Capitolo 3: “The
Proof”.
Ogni
mio pensiero apparteneva alla mia anima. Pensavo a ciò che
aveva elaborato,
a ciò che continuava a rielaborare. Io non avrei mai potuto
scrivere le cose
che avevo letto nel quaderno. Mai.
Un
nome, “Tooru
Niimura”, cancellato con forza. Cancellato forse per sempre. Cos’è, in
fondo, un nome?
Accanto alla scancellatura,
sulla copertina
nera, un altro kanji.
京
Kyo
Kyo non
ero
io.
Kyo era ciò che avrei
sempre dovuto
essere e che non avevo mai avuto il coraggio di svelare.
Quel quaderno nero non
apparteneva a me;
apparteneva a lui.
Lui non era
come me, ma allo stesso tempo eravamo estremamente uguali.
E capii. Leggendo tutto
ciò che Kyo aveva
scritto, capii che non avevo mai
realmente vissuto. Ciò che mi
ostinavo a portare avanti era un corpo senza anima, che viveva per
sbaglio. Che
sopravviveva; sopravviveva, sì, perché non
gli avevano mai insegnato a
vivere.
Ero sempre stato snobbato,
escluso, dato
per scontato. Il poco che sapevo della mia esistenza era che dovevo
portare
buoni voti da scuola e comportarmi da bravo ragazzo. Io
non ero così.
Ciò che avrei dovuto
fare era portarmi a
vita nuova. Sapevo ormai
esattamente chi dovevo essere.
Ma
cosa dovevo fare per cominciare a vivere?
Le mie giornate non le passavo
più a
guardare incantato un mondo immaginario fuori dalla finestra, ma
osservando
minuziosamente il mio. Leggevo il mio universo, che avevo ignorato per
così tanto
tempo. Cantavo
la mia anima.
Tanti
giorni,
spesi a far risuonare la mia voce in uno spazio vuoto. Non avevo mai
usato le
mie corde vocali tranne che per sussurrare parole sconnesse, inzuppate
di
apatia. Quando cantavo, mi liberavo. Più che ad urlare.
Cantavo quegli scritti che
ormai avevo imparato quasi tutti a memoria. Gli avevo riordinati
diligentemente, inventandoci su motivetti mentali sconclusionati.
Cantavo,
spesso
ad alta voce, così che mia madre sentisse.
“Pazzo.”
soffiava
con le sue sottili labbra.
Era questo, ciò che
io volevo.
Canticchiavo,
in camera mia, distruggendo pezzo dopo pezzo il vecchio armadio
d’acero.
L’avevo
sempre
odiato, senza un preciso perché.
I
ciliegi, nel lasso di tempo di qualche
giorno, sarebbero sfioriti.
Ero arrabbiato.
E ci fu
una
frase, nelle parole che mi uscivano fluide dalla bocca. Un periodo
né lungo, né
corto.
I miei
occhi,
in quell’istante, rotearono dalla felicità.
Sì, perché in quei momenti ero in
grado di provarla. Infine mi accasciai sul letto ancora sfatto.
“Il
suicidio è la prova della
vita*…”
sussurrai, fra me e me.
Sospirai.
L’armadio d’acero era ormai
completamente fottuto.
Notai un
paio di forbici, abbandonate sulla
scrivania. Facendo un piccolo sforzo, più mentale che
fisico, mi rimisi in
piedi e le acchiappai per poi ributtarmi di slancio sul letto. Le
osservai,
facendole roteare con movimenti lenti sul palmo della mia mano.
La lama
lucente e
affilata, il manico scintillante. Una perfetta e comune arma
di morte.
Premetti
con
forza la punta dell’oggetto sul mio polso sinistro, cercando
di mirare sulla
vena più pulsante. Un rivolo di sangue si fece
immediatamente strada sulla mia
pelle.
“Più
forte.” grugnii, aumentando la potenza.
Un
piccolo
fiotto rosso.
Taglia.
Pigia. Taglia.
Altri
piccoli fiotti
rossi. Il mio braccio si stava riempiendo di liquido colante; ed io ci
stavo sinceramente
prendendo gusto.
Dolore?
Un pochino,
forse.
Taglia.
Pigia. Taglia.
“Non è
altro
che pelle, Tooru. Nient’altro che carne.”
sghignazzavo,
accasciandomi disteso sul materasso.
Le
forbici infilzate in bilico nella carne rossastra, in un netto
taglio preciso e pulsante. Faceva male, ma che importava? Era la prova.
La prova che io ero vivo.
Avevo
vissuto e sarei morto. Ero sempre stato vivo.
Sangue
che andava a sporcare le lenzuola bianche e pulite. Mi portai il
braccio, con non poca fatica, vicino al viso. Il liquido
cominciò a colarmi in
faccia. Lo leccai. Aveva un buon sapore.
“Il
sangue sa
di vaniglia**…” ricordai un testo, ghignando.
Mi
misi a ridere forte. Non mi ero mai
sentito meglio.
La
porta della stanza si spalancò. Mia madre mi guardava, con i
suoi
profondi occhi marroni che io avevo sempre ammirato da lontano,
totalmente
spalancati.
Le
sue mani, agghindate da inutili anelli tintinnanti, erano attorcigliate
fra di loro e tremavano evidentemente. Mi osservava, studiandomi.
Magari anche
un po’ preoccupata.
Ci
speravo.
Io ci speravo.
Mi
misi a ridere ancora di più, davanti alla sua figura
spaventata.
Spaventata
da me. Dal
suo strano figlio.
“Il suicidio
è la prova della vita, mamma!” urlai, con quanto fiato
avevo ancora in gola, verso la sua sottile ed elegante sagoma.
Corse contro di me e mi
schiaffeggiò. Il
suo tocco fu più doloroso dello
squarcio sul mio polso.
“Pazzo!
Folle!” mi
urlò, avvicinandosi ancora.
Persi
i sensi con davanti i suoi occhi sbarrati e la sua voce crudele
nelle orecchie.
Ma in fondo era questo,
ciò che io volevo.
Note:
*“Suicide
is the proof of life” citazione, che dà anche il
titolo alla storia, presa da
“The Final”; contenuta nell’album “Withering to
death”.
**
“Blood tastes like vanilla” citazione presa
da “Grief”; contenuta nell’album
“The marrow of a bone”.