Era buio.
Un buio assoluto, opprimente.
Il pavimento sapeva di muffa, e sentiva uno strano sapore nella
bocca. Doveva essere sangue: il sangue che scendeva in un rivolo dalla ferita
alla tempia e gli aveva imbrattato il lato destro del volto. La testa gli
faceva male. Provò a alzare un braccio, per andare a tastare il punto ferito,
ma i suoi polsi erano immobilizzati dietro la schiena e nel compiere quel
semplice gesto sentì qualcosa tagliargli la pelle. Doveva averlo legato con un
materiale rigido: plastica, forse, o roba sintetica. Cercare di muoversi era
controproducente.
Provò a tirarsi su, facendo leva solo sulla forza delle gambe e
sostenendosi alla parete. Voleva guardarsi in giro, capire dov’era,
almeno…S’appoggiò su un ginocchio, la testa ondeggiò e migliaia di piccole
sfere colorate balenarono davanti ai suoi occhi.
La porta si aprì, lasciando entrare uno spiraglio di luce.
“Sta’ buono, ragazzo, o accorcerai il tempo”
Un paio di grosse mani lo afferrarono per le spalle e lo
sollevarono quasi di peso, aiutandolo a mettersi seduto. La voce dello
sconosciuto era calma, fredda, con un pizzico di sadismo nascosto in
sottofondo: la voce – pensò Reid – di una persona che pensa di star svolgendo
un “lavoro”, ma che comunque prova un certo piacere nel farlo.
“I-il tempo non si può accorciare…è…una
concezione oggettiva, a…a meno che n-non si parli del proprio tempo personale…”
Reid strizzò gli occhi, cercando di mettere a fuoco la sagoma che
si muoveva davanti a lui.
“Esatto.
Tempo personale. Il tempo che hai ancora da vivere”
Un
brivido passò sulla schiena di Reid, gelido come il ghiaccio.
“I-il t-tempo che ho da vivere?” balbettò, sbattendo le
ciglia.
L’uomo
si piazzò davanti a lui, e, piegandosi sulle gambe, venne trovarsi alla sua
stessa altezza. Reid non riusciva a vedere per l’oscurità e il sangue rappreso
che gli era colato sulle ciglia dell’occhio destro, ma sentiva quella vicinanza
così invadente, così morbosa, che violava il suo spazio e sembrava provarci
gusto.
“Dimmi
una cosa, Spencer” sentì dire, talmente vicino che poteva avvertire persino il
respiro dell’interlocutore “ti manca Gideon?”
Quella
semplice richiesta lo turbò. Un turbamento profondo, insistente, che non riuscì
a cacciare.
Non
aveva ancora capito perché era lì, e chi era l’uomo – l’S.I. – che lo aveva
aggredito e colpito in casa sua, che subito la faccenda si complicava, e la sua
emotività si trovava messa di fronte ad una domanda che nemmeno in condizioni
assai più semplici avrebbe voluto affrontare.
Gideon.
Gideon. Gideon.
Quante
volte si era ripetuto quel nome nella testa, quasi sperando di essere sentito?
Quante volte aveva desiderato sentirlo, solo per dirgli quanto gli aveva fatto
male?
Gideon.
La
persona che aveva amato come un padre, che gli era stato così vicino, che era
stato forse la presenza più importante, nella sua vita.
Gideon.
Colui
che era sparito così, lasciandogli solo una penosa lettera. Lasciandolo solo.
Ma
non poteva indugiare sui sentimenti, in quel momento. Non se lo poteva
permettere. Doveva seguire l’SI, le sue parole – la sua mente - e ricavarne
quei piccoli frammenti che, messi insieme nel modo giusto, diventavano indizi.
Li
conosceva.
Conosceva
entrambi e lui non si trovava lì per una scelta casuale.
Doveva
farlo parlare, e, per riuscirci, il modo migliore era assecondare le sue
richieste, anche quelli che facevano male.
“Se
n’è andato e ho sofferto. Certo che mi manca”
Sentì
l’uomo emettere un lieve suono dalle labbra: fu quasi certo che avesse sorriso.
“Bene
Spencer” disse “Sei sincero”
Con
una mano gli sollevò il mento: Reid ebbe un tremito e per un attimo si sentì
terribilmente indifeso. Lui lo stava fissando di certo negli occhi.
“…E
dimmi, piccolo Spencer: Gideon ti vuole bene?”
Reid
avrebbe potuto rispondere semplicemente di sì. O avrebbe potuto anche, meno
semplicemente, rispondere di no. Ma ciò che faceva
male, era che né una cosa né l’altra erano vere. Gideon non faceva più parte
della sua vita. Tutto qui. Il bene o il male sparivano, di fronte a
questo.
“Siamo
stati colleghi per quattro anni” disse
“Siamo stati molto amici”
Un
attimo di silenzio. Poi un colpo violento percosse il viso di Reid. Gli sfuggì
un grido.
“TI
HO CHIESTO SE TI VUOLE BENE, RISPONDI ALLE DOMANDE!”
“I-io…” Spencer esitò, spaventato. Adesso la calma fredda
nella voce dell’S.I. si era trasformata in isteria: quel cambiamento repentino
per un istante gli ricordò Rapahel, ed ebbe paura.
“S-sì…io…credo…credo
che…che me ne abbia voluto…”
Sentiva
il sapore del sangue in bocca: la violenza di quello schiaffo gli aveva ferito
il labbro.
“Bravo
Spencer” disse l’uomo, tornato calmo “così va meglio”
Gli
appoggiò entrambe le mani sulle spalle e le strinse vigorosamente.
“…ancora
una domanda, ragazzo. Pensi che lui ti troverà?”
Reid
non sapeva cosa rispondergli: cosa voleva sentirsi dire? Che tipo di
rassicurazioni stava cercando? Non riusciva a capirlo, non aveva sufficienti
elementi per farlo, e l’angoscia ed il dolore fisico non aiutavano a formulare
ipotesi.
“Io…G-gideon sa fare il suo lavoro…”
“Dunque
ti troverà…”
Reid
deglutì rumorosamente
“Lui…non
fa più parte della squadra…”
“Andiamo,
Spencer…”
L’uomo
emise una mezza risata, che, dal suono, alla mente del ragazzo apparve come un
ghigno, e estrasse un foglio piegato in quattro.
“…questa
bella lettera non l’ha scritta per la squadra…”
Si
alzò: doveva essere alto, - pensò Reid - si sentiva come sovrastato dalla sua
figura. Ma poteva essere un’impressione dettata dal suo stato di confusione e
dalla sua condizione di impotenza.
“Lui
ti cercherà e ti troverà. Io desidero che ti trovi. Ma prega che ti
trovi presto, perché il veleno che ti ho iniettato agisce in pochi giorni. E le
ultime ore sono estremamente dolorose”
[QUESTA FANFICTION È STATA SCRITTA DA GLENDA E REM]