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Autore: Puerto Rican Jane    16/08/2013    8 recensioni
Marzo 1967, New Jersey. Una giovane ragazza con problemi economici e familiari, in cerca di un amore per ribellarsi. Un ragazzo con un grande sogno da realizzare. Entrambi accumunati dalla voglia di scappare dalla città di perdenti in cui vivono.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO 11 (DOWNBOUND TRAIN)
 
DIECI ANNI DOPO
Una vecchia Cadillac polverosa e dalla vernice scrostata aveva appena parcheggiato lungo il marciapiede di una buia strada secondaria, proprio di fronte ad una piccola casetta. Un tempo doveva essere stata una dimora calda e accogliente, ma ora era solo una grigia e fatiscente abitazione, consumata dalla pioggia, dalla neve, dal sole e dal vento nel corso degli anni, senza che nessuno si prendesse la briga di rinnovarla. Dalla vecchia auto scese un uomo, probabilmente di trent’anni, alto, con dei capelli ricci marrone scuro leggermente brizzolati nonostante la giovane età, con addosso ancora la divisa da lavoro blu scuro, sulla quale spiccava la scritta a lettere bianche “JOHNSTOWN COMPANY”. L’uomo si diresse verso la piccola porta della casa, trascinando i piedi, con l’aria di uno che è stato vinto dalla vita. Si fermò davanti all’entrata, trafficando nelle tasche alla ricerca delle chiavi; finalmente le trovò ma, prima di inserirle nella serratura, lanciò una veloce occhiata alla finestra alla sua sinistra: era buia, come tutta la casa d’altronde. Doveva aspettarselo. Entrò in punta di piedi nel corridoio, cercando di non fare rumore per non svegliare sua moglie e suo figlio. Una volta arrivato in cucina, si lasciò cadere di peso su una delle quattro sedie di legno, massaggiandosi le tempie per far passare il mal di testa che gli martellava il cervello dalla mattina precedente. Si sfilò l’uniforme blu, sostituendola con un paio di jeans stinti e una camicia bianca stropicciata. Prendendola in mano, Bruce sospirò: era da anni ormai che Mary non gli stirava una camicia. Avvicinò la sedia al tavolo, dove era appoggiato un piatto con dentro della pasta, ormai fredda e dura e una caraffa d’acqua tiepida. Prese svogliatamente le posate e cominciò a mangiare, assorto in altri pensieri: nella sua testa c’era una grandissima confusione di idee che, al momento, non riusciva a distinguere. Poco male, aveva tutta la notte davanti per rifletterci. Sapeva infatti che, come tutte le altre notti, non si sarebbe addormentato prima delle tre, come sapeva che anche quella nottata avrebbe trovato Mary già a letto a dormire, senza che gli rivolgesse nemmeno un saluto: il tempo del sesso, dei baci, delle carezze era già finito da molto.
Sentì dei passi leggeri scendere le scale: doveva essere Mary. Strano.
“Nomini il diavolo…”
Per un attimo la mente di Bruce fu attraversata da questo pensiero maligno, che però scacciò immediatamente, dandosi dello sciocco.
-Ciao, tesoro. - la salutò cordialmente lui.
-Ciao, Bruce. – rispose velocemente la donna. Il suo aspetto lasciava trasparire una bellezza genuina ormai perduta: aveva i capelli di un biondo spento raccolti dietro la nuca in una stretta crocchia, due vistose occhiaie sotto gli occhi marroni, la pelle molto chiara che sembrava ricoprire direttamente le ossa, tanto era magra la donna. La vestaglia rosa polvere le ricadeva cascante sul corpo, ma ne evidenziava la vita molto stretta. Bruce la guardò bene: quasi non la riconosceva, la vedeva così poco nonostante vivessero sotto lo stesso tetto, nonostante fossero sposati, nonostante avessero un figlio… ormai il loro rapporto si era ridotto al silenzio e alla sopportazione reciproca.
-Bruce… -
Male. Molto male. Quando iniziava pronunciando il suo nome con quel tono stanco e abbattuto la conversazione non portava mai a nulla di buono: l’ultima volta si era conclusa in una furiosa litigata. Tanto per cambiare.
-Bruce… Credo che ormai l’abbia capito anche tu. Tutto questo- disse facendo roteare la mano in modo da indicare la casa attorno a loro- non ha più senso. Tutto si sta trasformando in una patetica messa in scena di una apparentemente tranquilla vita familiare. Ma tu, io, e forse ormai anche Joseph, sappiamo che non è così. Non è più così da molto tempo. Quello che c’era una volta ormai non c’è più. Se n’è andato. Lasciando a te un lavoro tanto mal pagato da non riuscire quasi a pagare  l’affitto e a me un bambino da accudire da sola. Per quanto tempo questa storia deve continuare?-
Bruce sospirò, abbassando gli occhi. Doveva aspettarselo. Ma faceva comunque male. Dopotutto lei era sua moglie, la madre di suo figlio, la amava ancora nonostante la passione che aveva provato in adolescenza si fosse raffreddata. E ora lei gli stava dicendo in maniera sottile che voleva lasciarlo.
-Aspetta, Mary, ragiona. Pensa a Joseph, a tutti i sacrifici che abbiamo fatto per comprare questa casa, a tutte le cose a cui abbiamo dovuto rinunciare per permetterci una macchina, ai soldi che stiamo mettendo da parte per comprare una chitarra a nostro figlio?-
-Appunto! Io non ne posso più! Non ne posso più di tutte queste privazioni, di fare questa vita da emarginata sociale, di dover provvedere da sola a Joseph dalla mattina alla sera, di non avere i soldi nemmeno per comprargli un regalo di compleanno! Non voglio che anche lui sia costretto a fare una vita così povera! Non avevi detto che mi avresti portato via da questa città di perdenti per vincere? Guarda invece dove mi avete portato tu e i tuoi ormoni adolescenziali: in una casa grande come un buco e con un bambino ad appena diciassette anni! All’inizio c’era ancora l’attenuante del matrimonio ma ora… -
-Cosa vuoi dire Mary?- chiese Bruce allarmato. Mary non poteva voler dire quello.
-Credevo lo avessi capito, Bruce. È da tempo ormai che non ti amo più. E …- aggiunse Mary abbassando gli occhi –non credo nemmeno di averti mai amato. -
Fu come se il mondo gli fosse caduto addosso all’istante. “Non credo nemmeno di averti mai amato”. Quelle parole rimbombavano in lui con un suono martellante, perforandogli la testa. No. Doveva aver capito male. Doveva essere uno scherzo di pessimo gusto. Non poteva essere seria.
-Mary, hai dormito poco, torna a riposarti tesoro… - disse Bruce, cercando testardamente di convincersi della falsità dell’affermazione appena pronunciata da Mary. Allungò la mano verso quella della moglie per stringerla, ma lei la scostò, evitando il contatto.
-No, Bruce, io sono riposata e non sto scherzando. Non è una balla.-
-Quindi tutti questi anni sono stati una balla. Una grandissima e madornale balla. Quando hai partorito Joseph era una balla. Quando hai detto “lo voglio” era una balla. Anche quella notte al fiume, quell’ultima fottuta e bellissima notte al fiume, quando mi hai detto “ti amo Bruce” dopo che avevamo fatto l’amore, era una balla. Non è così? Tutta questa storia è stata una balla, allora!- disse Bruce alzandosi di scatto. La sua voce, che inizialmente aveva cercato di mantenere calma e  indifferente, ora cominciava ad aumentare d’intensità, il suo viso si faceva via via sempre più paonazzo, le vene sul collo cominciavano a gonfiarsi paurosamente, la rabbia e la frustrazione iniziavano ad impadronirsi di lui –Quindi io in questi dieci anni mi sono fatto il fondo in una maledetta fabbrica, facendo orari da suicidio, per una balla? Ma hai idea di quello che hai detto, Mary? Devi essere tutta pazza… Quindi ora mi stai dicendo che la mia ragione per credere, tu e Joseph, che per tutti questi anni ogni mattina, ogni giorno di lavoro, ogni sera, ogni notte mi ha spinto ad andare avanti, era una schifosa balla? Mi stai dicendo che la motivazione sulla quale ho fondato tutta la mia vita, per la quale ho speso tutta la forza e la buona volontà che avevo in corpo, era una balla? Non ci posso credere. -
Bruce spinse da parte la sedia in malo modo e, con passo furioso, si diresse verso il soggiorno, percorse le scale e, sbattendo violentemente la porta della camera degli ospiti, vi si chiuse dentro. Non voleva mettere piede nella stanza nella quale lui e Mary avevano dormito per anni assieme. Ora aveva bisogno di riflettere.
 
 
 
Buongiorno a tutti!
So che sto aggiornando in madornale ritardo, ma credo che ormai vi abbiate fatto l’abitudine ai miei tempi non proprio impeccabili (l’ispirazione, quella benedetta cosa che continua a farmi brutti scherzi!). Ma veniamo al capitolo: probabilmente non è quello che vi aspettavate, ma dovete sapere che detesto i finali mielosi dove tutti sono felici e contenti: non rispettano la realtà e non fanno altro che illudere la gente (come vedete in questi giorni i miei pensieri sono molto simili a quelli di Nebraska), ma non preoccupativi, mancano ancora capitoli alla fine! Spero veramente vi sia piaciuto, perché ci tengo particolarmente…
E ora ringraziamenti per il capitolo precedente: 33nocidicocco,MagicRat e Goin’_Down (che ha pregato affinché la mia ispirazione tornasse: come vedi ha funzionato!), che sono sempre gentilissime e puntuali: le vostre recensioni mi illuminano la giornata!
Scusate ma ora vi saluto: c’è un’adorabile versione che mi fa gli occhi dolci! Ciao!

P. S. Non provo nemmeno a promettervi di aggiornare presto, anche perchè la prossima settimana parto in vacanza e sicuramente non riuscirò ad aggiornare prima: probabilmente posterò il prossimo capitolo agli inizi di settembre.
P. P. S. Come potete vedere ho cambiato nickname: Puerto Rican Jane (quello che avevo prima era per una stupida scommessa: quelle scimmie delle mie amiche…), dopo aver ascoltato per quindici volte non-stop la canzone “Incident on the 57th street”, per cercare consolarmi per non essere andata a Roma…
 
 
  
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