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Autore: Carlo Bisecco    28/08/2013    1 recensioni
Questa è la storia di Amir, un bambino senegalese che fugge dalla sua patria e si ritrova solo in una terra totalmente diversa dalla sua e in cui, per sopravvivere, dovrà accettare la sua condizione e l'aiuto dei "bianchi"
Genere: Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Amir era nato in una giornata di pioggia torrenziale che più che rinfrescare, portava con sé un’insopportabile ondata di calore.
I genitori decisero di dargli quel nome perché anni prima era stato quello di uno dei più importanti e umili capi del loro villaggio.
Poco dopo la sua nascita, la madre di Amir rimase nuovamente incinta, ma purtroppo abortì e perse la possibilità di generare altri bambini.
Amir non capiva, era troppo piccolo, iniziava appena a muovere i primi passi, ma vedeva sempre la madre piangere ed era una cosa strana, perché gli adulti del villaggio non piangevano mai. Lui nutriva profonda ammirazione per lei, il suo amore andava ben oltre quello che lega un figlio alla propria madre, lui vedeva quella giovane donna già segnata dalle fatiche come un oggetto di inestimabile valore da proteggere.
Lui sarebbe sempre stato accanto alla madre, avrebbe ripagato il suo amore con altrettanto amore e l’avrebbe aiutata nel momento del bisogno mentre il padre era assente per il lavoro con cui tentava di nutrire la famiglia, restando a volte per intere giornate a digiuno per dare un frutto in più al bambino.
Amir era davvero piccolissimo, ma il suo destino era già scritto, la sua vita non sarebbe mai stata facile, a partire da un violento e improvviso distacco dalla sua famiglia.
La madre appena un mese dopo averlo dato alla luce, tornò al suo lavoro di tessitrice sottopagata lasciando il suo piccolo gioiello ad una vecchia del villaggio che faceva da bambinaia .
Il padre scomparve per circa quattro mesi per iniziare a lavorare in una nuova fabbrica appena costruita a qualche chilometro di distanza; si occupava di controllare il funzionamento dei macchinari che raffinavano lo zucchero di canna e se si inceppavano doveva capire cosa non andasse e riparare il danno.
Non era un ingegnere o quant’altro, non aveva studiato e non sapeva come funzionassero quei mostri robotici, ma aveva uno spiccato senso pratico e fu grazie alla sua velocità di apprendimento che fu assunto.
Appunto per il primo periodo, quei quattro mesi, dovette dimostrare la sua serietà e la volontà di lavorare davvero, in ogni condizione, anche ventiquattro ore al giorno con pasti che a malapena sarebbero bastati a sfamare un bambino di cinque anni.
Dopo il primo periodo il suo turno si ridusse sempre più fino a durare solo dieci ore. In tal modo riuscì a tornare a casa quasi tutti i giorni e riuscì anche a guadagnarsi qualche soldo in più tra la pesca di notte e spaccando la legna nelle ore serali.
Non sapeva quanto ci sarebbe voluto, ma suo figlio, Amir, non sarebbe mai rimasto lì, non avrebbe mai dovuto lavorare così tanto e assistere a scene di maltrattamenti così violenti sulle persone.
  
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