanti vestiti cerimoniali sembravano dovergli crollare addosso da un momento all’altro, magro e scarno com’era, lì in piedi sulle scale era come fuori posto. Solamente polvere dentro un involucro di uomo consumato dal tempo. Poi ad un tratto la faccia del vecchio cambiò impercettibilmente, una nota di insicurezza e inquietudine. Solo un occhio allenato se ne sarebbe accorto. E quello di Noomi lo era. Sorrise beffarda. L’aveva riconosciuta.
“Sei tu..” mormorò, facendo un passo indietro inciampando nella veste.
“Che tu sia maledetta, che tu sia maledetta! Maledetta!” Continuò a urlare mentre le sacerdotesse in nero si avvicinavano a lui prendendolo per le braccia.
Noomi si alzò a fatica e subito due guardie le incatenarono le mani, puntandole una spada alla schiena.
“Sei maledetta!” La voce dell’officiante ancora rimbalzava al di sopra del vociare che si era sparso nella piazza. Noomi lo vide mentre saliva le scale, con le sacerdotesse al seguito. Goccioline di sudore gli si increspavano tra le rughe, le lacrime rotolavano giù dal mento e la bocca serrata in una smorfia di orrore lo facevano sembrare ancora più debole.
“Come mio padre prima di me!” Urlò Noomi prima di venire imbavagliata e strattonata per andare al luogo dove avrebbe detto addio a tutto ciò che aveva visto fino ad ora.
  
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