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Autore: AintAfraidToDie    26/02/2008    5 recensioni
Chi è Tooru? Chi è Kyo?
Io non sono io.
Sicuro di voler sapere chi sei veramente? 
- Dedicata a lui.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Die, Kyo
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Capitolo 3: “The Proof”.

Ogni mio pensiero apparteneva alla mia anima. Pensavo a ciò che aveva elaborato, a ciò che continuava a rielaborare. Io non avrei mai potuto scrivere le cose che avevo letto nel quaderno. Mai.

Un nome, “Tooru Niimura”, cancellato con forza. Cancellato forse per sempre. Cos’è, in fondo, un nome?

Accanto alla scancellatura, sulla copertina nera, un altro kanji.

,Kyo

Kyo non ero io.

Kyo era ciò che avrei sempre dovuto essere e che non avevo mai avuto il coraggio di svelare.

Quel quaderno nero non apparteneva a me; apparteneva a lui.

Lui non era come me, ma allo stesso tempo eravamo estremamente uguali.

E capii. Leggendo tutto ciò che Kyo aveva scritto, capii che non avevo mai realmente vissuto. Ciò che mi ostinavo a portare avanti era un corpo senza anima, che viveva per sbaglio. Che sopravviveva; sopravviveva, sì, perché non gli avevano mai insegnato a vivere.

Ero sempre stato snobbato, escluso, dato per scontato. Il poco che sapevo della mia esistenza era che dovevo portare buoni voti da scuola e comportarmi da bravo ragazzo. Io non ero così.

Ciò che avrei dovuto fare era portarmi a vita nuova. Sapevo ormai esattamente chi dovevo essere. Ma cosa dovevo fare per cominciare a vivere?

Le mie giornate non le passavo più a guardare incantato un mondo immaginario fuori dalla finestra, ma osservando minuziosamente il mio. Leggevo il mio universo, che avevo ignorato per così tanto tempo. Cantavo la mia anima. ,

Tanti giorni, spesi a far risuonare la mia voce in uno spazio vuoto. Non avevo mai usato le mie corde vocali tranne che per sussurrare parole sconnesse, inzuppate di apatia. Quando cantavo, mi liberavo. Più che ad urlare. Cantavo quegli scritti che ormai avevo imparato quasi tutti a memoria. Gli avevo riordinati diligentemente, inventandoci su motivetti mentali sconclusionati.

Cantavo, spesso ad alta voce, così che mia madre sentisse.

“Pazzo.” soffiava con le sue sottili labbra.

Era questo, ciò che io volevo.

Canticchiavo, in camera mia, distruggendo pezzo dopo pezzo il vecchio armadio d’acero.

L’avevo sempre odiato, senza un preciso perché.

I ciliegi, nel lasso di tempo di qualche giorno, sarebbero sfioriti. Ero arrabbiato.

E ci fu una frase, nelle parole che mi uscivano fluide dalla bocca. Un periodo né lungo, né corto.

I miei occhi, in quell’istante, rotearono dalla felicità. Sì, perché in quei momenti ero in grado di provarla. Infine mi accasciai sul letto ancora sfatto.

“Il suicidio è la prova della vita*…” sussurrai, fra me e me.

Sospirai. L’armadio d’acero era ormai completamente fottuto.

Notai un paio di forbici, abbandonate sulla scrivania. Facendo un piccolo sforzo, più mentale che fisico, mi rimisi in piedi e le acchiappai per poi ributtarmi di slancio sul letto. Le osservai, facendole roteare con movimenti lenti sul palmo della mia mano.

La lama lucente e affilata, il manico scintillante. Una perfetta e comune arma di morte.

Premetti con forza la punta dell’oggetto sul mio polso sinistro, cercando di mirare sulla vena più pulsante. Un rivolo di sangue si fece immediatamente strada sulla mia pelle.

“Più forte.” grugnii, aumentando la potenza.

Un piccolo fiotto rosso.

Taglia. Pigia. Taglia.

Altri piccoli fiotti rossi. Il mio braccio si stava riempiendo di liquido colante; ed io ci stavo sinceramente prendendo gusto.

Dolore? Un pochino, forse.

Taglia. Pigia. Taglia.

“Non è altro che pelle, Tooru. Nient’altro che carne.” sghignazzavo, accasciandomi disteso sul materasso.

Le forbici infilzate in bilico nella carne rossastra, in un netto taglio preciso e pulsante. Faceva male, ma che importava? Era la prova. La prova che io ero vivo.

Avevo vissuto e sarei morto. Ero sempre stato vivo.

Sangue che andava a sporcare le lenzuola bianche e pulite. Mi portai il braccio, con non poca fatica, vicino al viso. Il liquido cominciò a colarmi in faccia. Lo leccai. Aveva un buon sapore.

“Il sangue sa di vaniglia**…” ricordai un testo, ghignando.

Mi misi a ridere forte. Non mi ero mai sentito meglio.

La porta della stanza si spalancò. Mia madre mi guardava, con i suoi profondi occhi marroni che io avevo sempre ammirato da lontano, totalmente spalancati.

Le sue mani, agghindate da inutili anelli tintinnanti, erano attorcigliate fra di loro e tremavano evidentemente. Mi osservava, studiandomi. Magari anche un po’ preoccupata.

Ci speravo. Io ci speravo.

Mi misi a ridere ancora di più, davanti alla sua figura spaventata.

Spaventata da me. Dal suo strano figlio.

“Il suicidio è la prova della vita, mamma!” urlai, con quanto fiato avevo ancora in gola, verso la sua sottile ed elegante sagoma.

Corse contro di me e mi schiaffeggiò. Il suo tocco fu più doloroso dello squarcio sul mio polso.

“Pazzo! Folle!” mi urlò, avvicinandosi ancora.

Persi i sensi con davanti i suoi occhi sbarrati e la sua voce crudele nelle orecchie.

Ma in fondo era questo, ciò che io volevo.

Note:

*“Suicide is the proof of life” citazione, che dà anche il titolo alla storia, presa da “The Final”; contenuta nell’album “Withering to death”.

** “Blood tastes like vanilla” citazione presa da “Grief”; contenuta nell’album “The marrow of a bone”.

  
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