Buon pomeriggio a tutti!
Prima di lasciarvi al nuovo capitolo, vorrei
fare un piccolo appunto che riguarda ciò che leggerete, per evitare
fraintendimenti e perplessità.
La prima parte si sposterà nuovamente a Gondor,
perché avevo voglia di scribacchiare qualcosa sui nostri Uomini preferiti e di
non lasciare tutta la scena ai Nani. E dato che li volevo fuori dalle mura di
Minas Tirith, anche per introdurre un altro paio di personaggi che saranno una
spina nel fianco, ho avuto un’idea.
L’appunto è questo: la foresta Drúadana è stata
donata da Aragorn ai suoi abitanti durante il cammino delle spoglie di Théoden verso
Rohan, liquidati con una frase veloce e di passaggio.
Citando il libro: “Senza fretta e con serenità traversarono l'Anórien, e giunsero al Bosco
Grigio presso Amon Dîn; e là udirono come dei tamburi rullare sulle colline,
pur senza vedere alcun essere vivente. Allora Aragorn fece squillare le trombe
e gli araldi gridarono: «Mirate, il Re Elessar è venuto! La Foresta di Drúedan
egli dona a Ghân-buri-Ghân ed alla sua gente; che appartenga loro per sempre, e
che nessun mortale vi entri senza il loro permesso!». Allora i tamburi
rullarono a lungo, e poi tacquero.”
Dato che il cammino verso Edoras, da Minas
Tirith, cioè la Grande Via Ovest, circonda la foresta e non vi entra
direttamente, ho pensato di cambiare un pochino gli avvenimenti – e di
posticipare la donazione di qualche settimana.
E intanto i Nani proseguono la discesa verso
Sud... buona lettura!
Pietra
- sequel di Betulla -
04.
6 Agosto 3019 T. E.
Alzò gli occhi al cielo e sospirò
accaldata, accarezzando il manto bruno di Nerian, il suo cavallo di Rohan.
L’aria afosa dell’estate non pareva soffiare via, anche a causa di quel velo
leggero di nubi che manteneva la calura su di loro. Non indossava la pesante
divisa che Aragorn le aveva regalato, ma i suoi soliti abiti di Dúnadan, più
leggeri e confortevoli per una galoppata verso la foresta Drúedana, dove
sperava di ritrovare un po’ di frescura. Aveva accolto la decisione del suo Re
con entusiasmo, poiché i Woses, o
Uomini Selvaggi, avevano accompagnato i Rohirrim durante la Guerra dell’Anello,
affinché portassero l’aiuto necessario a Gondor, ed Aragorn aveva deciso di
dare loro la riconoscenza dovuta. Con lui, oltre lei e Boromir, vi erano anche
il Secondo Capitano e la sua Prima Lancia, rispettivamente Ecthirion e Mardil,
due cavalieri fidati e devoti al loro Re e al loro Sovrintendente. Legolas e
Gimli chiudevano il gruppo, insieme ad un piccolo manipolo di soldati.
Si fermarono sul limitare della foresta
di pini, e l’Elessar parlò. «Miei fedeli compagni, che oggi mi seguite nel
regno di Ghân-buri-Ghân, vi chiedo di lasciar indietro le dicerie su questi
Uomini, poiché essi sono nostri amici e hanno combattuto per secoli il Male che
gli Orchi hanno portato. Essi sono pochi e molto cauti; conoscono questa
foresta meglio di chiunque altro, ma non ci attaccheranno se non gli daremo
ragione per farlo. Siamo qui per ringraziarli del loro aiuto e per dare loro la
pace che meritano. Procediamo dunque con cautela e serenità, ma vi consiglio di
mantenere le bocche chiuse.»
Gimli grugnì. «Odio le foreste e ciò che
c’è dentro.»
Si mossero poco dopo, spronando i loro
cavalli ad un’andatura lenta. I loro zoccoli sembravano leggeri a contatto con
gli aghi dei pini, ed il profumo delle conifere le inebriò i sensi. Brethil
chiuse gli occhi per qualche secondo, riappacificando i tumulti e i turbamenti
del suo animo con la tranquillità del bosco, e non si accorse di Boromir, che
cavalcava al suo fianco, intento a scrutarla con la coda dell’occhio e un lieve
sorriso sulle labbra. Il Sovrintendente era felice nel vederla rilassata,
poiché temeva che la vita di città, la vita di corte, non fosse ciò che si
aspettava. Gli uomini che li seguivano alle loro spalle erano un esempio vivente
di quanto l’ambiente maschile di Minas Tirith potesse essere troppo angusto per
una donna. Ma lì, circondata dalla natura e dal silenzio, Brethil sembrava a
casa, e per un attimo dimenticò chi fosse e quale ruolo ricoprisse.
Legolas, che aveva avuto la medesima
idea, però riaprì gli occhi e tese le orecchie. Non si erano addentrati troppo
in profondità tra gli alberi, ma lo percepì quasi subito. Dapprima fu un rumore
irrilevante per gli umani, che si confondeva con il cinguettio di qualche
uccello e il fruscio del vento tra i rami; ma poi quel tamburellare ritmico si
fece più sicuro e forte, e anche i soldati iniziarono ad udirlo, allarmandosi.
Gimli sussultò. «Che diavoleria è
questa? Mi sembra di essere tornato a Moria, con quei dannati tamburi. Solo che
qui è tutto troppo... verde.» Marcò
bene il disprezzo sull’ultima parola.
«Questo, amico mio, è il loro modo di
comunicare a distanza.» fece Boromir, rallentando l’andatura ed affiancandosi
ai due. «Si sono accorti della nostra presenza e stanno decidendo come
comportarsi. Sono molto schivi.»
«Non mi pare un buon segno.» mormorò il
Nano, stringendo la presa sulla sua ascia.
«Sai, potresti essere scambiato per uno
di loro, a ben vedere.» fece Legolas, che aveva catturato con lo sguardo un
ometto basso e tarchiato, dai corti e neri capelli e gli occhi piccoli ed
incassati che li controllavano attentamente. Era nascosto dietro un cespuglio,
poco più avanti, e teneva tra le mani un arco, con una freccia incoccata. «Sono
brutti e diffidenti come te.»
Boromir trattenne a stento una risata, e
Brethil scosse mestamente il capo, sorridendo. I tamburi si fecero più chiari e
il rullio terminò quando Aragorn, in testa al gruppo, si fermò in una piccola
radura baciata dai tenui raggi del sole che filtravano attraverso il velo di
nuvole. Davanti a lui stava un Uomo, basso e tozzo dalla scompigliata barba
scura, e Brethil spalancò gli occhi grigi nel constatare che fosse praticamente
nudo, tranne che per una gonnella fatta di erba e foglie.
Aragorn smontò da cavallo, imitato dagli
altri, e si chinò con una mano sul petto. Tutti furono ben consapevoli di
essere circondati dagli Uomini Selvaggi, poiché il rullo dei tamburi pareva
giungere da ogni direzione, sebbene nessuno riuscì a vederli.
Gimli tirò una gomitata all’Elfo.
«Dovrai pormi delle scuse sincere per avermi paragonato ad uno di quelli, oppure
te le strapperò dalla bocca a suon di calci.» Legolas, in risposta, sorrise.
«Io conoscere te.» fece la voce
gutturale del Drúedan, che incrociò le braccia grasse al petto villoso. «Tu Re di
Uomini.»
Aragorn annuì. «E tu sei Ghân-buri-Ghân,
il capo dei Drúedain, immagino.»
«Aye.
Perché tu qui con soldati?»
«Essi sono i miei più fidati amici, e
giungiamo da Minas Tirith per omaggiare te e la tua gente per l’aiuto che deste
qualche mese fa. Se non fosse stato per voi, le éored di Rohan non sarebbero giunte in tempo e illese per difendere
le nostre mura.»
«Voi sconfitto gorgûn. Noi odiare gorgûn.»
Brethil corrugò la fronte e Boromir, al
suo fianco, le sussurrò la traduzione. «Orchetti. Li detestano con tutto il
cuore.»
«È vero.» Continuò Aragorn, la cui espressione
si distese, serena. «Ma con Rohan è giunto anche il vostro desiderio di essere
lasciati in pace e di vivere in questa foresta in tranquillità. Ebbene io, Re
Elessar, dono la Foresta di Drúedan a te e alla tua gente, affinché appartenga
a voi e voi soltanto. Nessun mortale potrà entrarvi senza il vostro permesso. E
vi prometto che farò tutto ciò che è in mio potere per tenere lontano i gorgûn da questi confini.»
Il viso calloso di Ghân si tramutò in
una smorfia, che ricordava vagamente un sorriso, e si chinò profondamente. «Noi
non avere amici, ma rispettare te e tuo popolo.» disse, in uno stentato
Linguaggio Corrente. «Tu nemico di gorgûn,
tu alleato. E io ringraziare te per dono, Re di Uomini. Tu non bisognare di
permesso. Tu essere benvenuto in mia foresta.» I tamburi rullarono a lungo,
finché quello sparì tra la vegetazione dopo un ultimo inchino, e con esso anche
quella musica inquietante.
Gimli si guardò intorno, girandosi su se
stesso per assicurarsi di essere nuovamente soli. Poi, poggiando un braccio sull’ascia,
brontolò. «Beh, possiamo andarcene ora, no?»
Non capì se l’occhiata di Aragorn fu di
rimprovero o di divertimento, ma non gli importò. Prima si allontanavano da
quell’ammasso di erba e tronchi, prima avrebbe dimenticato il rumore dei
tamburi – che era sicuro, avrebbe infastidito i suoi sogni per le notti
successive.
«In realtà, vorrei fermarmi qualche
tempo nel Bosco Grigio.» fu la tranquilla replica dell’Elfo.
Il Nano sbuffò. «E dimmi, cosa c’è di
così diverso ed interessante in un altro bosco del tutto simile a questo? Dopo
che ne hai visto uno, li hai visti tutti.»
Ridacchiando, montarono a cavallo e
procedettero lungo la direzione opposta dalla quale erano giunti. Il Bosco
Grigio era proprio sul limitare degli alberi dei Drúedain, e Boromir tornò
indietro negli anni, quando era un ragazzo e spendeva interi pomeriggi con il
fratello tra quegli alberi di pini, per cacciare o semplicemente per sdraiarsi
e raccontarsi antiche storie e leggende. Pensò che gli sarebbe piaciuto
riprendere quelle attività rilassanti con Brethil, per allontanarsi dalla
realtà e spendere un po’ del loro tempo insieme. Ma sapeva anche che i compiti
e i doveri che attendevano entrambi, una volta tornati a Minas Tirith,
difficilmente gli avrebbero permesso tanto lusso. Così assecondò il desiderio
di Legolas, approfittando di quella mattinata di tranquillità.
«Verrai con noi?» domandò al suo Re e
amico.
Aragorn annuì. «Sì, ho bisogno di
trascorrere qualche ora con i miei vecchi compagni. Mancano cinque importanti
membri della Compagnia, ma mi accontenterò di voi tre.» aggiunse, ridendo.
«Miei signori.» li richiamò Ecthirion,
visibilmente in disaccordo. «Suggerirei di tornare alla Cittadella il prima
possibile. Abbiamo molto su cui discutere. Ed è quasi ora di pranzo, non
abbiamo cibo con noi.»
«A quello posso rimediare io.»
Gli Uomini si voltarono verso Brethil,
che aveva parlato. Lei alzò le sopracciglia, domandando tacitamente quale fosse
il problema, e i suoi amici sorrisero.
«Non andrai a caccia, se è quello che
stai pensando.» replicò duramente Ecthirion, che pareva godere nel contrastarla
in qualsiasi cosa che dicesse o facesse.
Brethil ghignò. «Se la vista del sangue
di un coniglio ti spaventa, o non sai accendere un fuoco per cucinare, non
preoccuparti. Ho una vita di esperienza alle spalle.»
Il Secondo Capitano di Gondor strinse
gli occhi chiari e i pugni, le cui nocche sbiancarono visibilmente. Fece per
replicare, ma Boromir s’intromise. «Avremo l’intera giornata di domani per
discutere, amico mio. Noi tutti necessitiamo di una pausa, e oggi mi sembra
l’occasione perfetta.»
«Ebbene, con il dovuto rispetto, non
starò qui a farmi insultare da una donna, né rinuncerò ad un comodo pranzo ad
un tavolo, piuttosto che su un tappeto di foglie. Con permesso, sire, io
tornerei in città.»
Il Re chinò il capo. «Mi rattrista non
avere la tua presenza, ma sei libero di andare e di portare con te chiunque
voglia seguirti. Non ho bisogno della scorta, questi alberi sono ben sorvegliati.»
Indispettito dal comportamento del suo
sovrano, che pareva accettare qualsiasi stranezza da parte di quei suoi
compagni stranieri, chinò a sua volta il capo, e si allontanò con Mardil e il
manipolo di soldati al loro seguito.
«Grazie ai Valar, che ci hanno
liberato.» mormorò Brethil, tra i denti.
«Non mi piace quel tipo.»
Boromir sospirò. «La tua schiettezza non
smetterà di sorprendermi, Gimli. Ma nonostante possa sembrare una persona dura,
egli è un bravo combattente e morirebbe per il suo signore.»
«Preferirebbe vedere me morta, oserei dire.»
«Brethil...»
La donna non aggiunse altro, spronando
al trotto il suo Nerian per allontanarsi dal gruppo, ma sia Boromir che Aragorn
sapevano cosa le stesse passando per la testa ora. Così come erano ben consci
del cattivo sangue che scorreva tra i due. Ecthirion era l’emblema del soldato
che non accettava una donna tra i suoi ranghi; che questa, poi, coprisse una
posizione più alta della sua e dovesse sottostare ai suoi ordini, ancora non
riusciva a concepirlo. La detestava, e non faceva niente per nasconderlo.
Così rimasero solo loro, vecchi compagni
di avventure, e cavalcarono lentamente tra gli alberi. Una leggera corrente
rinfrescò i loro visi ed inspirarono a pieni polmoni il profumo della foresta. Si
fermarono una mezzora dopo, legando i cavalli su un tronco caduto da tempo e
preparando un piccolo cerchio di pietre per accendere il fuoco. Brethil e
Legolas presero il loro arco e si addentrarono tra gli alberi, alla ricerca di
qualcosa di commestibile da mangiare, mentre gli altri tre cercavano legna da
ardere.
Non dovettero attendere troppo prima di
trovare qualcosa. La donna si appiattì contro un tronco appena notò un
movimento tra i cespugli; Legolas, più avanti, fece lo stesso. Quello,
l’avevano capito entrambi, doveva essere un animale che li avrebbe sfamati abbondantemente
tutti e cinque. Un paio di corna sbucarono dalla vegetazione e riconobbero un
capriolo, ignaro della loro presenza ed intento a ruminare un po’ di erba.
Scoccarono le frecce nello stesso momento, e l’animale cadde su un fianco.
L’Elfo lo prese con facilità e se lo caricò in spalla, mentre lei toglieva
fuori un pugnale, pronta a scuoiarlo.
«Contiamo di sfamare un esercito, per
caso?» domandò Gimli, quando li vide tornare con l’abbondante selvaggina.
Legolas sorrise. «No, ma conosco il tuo
stomaco e so per certo che non ha fondo. Non so come faremo a farlo bastare per
tutti.»
«Ah! Tanto tu non mangi, la tua porzione
sarà la mia.»
Brethil scorticò l’animale, cercando di
ricordarsi quanto tempo fosse passato dall’ultima volta che l’aveva fatto. Vivere
in città l’aveva abituata a troppi agi, ma non avrebbe mai dimenticato come
prepararsi un pasto con le proprie mani. Boromir non riuscì a toglierle gli
occhi di dosso, tornando indietro nel tempo, quando avevano vissuto insieme
all’aperto e lei cucinava per lui, ancora indebolito per le ferite inferte
dagli Uruk-hai. Sembravano trascorsi secoli, da quei giorni.
Il capriolo venne tagliato in diverse
parti e Boromir si preoccupò di infilzarle in qualche sottile stecca di legno.
«Come ai vecchi tempi.» fece Aragorn,
accendendo il fuoco con pochi e decisi colpi di pietra focaia.
Brethil gli si inginocchiò accanto,
aggiungendo delle foglie secche per alimentarlo, e sorrise, inspirando l’odore
del fumo. «Sì, come ai vecchi tempi.»
Così, seduti attorno al fuoco,
cucinarono il proprio pranzo e si persero in chiacchierate spensierate, come
non facevano da tempo. Il ricordo della guerra venne scacciato, così come i
pensieri e i problemi che riguardavano il Regno, vennero dimenticati per
qualche ora. A discapito delle paure del Nano, si scoprirono parecchio
affamati, e del capriolo non rimase che la testa e le ossa. Persino l’Elfo lo
trovò gustoso.
«Certamente è meglio del lembas.» borbottò Gimli, che si era
acceso la pipa, insieme ad Aragorn. Riposarono contro i tronchi degli alberi,
fumando in silenzio, mentre il piccolo falò scemava lentamente per mancanza di
alimentazione.
Brethil, sdraiata sul tappeto di foglie,
piegò una gamba e chiuse gli occhi, concentrandosi sui rumori della foresta.
Per un periodo di tempo che non seppe calcolare, fu come se il suo animo fosse
ben lontano da lì. Rivide anni e anni spesi a vivere tra la natura, a difesa
delle terre a Nord della Terra di Mezzo, quando dovevano muovere l’accampamento
ogni notte per non lasciare tracce visibili, quando dormiva poche ore perché
doveva montare la guardia, o quando non dormiva affatto perché il Nemico era
nei paraggi. C’erano giorni in cui mangiavano abbondantemente perché riuscivano
a catturare qualche cervo o un cinghiale; altre in cui dovevano dividersi
qualche smilzo coniglio, troppo sfortunato da trovarsi nel luogo e nel momento
sbagliato.
Non si accorse di un movimento alla sua
sinistra, né che Aragorn, Legolas e Gimli si fossero allontanati suoi loro
destrieri per lasciarli in pace. Boromir le si sdraiò accanto, di fianco, il
capo mollemente appoggiato sul palmo di una mano. La osservò per minuti interi,
ricacciando indietro il desiderio di accarezzarla e quindi di svegliarla da
quel momento di pace che era riuscita a ritagliarsi. Ma poi lei aprì gli occhi
grigi, che trovarono subito i suoi, e gli sorrise; qualsiasi contegno si fosse
dato durante tutta quella giornata, sparì in quell’esatto istante, e si chinò per
baciarla.
E come ogni volta che le sue labbra
incontravano le sue e percepiva le dita di lei addentrarsi tra i capelli,
Boromir si sentiva l’uomo più vivo di tutta la terra. Baciò le lunghe
cicatrici, ricordo di un passato fatto di scelte difficili e dolorose, e la
sentì ridacchiare per il contatto della barba sulla pelle delicata.
«Se dama Brethil vuole ridere, allora
l’accontenterò subito.» le sussurrò, solennemente. Brethil non capì cosa
intendesse finché non avvertì le mani di lui solleticarle i fianchi. Cercò di
divincolarsi da quel diavolo di Uomo che la stava facendo lacrimare per
l’ilarità, ma sfortunatamente per lei non ci riuscì. Era parecchio che non si
divertivano così, insieme e da soli; quando lui s’intrufolava nella sua stanza
per addormentarsi con lei, solitamente erano troppo stanchi per lasciarsi
andare a comportamenti fanciulleschi come quelli – e non avevano alcuna
intenzione di svegliare mezza cerchia con le loro risate. Ma Boromir era più
che felice di vederle il sorriso sulle labbra, in quell’espressione di felicità
così rara in quel viso serio e dilaniato dalle preoccupazioni e non. E se
qualche mese prima le avessero detto che finalmente si sarebbe ricordata come
ridere, avrebbe sì riso, ma per la ridicolosità del pensiero.
Il suono di qualcuno che si schiariva la
gola con qualche colpo di tosse, li riportò alla realtà, e videro Gimli, in
sella con Legolas, che voltava loro la faccia – ma Brethil avrebbe scommesso
tutto l’oro del mondo che fosse rosso per l’imbarazzo, peggio del suo sangue.
«È ora di tornare, purtroppo.» fece
Aragorn, che sorrideva serenamente alla vista dei due. Lui, più di tutti, aveva
temuto per l’umore della sua cara amica, e sapere che al suo fianco Boromir
riusciva a farla tornare una ragazza spensierata, non poteva che calmarlo.
Boromir fu il primo ad alzarsi,
porgendole una mano per aiutarla. Lei l’accettò riluttante, sentendosi ancora
inadeguata a quelle forme di gentilezza che non le si addicevano e che lui
continuava a mostrarle. Non era certo una damigella che non era capace di
rimettersi in piedi senza l’aiuto di un uomo perché rischiava di inciampare sui
propri vestiti, lei!
Si rimisero a cavallo, diretti verso
Minas Tirith, e il sole aveva già iniziato ad increspare il cielo di sfumature
rosse e arancioni. Brethil si chiese quando a lungo avrebbe dovuto aspettare,
prima di trascorrere un’altra giornata come quella.
8 Agosto 3019 T. E.
I giorni e
le notti successive all’attacco trascorsero tranquillamente, sebbene il timore
di un’altra sorpresa li fece dormire poco e male. Nonostante gli screzi, era
stato deciso di seguire il consiglio degli Elfi e di accamparsi lontano dalle
rive dell’Anduin, mentre a turno i figli di Rulin montavano la guardia, attenti
al minimo rumore che esulasse dal russare di tutti quei Nani.
Quella mattina,
Káel era stato incaricato di viaggiare con la scorta dei Re, e per la sua gioia
Fili e Kili gli stettero accanto tutto il giorno, dandosi il cambio ai remi.
Era tremendamente noioso starsene seduti su quella barca dondolante, e fortuna
che fosse grande abbastanza da potersi alzare per sgranchirsi le gambe.
«Siete mai
stati in questa parte della Terra di Mezzo?» domandò il Nano ai due fratelli.
Fili scosse
il capo. «Mai spinti più a sud degli Ered Luin e di Imladris, che io ricordi.»
«Siete
stati nella Valle Nascosta?»
«Oh, sì. Rimanemmo
lì un paio di settimane. E non fu così male, a dir la verità.» fece Kili.
«Non fu
male?» esclamò Dwalin, seduto poco più avanti, mentre remava con vigore. «Non
avrei resistito un giorno di più a mangiare quelle dannatissime foglie che gli
Elfi si ostinano a chiamare cibo!»
Káel rise
di cuore. «Gli Elfi mangiano erba? Sul serio?»
«E cosa ti
aspettavi? Che mangiassero tacchini arrosto?» replicò Dwalin. «Non sia mai che
si rovinino il palato delicato.»
Il Re Sotto
la Montagna, che aveva taciuto fino a quel momento con la mente rivolta
altrove, parlò con curiosità. «Dimmi, non sai cosa è comune trovare sulle
tavole dei tuoi avi, ragazzo?»
Il giovane
si strinse nelle spalle. «Non ho mai avuto contatti con degli Elfi, prima
dell’altra notte. Né mi sono mai chiesto cosa mangino. Per quanto ne so, per me
potrebbero anche vivere d’aria.»
Kili e Fili
scoppiarono a ridere, battendogli delle forti pacche sulle spalle, che
rischiarono di cappottarlo in acqua. Persino Thorin si ritrovò a sorridere. Tra
tutti i componenti di quella strana famiglia, Káel era quello che più gli
andasse a genio: gli ricordava i suoi nipoti, in qualche oscuro modo. Era
vitale, voglioso di lavorare e di difendere la sua famiglia. E soprattutto,
rispettoso nei suoi confronti, a differenza della gemella. E anche ora,
nonostante lo avesse provocato volutamente, aveva replicato con tranquillità, chiudendo
qualsiasi possibile disputa con una risata.
Thorin, in
piedi accanto a Dwalin, gli si avvicinò cautamente, incrociando le mani dietro
la schiena e osservandolo con la coda dell’occhio.
«Vedi
niente all’orizzonte?» gli domandò, indicando la riva orientale con lo sguardo.
Quello
scosse il capo. «No, la vegetazione è fitta. Ma ho la sensazione che si stiano
spostando con noi, anche se più lentamente.»
«Credi che
vogliano attaccarci di nuovo, zio?» domandò Kili, che si sporse sulla
balaustra, nella vana speranza di captare qualche movimento tra gli alberi.
«Non lo so.
È probabile che la voce del nostro aiuto a Gondor si sia sparsa e non vogliano
permetterci di raggiungere gli Uomini. Ma se avessero voluto lo avrebbero già
fatto.»
Káel annuì.
«Volevano solo farci sapere che loro sono lì, da qualche parte.»
«Qualcosa
si muove, a Est di queste terre.» disse seriamente Balin, sospirando e
lisciandosi la lunga barba bianca. «Mi domando se arriveremo in tempo per
avvisare Gondor del pericolo.»
«E io mi chiedo
cosa troveremo una volta giunti.» replicò Thorin. «Le forze di Mordor si sono
scagliate con più forza lì, che altrove. Gondor sarà sguarnita di difese.»
«Lo sono
anche gli Esterling.» fece Dáin, che sedeva più avanti, ma aveva ascoltato la
conversazione. «O devo ricordarvi cosa abbiamo fatto a quelle dannate chiappe,
solo qualche mese fa?»
«In ogni
caso, ci sono guerrieri tra noi.» fece Fili, orgogliosamente. «Se Gondor avrà
bisogno di un aiuto militare, allora giungiamo nel momento migliore.»
«Spero non
ce ne sia bisogno.» rispose Thorin. «Sono stanco della guerra.»
«La
vecchiaia si fa sentire, infine.» sussurrò Kili al fratello. Si ammutolì quando
percepì lo sguardo penetrante dello zio e chinò il capo. Fu seriamente
intimorito dal pensiero che potesse afferrarlo per la collottola e buttarlo in
acqua senza troppi pensieri.
Il viaggio
proseguì in silenzio, interrotto di quando in quando dalle voci dei più
giovani. Si fermarono per una pausa a mezzodì, e tutti si ritrovarono affamati.
Káel rimase
in compagnia dei nipoti del Re, in attesa che qualcuno preparasse il pranzo;
quando Trán gli si avvicinò con una ciotola fumante e gliela porse, riconsiderò
la sua fame. La prese, titubante, e l’annusò.
«L’ha
preparata nostro padre, se è di quello che ti stai preoccupando.» sbottò lei.
«Ecco
spiegato il buon profumo!» Stando attento a non versare il suo pranzo, la fermò
per un braccio, ridente. «Suvvia, non offenderti! Non è mai stato un segreto
che tu sei una pessima cuoca. Ma sei una brava sorella, in fondo.»
«E tu un orribile
fratello.»
Káel le
baciò sonoramente una guancia, sapendo per certo che non lo pensasse sul serio.
«Sei
davvero così incapace in cucina?» domandò Kili, con curiosità. «Ciò non è
onorevole, per una donna.»
Lei aprì e
chiuse la bocca più volte, diventando paonazza dall’imbarazzo. Nessuno, oltre
la sua famiglia, era a conoscenza delle sue terribili abilità culinarie, e il
fatto che fossero i nipoti del Re di Erebor a prendersi gioco di lei, le fece
venir voglia di sparire immediatamente. Per non parlare del fatto che persino
Thorin, sebbene facesse finta di non udirli, sembrava ridersela sotto i baffi
con soddisfazione.
«Io so cucinare.» borbottò lei, incrociando
le braccia al petto, indispettita. «Sono gli altri che non sanno apprezzare il
mio cibo.» Quasi non fece in tempo a finire la frase, che il resto dei fratelli
era scoppiato a ridere fino alle lacrime. Trán non poté far altro che alzare
gli occhi al cielo, tirare un pugno amorevole sulla spalla del fratello più
vicino, che rantolò dal dolore per la mezzora successiva, e ritirarsi in
disparte.
«Oh,
andiamo, amico.» fece Fili, ancora ridente, rivolgendosi a Káel. «Non vorrai
farci credere che quel pugno ti abbia davvero fatto male?»
«Fossi in
te non mi giocherei le fortune che hai in tasca.» replicò il Nano,
massaggiandosi la parte lesa. «La mia adorata sorellina possiede la mano più
pesante che abbia mai incontrato. Non saprà cucinare, ma sa come dare pugni...
è un maschiaccio, delle volte!»
«Ti ho sentito,
fratello. Ne vuoi un altro?» gli gridò la ragazza.
Fili e Kili
ridacchiarono di fronte alla sfrontatezza della giovane Nana, ma soprattutto
per il rapporto che c’era tra quei due. Nonostante i diverbi e quei gesti
d’affetto, era palese quanto si amassero.
«Voi due ci
assomigliate molto.» fece il maggiore.
«Ah, sì?»
Kili sembrò perplesso. «Io, però, non mi rivedo nella parte della femmina.»
Fili scosse
il capo, stringendogli un braccio intorno al collo. «Idiota!»
E mentre
gli eredi al trono di Erebor si azzuffavano, rotolando come cani per terra,
Thorin fu accarezzato dal desiderio di alzarsi, afferrarli per le orecchie e
farli volare giù per il fiume. Ma decise di riposare un poco i suoi nervi, così
lasciò che quei due si ammazzassero da soli e fare il lavoro per lui. I Nani
consumarono il proprio pranzo allegramente, poiché la luce del sole dava loro
la vaga sensazione di essere al sicuro dal nemico. Se qualcuno avesse voluto
attaccarli, lo avrebbero scorto più facilmente e non li avrebbero certo presi
alla sprovvista. Anche il più stolto dei nemici avrebbe evitato di dare la
possibilità a dei Nani di attrezzarsi per un attacco. Ripartirono poco dopo,
cancellando ogni traccia della loro sosta, e il pomeriggio trascorse
placidamente sulle acque dell’Anduin. Thorin non aveva mai disceso il fiume
così a sud, ma dal conteggio dei giorni trascorsi in acqua, il giorno dopo
avrebbero dovuto sorpassare gli Argonath e raggiungere il Nen Hithoel, il lago che
precedeva le Cascate di Rauros. Da quel punto in poi avrebbero proseguito a
piedi – o, per chi li aveva caricati sulle barche, in groppa ai pony.
La sera
calò velocemente, anche a causa delle nuvole che oscurarono la limpidezza del
cielo, e Thorin si ritrovò irrequieto fino a tarda notte. Non sapeva cosa lo
stesse impensierendo, ma non riuscì ad addormentarsi. Si mise a sedere sul suo
giaciglio, osservando la quiete intorno a sé. I suoi compagni sembravano non
curarsi delle sue preoccupazioni, e russavano bellamente alla faccia della sua
stanchezza. Si mise in piedi, sgranchendosi le gambe, e camminando attraverso
gli alberi e la folta vegetazione, diretto verso la riva. Sapeva di trovare una
delle nuove sentinelle dal sangue
mescolato, e avrebbe chiesto a lui di tranquillizzare le sue preoccupazioni.
Solo, non si aspettava che toccasse a lei
montare la guardia.
Trán lo udì
arrivare, ma non ebbe il coraggio di voltarsi. In qualche strano modo, lo aveva
riconosciuto dalla cadenza dei suoi passi. Ad ogni modo, non vi badò troppo.
C’era qualcosa, quella sera, che la stava allarmando, proprio come la notte
dell’attacco.
Thorin le
si fermò accanto, le braccia incrociate dietro la schiena, mentre ne osservava il
profilo con la coda dell’occhio. Sembrava profondamente intenta a scrutare ed
ascoltare, ma aveva ben capito che stesse anche fingendo di non averlo notato.
Lo ignorava, e a quanto pare era il suo passatempo preferito.
«Sono
ancora lì, vero?» le sussurrò, spostando ora lo sguardo verso la riva opposta.
Lei annuì. «Sì,
ma non si muovono. Sembrano osservarci.»
Thorin
inspirò pesantemente. Avrebbe tanto voluto capire che mossa stessero giocando
quei disgraziati. Ma soprattutto avrebbe voluto fargli capire che non aveva
alcuna intenzione di perdere tempo, scherzando con loro. La sua attenzione si
focalizzò nuovamente sulla Nana, che aveva mosso qualche passo verso l’acqua e
ora corrugava la fronte, con perplessità. «C’è qualche problema? Si muovono?»
le domandò, affiancandola e tentando di vedere ciò che lei riusciva.
Ma Trán non
gli rispose, quasi non lo sentì. Perché i suoi sensi, ora, erano focalizzati su
un arciere, nascosto dietro un cespuglio, che aveva incoccato una freccia e
mirava verso di loro. Con l’assenza della luce lunare pensava che nessuno lo
avrebbe visto; ma Trán, invece, lo aveva scorto, eccome. Prima ancora che
quello potesse scoccare, spintonò via il Re, che per lo stupore barcollò e
cadde rovinosamente sul pavimento di foglie secche e sulla terra. Non capì cosa
fosse successo, ma ogni intenzione di sfogare la propria ira nei confronti di
quel gesto improvviso ed impudente svanì nel momento in cui la vide
inginocchiata, mentre si stringeva un braccio insanguinato con una mano.
L’afferrò
per quello sano e la trascinò via, tra gli alberi, portando entrambi al sicuro
da qualsiasi freccia. Trán non aveva emesso un lamento, ma poté dire
dall’espressione dei suoi occhi che stesse soffrendo parecchio. Thorin si chinò
su di lei, esaminando la ferita e poi la punta della freccia, che a prima
occhiata non sembrava avvelenata. Senza una parola, l’afferrò per la vita e
l’aiutò a raggiungere l’accampamento, dove svegliò Oin con un colpo del piede,
affinché la medicasse al più presto. Pochi minuti dopo gran parte dei Nani si
ritrovò sull’attenti, temendo che gli Esterling potessero aver attraversato il
fiume una volta ancora.
Si avvicinò
a Dwalin, che stringeva in mano la sua ascia. «Che è successo?»
Thorin gli
indicò la ragazza con un cenno del capo. «Era di guardia e a quanto pare un
arciere aveva voglia di giocare al tiro al bersaglio.»
«È ferita.»
constatò l’amico, notando il cerchio preoccupato di persone che la circondò.
Thorin sospirò pesantemente, avvicinandosi anch’esso. La combriccola si fece da
parte appena si accorse di lui, che se ne stava in piedi con le braccia
incrociate al petto e uno sguardo furioso in viso.
«Sei per
caso impazzita da voler giocare a fare l’eroina?» la riprese.
Trán non si
aspettava di certo un ringraziamento, ma quello era troppo anche per l’arroganza
di quel Nano. «Scusami tanto se mi sono presa una freccia al tuo posto, mio
signore!» sbottò lei, rossa per l’affronto. Dovette morsicarsi la lingua con
forza pur di non scoppiare in lacrime, sia per il dolore che per l’offesa. Ori
era premuroso e delicato, ma accidenti, quanto bruciava!
Thorin si
accorse dei suoi occhi lucidi, nonostante le tenui fiamme dei falò. Così
strinse le labbra, e tentò una via più pacifica. Del resto, quell’ingrata gli
aveva salvato la vita. «Quella freccia avrebbe potuto ucciderti.»
«E di
grazia, al grande Thorin Scudodiquercia cosa potrebbe mai importare della mia incolumità?»
domandò lei, con malcelato sarcasmo, non volendo credere che lui fosse davvero
preoccupato per la sua sorte.
«Sei sotto
la mia protezione.»
«No, sono
sotto la protezione del mio Re, sire
Dáin II Piediferro, e della mia famiglia.»
«Trán,
basta così.» la rimproverò il padre.
Thorin
quasi gli troncò le parole in gola. «Dal momento in cui tu e i tuoi fratelli
siete a mia disposizione per la
difesa del mio popolo, è mio compito difenderti.» Sentì
molteplici occhi su di sé e sospirò pesantemente. «E ti ringrazio.»
La Nana
sbatté più volte le palpebre, e tentennò. Voltò lo sguardo altrove, quando
parlò. «Non c’è alcun bisogno di farlo. E comunque quella freccia non avrebbe
ucciso né te, né me; ti ho solo evitato una seccatura.»
Thorin si
passò stancamente una mano sul volto, sfiorando la lunga treccia della barba
nera. «Sei talmente orgogliosa e testarda da non saper accettare neppure dei
ringraziamenti, Trán dei Colli Ferrosi?»
Con uno
colpetto al fianco, Káel le intimò di scusarsi. Trán alzò gli occhi al cielo,
ma si rese conto di essere stata nuovamente impertinente, e senza motivo, così
chinò il capo. «Chiedo perdono, mio signore.»
Il suo
sguardo era duro, ma il tono con cui parlò era ben diverso. «Allora smettila, e
accetta i miei ringraziamenti. Non lo faccio spesso.» Non seppe il perché, ma
si pentì di aver detto quelle parole nel momento in cui la Nana tornò ad
osservarlo, stupita e apparentemente in imbarazzo. Si sentì scavare l’anima da
quegli occhi chiari, e fu una sensazione che non gli piacque. Si schiarì la
gola, spostando lo sguardo su Oin. «La ferita?»
Quello
scosse il capo. «Niente di grave, mio signore. È profonda, ma non si infetterà.
Ti rimarrà solo una brutta cicatrice come ricordo, ragazza mia.» le disse in
tono rassicurante. La vista dell’ago per i punti, però, non le parve così
confortante.
«Una
cicatrice, ma un grande onore.» disse Balin, che comparve al fianco del suo Re e
le sorrise, strizzandole un occhio. «Per quanto letale o meno quel colpo fosse,
hai messo comunque la vita di Thorin prima della tua.»
Trán parlò
prima ancora di rendersene conto. «Ciò che la mia famiglia mi ha insegnato mi
dice che lo farei ancora una volta, se necessario.»
Spiò la
reazione di Thorin, che inspirò nuovamente con pesantezza. «No, non lo rifarai,
perché se mai dovessi metterti in pericolo ancora una volta, ti punirò
personalmente. Non voglio altre seccature che possano rallentare il viaggio.»
Sebbene
quelle parole fossero dure e non mostravano alcun segno di riconoscenza, per
una volta, Trán decise di non offendersi, poiché vide un’ombra di gratitudine
sotto quell’espressione dura. Ma non durò molto, perché le voltò le spalle e
tornò al suo giaciglio, con il chiaro intento di provare a dormire. Non ebbe
molto successo, però. Continuava a rivedere il movimento improvviso di quella
Nana mentre lo spingeva quasi con facilità, aiutata dalla sorpresa, e
l’immagine sofferente di lei mentre stringeva il braccio ferito. Probabilmente
aveva ragione a dire che quella freccia non lo avrebbe ucciso, magari non lo
avrebbe neppure colpito; ma fu quel gesto che lo impensierì. La Nana aveva
seriamente rischiato la vita; per quanto poteva saperne, il dardo avrebbe
potuto essere avvelenato, e nessuno di loro possedeva le doti per curarla. E
lui non sopportava l’idea che una femmina lo avesse salvato da un pericolo senza
pensarci due volte. Quello stesso Elfo in miniatura che continuava ad
affrontarlo a viso aperto, senza peli sulla lingua. Sentì l’ego andargli
nuovamente in frantumi, e sempre a causa sua; ma quella volta non riuscì ad
adirarsi.
Un’ora dopo
l’alba, si rimisero in movimento, per l’ultima parte del loro viaggio lungo il
fiume. Erano stanchi di quel movimento ondulatorio che faceva passar loro ogni
appetito e gli lasciava la sgradevole sensazione di essere ancora in acqua
anche quando si sdraiavano sulla terraferma. I Nani non erano nati per essere
marinai, bensì per avere la salda pietra sotto ai piedi, e in quei giorni ne
ebbero la conferma.
«Mi sento
lo stomaco molle come un budino.» borbottò Dwalin, più irritato che mai. «Non
voglio vedere acqua per i prossimi cent’anni.»
«Beh,
questo è un male.» commentò Balin, sembrando serio. Thorin lo osservò con la
coda dell’occhio e poté scorgere il divertimento nei suoi occhi. «È un male per
il tuo igiene, e soprattutto per il mio naso. Anzi, dovresti seriamente
prendere in considerazione l’ipotesi di fare un bagno. Puzzi come un maiale!»
I fratelli
si guardarono per qualche secondo, impassibili. Poi scoppiarono a ridere.
Trán, che
sedeva poco più indietro accanto ad Oin, incaricato di disinfettarle la ferita
quando questa riprendeva a sanguinare, si dovette mordere un labbro pur di non ridere
con loro.
«E
comunque, non scherzavo.» aggiunse Balin. «Alla prossima sosta, se non lo farai
tu, provvederò personalmente alla tua igiene. E sappi che non sarò delicato.»
«Che c’è,
vuoi anche lavarmi il fondoschiena come faceva nostra madre quando eravamo
neonati?»
L’inquietante
immagine di un piccolo e tatuato Dwalin a sedere all’aria, sotto le amorevoli
cure della madre, disgustò un po’ tutti, e non fecero niente per nasconderlo.
Balin
ridacchiò. «Suvvia, fratello, modera la tua lingua. C’è una signorina, con noi!»
Molti di
loro si voltarono verso Trán, che arrossì e chinò il capo. «Non badate a me,
davvero.»
Dwalin
simulò un’esclamazione divertita in un grugnito. «Mi ero quasi scordato della
tua presenza, ragazza. Figurati se bado a te.»
Non seppe
dire se fosse un bene o un male, ma considerato il fatto ch’era circondata da
alcuni Nani che avrebbero preferito spaccare le pietre con le unghie piuttosto
che avvicinarsi a qualcuno che avesse sangue Elfico, poté dire che la sua
discrezione fu ben accetta.
I mormorii
ed i battibecchi si smorzarono immediatamente, quando due imponenti sagome
iniziarono a fare capolino tra gli alberi, in lontananza. E appena virarono a
sinistra e il fiume proseguì dritto fino a perdita d’occhio, li videro in tutto
il suo splendore. Gli Argonath si ergevano fieri e maestosi davanti a loro, un
braccio disteso in avanti per intimare l’alt a chiunque osasse attraversare
quegli invisibili confini. Persino loro, Nani che conoscevano bene come
scolpire la roccia in imponenti colonne e sculture, rimasero senza parole di
fronte a quello spettacolo.
«Gli
Argonath, o le colonne dei Re.» disse solennemente Thorin, che si alzò con
reverenza.
Trán,
distogliendo per un momento lo sguardo dalle statue per spostarlo su di lui,
pensò che fosse imponente come gli Uomini che rappresentavano; inoltre, non
conosceva la storia di quei giganteschi monumenti, né ne aveva mai sentito
parlare. Fu ben felice, quindi, di sentirlo mentre la raccontava ai suoi nipoti
e a chiunque avesse voglia di ascoltarlo.
«Anticamente,
segnavano il confine settentrionale di Gondor, quando ancora Rohan non
esisteva. Rappresentano Isildur ed il figlio Anárion, che incutono timore al
nemico e gli intimano di non oltrepassarli, poiché le difese di Gondor alle
loro spalle li annienterebbero. Fu Rómendacil II ad ordinarne la costruzione,
dopo la vittoria contro gli Esterling. Sono in piedi da secoli, e resistono
alle guerre, proprio come i regni che difendono. E speriamo che coloro che ci
stanno seguendo, rimangano indietro con essi.»
«I Nani
all’ingresso di Erebor sono più maestosi.» fece Kili, poco convincente; ma,
tenendo il naso all’insù per osservare quei giganti di pietra, si rese conto di
non dire propriamente la verità.
«Altroché
se sono maestosi, fratellino.» mormorò Fili, sorridendo. «Chissà che vista
dev’esserci, lassù.»
«Vi
dovrebbe essere un punto panoramico, non troppo lontano dal luogo dove
attraccheremo.» fece Balin.
«Se ti
riferisci al Seggio della Vista, è esattamente dal nostro lato del fiume.»
disse Thorin. «Ma non perderei tempo sui colli di Amon Hen, a meno che non si
faccia troppo tardi per trovare un accampamento migliore.»
Dáin sbuffò
il fumo della pipa, senza che l’allontanasse dalle labbra. «Sarebbe saggio,
invece, fermarsi lì. Avremmo una vista migliore, e quindi una migliore difesa,
in caso di attacco.»
«Non lo
faranno, stanotte. Il lago è una lunga attraversata, e se avessero voluto
attaccarci per bene lo avrebbero già fatto quando il fiume era più stretto.
Conto di lasciare i colli prima del tramonto.»
Ma Thorin
aveva fatto male i propri calcoli, poiché raggiunsero la piccola area
d’attracco sul lato occidentale del lago proprio quando il sole aveva iniziato
la sua discesa sull’orizzonte. I colli di Amon Hen non erano troppo estesi,
sulla carta, ma erano ricoperti da una fitta vegetazione di alberi, radici e
cespugli, e difficilmente sarebbero riusciti a trasportare le barche, ciò che
contenevano e i pony fino all’uscita prima del tramonto. Il Re, così, dovette
arrendersi all’evidenza, e acconsentì ad accamparsi lì, dove si erano fermati.
Nessuno di loro poteva sapere che in quello stesso luogo, solo qualche mese
prima, la Compagnia dell’Anello si era materialmente sciolta, che alcuni di
essi avevano combattuto contro un numeroso manipolo di Uruk-hai e qualcuno
aveva seriamente rischiato di morire nell’impresa. Solo i discendenti di Ainariël
parvero percepire il sangue che intingeva quella porzione di terra.
Thorin e Dwalin andarono in
esplorazione, alla ricerca del Seggio della Vista, e quando lo raggiunsero
rimasero lì, in silenzio, ad osservare quella parte di Terra di Mezzo che
nessuno di loro aveva mai veduto.
«Rohan è davanti ai nostri
occhi.»
Il Nano tatuato si poggiò
sull’ascia, abbozzando un sorriso. «E chi l’avrebbe mai detto che saremmo
giunti fin qui, un giorno?» Sentì una mano stringersi sulla spalla e vide
l’amico sereno come non lo era da tempo.
«Sono felice che tu sia con me.»
mormorò il Re. Fili e Kili giunsero in quel momento, ridenti e stanchi per la
corsa, e Thorin ringraziò Mahal che anche loro fossero con lui.
«Ehi, guarda fratellino.» fece il
maggiore dei due in un sorriso, circondando il collo dell’altro e
abbracciandolo. «Guarda che meraviglia!»
E lo era sul serio.
La vasta valle dell’Entalluvio si
perdeva a vista d’occhio, dondolando su numerose colline e tagliata da corsi
d’acqua che parevano fili di ragnatele sotto la luce del tramonto; e la cresta
dei Monti Bianchi, che ne segnava i confini a Sud, era ora una sagoma lontana e
scura. I due fratelli si sedettero sul bordo più alto del cerchio di pietre,
lasciando l’imponente seggio per lo zio. Thorin vi prese posto, rilassandosi e
chiudendo gli occhi. Tornò con la mente alla sua amata Erebor, al trono
incastonato dall’Archepietra che lo aveva accolto innumerevoli volte. Quella
punta di nostalgia di casa stava iniziando ad impensierirlo, e non erano ancora
giunti a destinazione. Aveva dovuto attendere infiniti anni prima di
riprendersi ciò che gli spettava, aveva rischiato di morire per farlo, e in
confronto alla sua lunga vita, non erano che passati pochi decenni da quando
Erebor era tornata ad essere la sua casa. Il pensiero di averla lasciata alle
spalle, ancora una volta, gli procurò più dolore di quanto s’immaginasse. Ma
quello era un viaggio che avrebbe dovuto percorrere.
Lui voleva farlo.
Erebor non sarebbe andata da nessuna
parte, nel frattempo.
*
Un
grazie a chiunque si è fermato a leggere. :)
A
presto!
Marta.