Film > The Avengers
Segui la storia  |       
Autore: BlackEyedSheeps    07/09/2013    2 recensioni
Era lei.
Lei che cercava di confondersi fra la folla, di mimetizzarsi con la rumorosa fauna turistica, di seguire un gruppo di persone di cui aveva appena intuito le traiettorie, ma una volta che Clint aveva agganciato l'obiettivo, difficilmente se lo lasciava sfuggire.

[Clint/Natasha]
Genere: Angst, Azione, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Agente Maria Hill, Agente Phil Coulson, Clint Barton/Occhio di Falco, Natasha Romanoff/Vedova Nera, Nick Fury
Note: Movieverse | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Compromised'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Ma sia quel che sia, quelli che tra noi l'hanno scampata hanno l'obbligo di ricominciare a costruire, insegnare agli altri ciò che sappiamo, e tentare, con quel che rimane delle nostre vite, di cercare la bontà e un significato in quest'esistenza.
(dal film “Platoon”)

 

6 SETTIMANE DOPO
New York City, USA
S.H.I.E.L.D. Central

Ore 17:34

 

Avrebbe volentieri evitato di farsi un giro nella palestra a quell'ora del pomeriggio – aveva imparato che era particolarmente affollata in tarda mattinata e subito dopo le 14:00 – ma la stanzetta che le avevano assegnato, nei dormitori temporanei della base operativa, cominciava ad andarle decisamente troppo stretta, quasi claustrofobica.

 

Evitava di restarsene chiusa lì dentro se non per dormire. Tutto sommato, però, considerata la cella in cui aveva trascorso le sue prime due settimane allo SHIELD, non le sembrava proprio il caso di lamentarsi. Il bagno era piccolo ma pulito, il letto stretto ma comodo: aveva passato notti in luoghi e condizioni ben peggiori di quella. Certo, sapeva di essere spiata ventiquattr'ore su ventiquattro, che agenti dell'organizzazione studiavano il suo comportamento giorno e notte, prendendo freneticamente appunti da mostrare ai superiori il giorno successivo. Non era stato semplice, ma ci aveva fatto l'abitudine.

 

Prima del trasferimento a New York, era stata sottoposta ad un check-up completo e a svariati esami medici non invasivi, l'unica concessione che aveva fatto in materia. L'angoscia non l'aveva lasciata finché non le fu comunicato che avrebbe presto scambiato quell'asettica cella per una sistemazione più confortevole. Non ci aveva creduto del tutto finché una squadra di sei agenti non era arrivata a prelevarla con un nuovo cambio d'abiti e una mappa dello SHIELD Central per aiutarla ad ambientarsi.

 

Da lì in poi, i giorni erano trascorsi senza che quasi se ne accorgesse. Quasi tutte le sue energie sprecate nel convincersi a smetterla di essere paranoica. Operazione che le era risultata via via meno complicata, alcuni giorni migliori di altri. Ad un certo punto della quarta settimana riuscì a dormire otto ore consecutive: a parte la fastidiosa sensazione di smarrimento che la colse al risveglio, la considerò niente di meno che una conquista.

 

Con New York erano cominciati anche i test fisici, della memoria e delle abilità con le armi, nessuno dei quali costituì un ostacolo degno di questo nome. Non era sicura di cavarsela altrettanto bene con quelli psicologici: per quanto avesse cercato di aggirarli, lo SHIELD era stato irremovibile. L'avevano condotta nell'elegante studio di una psicologa dell'organizzazione, all'ultimo piano dell'enorme edificio; un mare di beige e pannelli di legno lucido, disegni ad inchiostro incorniciati e appesi su ogni parete. Pretenziosa, fu la prima parola che le venne in mente quando incontrò la donna. Avevano cominciato con un semplice – o così le venne presentato – test di associazione di parole che l'aveva lasciata estremamente perplessa.

 

Le dirò una parola, lei mi dovrà rispondere con la prima che le viene in mente. Va bene? Lo prenderò per un sì. Cominciamo. Festa.”

Vestito.”

Russia.” “Ermitage.” “Vedova Nera.” “Ragno.” “Pistola.” “Arma.” “Sangue.” “Rosso.” “Omicidio.” “Lavoro.” “Cielo.” “Grigio.” “Famiglia.” “No.” “Occhio di Falco.” “Chi?”

 

Non aveva potuto sottrarsi alle tre sedute di terapia alla settimana che lo SHIELD aveva imposto. Inizialmente si era rifiutata di parlare ma, in seguito, aveva deciso che ascoltare i sermoni della dottoressa sui benefici di quegli incontri, era mille volte peggio che raccontarle quello che voleva sentirsi dire. Fece quello che le riusciva meglio: mentì per tre ore la settimana, illustrando eventi mai accaduti, esponendo di sogni che non aveva mai fatto, facendo il resoconto di incontri inventati. La terapista sapeva che non si trattava d'altro che di menzogne (e Natasha sapeva che lei sapeva), ma ascoltava diligentemente e scribacchiava sul suo blocco, azzardando qualche domanda di tanto in tanto.

 

Le piace come la fa sentire, uccidere?”

Chiunque le abbia detto il contrario mentiva.”

Perché? Com'è che la fa sentire?”

Reale.”

 

Tutte le volte che lasciava la sua stanza, due agenti la seguivano ovunque andasse. Le sue ombre. Non era del tutto sicura che lo SHIELD si rendesse conto che, se davvero avesse voluto andarsene, quei due non avrebbero potuto fare granché per impedirglielo. Ogni tanto le rivolgevano la parola, ma non rispondeva mai se non per qualche osservazione sarcastica o insulto in una lingua a scelta, a seconda di come le girava la giornata.

 

Se non era diretta dalla dottoressa, le capitava di andare in palestra ad allenarsi, di fare un salto alla mensa per recuperare pasti che consumava da sola nella sua stanza, o a riunioni su missioni in corso con persone e organizzazioni con cui Natasha aveva avuto a che fare in passato. Sedeva attorno al grosso tavolo, sosteneva gli sguardi dei presenti, dava loro informazioni che – lo sapeva bene – avrebbero controllato e ricontrollato almeno cinque volte prima di prenderle per buone.

 

Le interazioni con il personale e gli altri agenti erano ridotte al minimo. Nonostante tutto, però, conosceva tutti i nomi e tutte le facce. Ascoltava le loro conversazioni, ignorava i commenti fatti sotto voce sul suo conto, pretendeva di non essersi accorta delle occhiatacce che le lanciavano quando passava per i corridoi con una pila di libri sottobraccio e i suoi cani da guardia alle calcagna.

 

Solo qualche giorno prima l'agente Phil Coulson era andato a prenderla per un incontro con il Direttore Nick Fury, durante il quale, quest'ultimo, si era limitato a squadrarla per circa un'ora, mentre Coulson faceva il resto, congratulandosi per gli eccezionali risultati dei test fisici, ringraziandola per la collaborazione dimostrata e sorprendendola con un commento su presunte doti narrative che aveva scoperto leggendo le trascrizioni delle sue sedute di terapia.

Immaginò che il pericolo di essere presa per una pazza instabile fosse scampato, ma – come al solito – si impedì di concedersi anche il più cauto degli ottimismi. Coulson le aveva, infine, annunciato che c'era bisogno di lei in una stanza al terzo piano interrato – questione di pochi minuti, aveva promesso – al che Fury, che era rimasto in silenzio e in piedi per tutto il tempo, guardando il panorama di cui si godeva dall'ampia finestra del suo ufficio, senza guardarla aveva detto: “Non me ne faccia pentire”.

 

Nonostante l'aspetto inquietante, il direttore le piaceva. Le dava un senso di stabilità, ordine e dovere, e – soprattutto – non si dilungava in discorsi inutili, qualità che Natasha apprezzava sopra ogni altra.

 

L'incontro ai piani sotterranei si era rivelato una specie di seduta sartoriale. Le presero le misure (altezza, girovita, fianchi, seno, lunghezza delle braccia e delle gambe, numero di piede) e la rispedirono alla sua stanza.

A meno che non le stessero costruendo la bara perfetta, decise che non doveva essere nei guai.

 

Occupava il tempo libero leggendo, dormendo o allenandosi in palestra. Palestra ancora troppo affollata per i suoi gusti. Aveva provato a prender sonno dopo aver finito il quindicesimo libro in un mese e mezzo – Belli e dannati di Fitzgerald – ma aveva rinunciato dopo essere sprofondata nuovamente in assurde meditazioni che non la portavano da nessuna parte. Non aveva bisogno di pensare, aveva bisogno di fare.

Gli occupanti della palestra si erano tutti voltati verso di lei quando aveva fatto il suo ingresso: Natasha li aveva ignorati come meglio poteva. Ciò di cui necessitava era mettere in moto i muscoli, far lavorare braccia, gambe, impedire alla sua testa di divagare; se avevano voglia di starla a guardare, che si accomodassero pure. Magari avrebbero imparato qualcosa di nuovo.

Si era bendata accuratamente le mani, e aveva scaricato i suoi pugni e la sua frustrazione sul primo saccone libero che aveva individuato. Inutili erano stati i tentativi di colpirlo con più forza per coprire le chiacchiere di un gruppetto di agenti assiepati attorno al ring al centro della stanza. Si sentiva i loro sguardi addosso e sapeva fin troppo bene che le risatine e le occhiate che si scambiavano erano tutti rivolti a lei.

 

Dagli stralci di conversazioni che aveva colto durante quel mese trascorso allo SHIELD Central, Natasha aveva capito che la maggior parte degli agenti credeva che fosse arrivata fin lì semplicemente perché aveva sedotto, ammaliato e manipolato l'agente Barton, con grande sorpresa e delusione dei sostenitori di lui: come poteva un agente tanto competente essersi lasciato giocare così da una ragazzina? Lo sgomento si estendeva anche ai danni del Direttore Fury: perché non la lanciavano in una cella super sicura nella loro base in Alaska, magari dopo aver buttato la chiave nell'oceano?

Altri erano convinti che il suo aspetto avesse ingannato i loro superiori al punto da decidere di risparmiarla contro ogni buon senso. E se fosse stata ancora in contatto coi servizi segreti russi? E se li avesse uccisi tutti nel sonno? E se fosse riuscita ad infilarsi nel letto di tutti gli agenti maschi che vivevano alla base? Non si chiamava Vedova Nera per niente! E se tutti i suoi successi lavorativi fossero dovuti ad aiuti esterni? Se si fosse rivelata per quello che era, cioè un’incompetente? Sentì qualcuno suggerire di insegnarle a usare la macchinetta del caffè: male che andasse, avrebbe potuto servire la colazione durante i briefing del mattino.

 

Hai sentito? Gira voce che l'agente Barton sia stato mandato in missione in Colombia perché quei due non riuscivano a togliersi le mani di dosso.”

L'agente Coulson ha chiesto a Fury di tenerlo occupato per i prossimi sei mesi.”

Magari Fury, d'ora in avanti, ha intenzione di liberarsi dei suoi nemici in camera da letto.”

Dicono che le abbiano cambiato nome per non alienare i capi del consigli, per farla suonare meno russa.”

Possibile che la Guerra Fredda non ci abbia insegnato niente?”

 

Quel genere di chiacchiere, di solito, più che infastidirla, la divertivano. Ma non quel giorno.

Colpì il saccone con un calcio tanto forte da far saltare il gancio che lo teneva appeso al soffitto. Il capogruppo si fece avanti, cogliendo al volo l'occasione per tormentarla un po'.

“Ehi, Anastasia, hai intenzione di sistemarlo quello?”

Natasha si allontanò di qualche passo dalla sua inanimata vittima, passandosi il dorso della mano sulla fronte umida. Gli rivolse uno dei suoi sorrisi canzonatori e un'occhiata divertita.

“Perché non provi a chiedermelo per favore?”

L'uomo, alto, ampio di spalle, capelli scuri e mascella squadrata, si mise a ridere – i suoi amici, tre uomini e una donna, fecero altrettanto – prima di avvicinarla a sua volta con aria sfacciata.

“Non ti sembra che ti abbiano fatto già abbastanza favori, principessina?”

“Hai ragione. Magari è il momento che cominci a restituirli.”

“Scommetto che concedere favori è il tuo forte.”

“Oh, non sai nemmeno quanto”, aveva sorriso ancora più ampiamente. “Perché non lasci che ti mostri esattamente cosa so fare?”

L'agente si voltò verso i compagni, con lo sguardo di chi ha appena conquistato il primo posto con il minimo sforzo e una sana dose d'astuzia. Gli tornarono indietro occhiate ammirate dai ragazzi, mentre l'unica donna stava già guardando altrove, i segni della gelosia chiari come il sole sul suo viso, nella sua postura.

“Mi dispiace, Anastasia, io non picchio le donne”, si scusò infine con una scrollata di spalle.

“Wow, un gentiluomo tra noi”, commentò sarcasticamente, avvicinandolo ancora di qualche passo, con nonchalance, senza smettere di fissarlo negli occhi, ipnotizzandolo senza che lui nemmeno se ne accorgesse. “Sfortunatamente per te, Big Jim, io adoro picchiare gli stronzi.”

Il primo pugno lo colpì in pieno viso, il secondo nello stomaco, la ginocchiata tra le gambe, poi lo mandò definitivamente al tappeto. Non ebbe il tempo di pensare, che la donna vicino al ring le si scagliò contro, bellicosa, subito seguita dai tre compagni.

Il resto dei presenti si fermò ad osservare.


New York, USA
S.H.I.E.L.D. Central

Ore 17.40

 

Gli erano state sufficienti sei settimane per dimenticare quanto fosse terribile il caffè offerto dallo SHIELD. Un’organizzazione di gran fama, ma che non sapeva procurarsi una buona marca di espresso. Ci aggiunse almeno un paio di dosi di panna, prima di decidere che non avrebbe potuto migliorarlo ancora.

 

L’accoglienza, quel pomeriggio, non era stata esattamente una delle più calorose. Non che si aspettasse qualcosa di meglio. Immaginò che la voce della sua bravata si fosse già ampiamente diffusa. Lo SHIELD era come una piccola comunità, le notizie scivolavano di bocca in bocca e prendevano pieghe inaspettate a volte fastidiose, tutt’altro che attendibili. Perciò non si era stupito di ricevere occhiate che andavano dal curioso, all’ostile, e di rispondere a timidi saluti a volte appena abbozzati.

La gente era strana: tanto rapida a metterti su un piedistallo quanto a spingerti di sotto, per vederti precipitare impietosamente.

Clint non aveva mai chiesto di salirci e nemmeno si considerava una persona di grande popolarità all’interno dell’organizzazione. Non era di gran compagnia, quando si trattava di rapporti fra colleghi, ma negli anni aveva acquisito un solido rispetto, e si era sorpreso di suscitare un timore quasi reverenziale fra le nuove leve.

Il clima però non lo turbò, né lo fece precipitare in qualche sorta di ridicola paranoia. Aveva sul groppone diversi documenti da esaminare e un numero ancor più spaventoso di rapporti da redigere, per potersi preoccupare delle voci di corridoio.

 

Dopo le tre settimane di congedo, che gli avevano permesso di riallacciare i rapporti con i vicini di casa e i singolari personaggi del suo quartiere (Ehi, Colin, sei tornato!), aveva accettato di collaborare con l’ufficio personale per esame e reclutamento di alcuni soggetti da integrare nel nuovo organico.

Sapeva di non essere stato scelto grazie a particolari referenze per quel compito, ma ci vedeva lo zampino di Coulson in quella trama. Doveva aver deciso che gli sarebbe servito ancora del tempo, e un incarico che gli tenesse impegnata la mente e lo allontanasse ancora per un po’ dai polveroni pettegoli dello SHIELD.

Clint non sentiva la necessità di venir protetto, ma lo lasciò fare. E poi non gli era spiaciuto cambiare aria. La burocrazia però lo schiacciava. Non si era reso conto di quanta ne avrebbe dovuta smaltire, finché quel pomeriggio, l’agente Smith, non gli aveva sganciato sulla scrivania una quantità improponibile di cartellette cariche di documenti.

“Buon lavoro”, lo aveva schernito, prima di uscire dall’ufficio con un ghigno. Clint gli aveva lanciato in testa una gomma.

Era stato allora che aveva deciso che proprio non avrebbe potuto cominciare il lavoro, se non si fosse concesso un po’ di sana caffeina.

 

Avvertì però, per una volta di troppo, sguardi insistenti alle sue spalle.

“Cos’è, mi è improvvisamente cresciuta la gobba?” commentò, senza nemmeno voltarsi, sentendo i bisbigli sedarsi all’istante. Non era tanto quello che avevano da dire su di lui, ma il fatto che gli ronzassero attorno come fastidiose zanzare a dargli sui nervi.

“N-no, eravamo solo stupiti di trovarla qui, signore. Ci avevano d-detto che era in missione.” Si sentì rispondere, forse per non dare l’impressione sbagliata.

Clint si voltò, sorseggiando il suo pessimo caffè. Magari era arrivato il momento di chiarire qualche punto.

“Se così volete chiamarla…”, iniziò, lanciando loro sguardi ambigui. Non era che un gruppo di dipendenti ancora troppo giovani per aver imparato l’arte dell’imparzialità. “Ci saranno tagli al personale, sapete. Non so se ne siete stati informati. La riesamina di qualche curriculum, accertamenti lavorativi.” Lasciò la frase in sospeso, aspettando che attecchisse. “Il pettegolezzo non credo sia un punto a favore della produttività.”

Vide un’ombra di dubbio vagare nei loro sguardi.

“Potrei avere i vostri nomi, signori?”

“E-eravamo qui solo per prendere un caffè.” Sentì balbettare quello che sembrava il meno giovane della combriccola.

Clint fece schioccare la lingua con aria contraria: “Non credo sia una buona idea”, lasciò intendere qualcos’altro. “E’ pessimo”.

Li guardò sciamare lontano, investito da una mielosa soddisfazione. Quando tornò assaggiare la sua bevanda, per poco non sputò per brusco contrasto.

“Ti diverti a spaventare le matricole?” l’arrivo di Coulson gli strappò un sorriso.

“Non ho potuto farlo al liceo...”

“Non starli ad ascoltare.”

“Non lo faccio, ma è un po’ difficile non accorgersene. Dovrei averli smorzati per un po’.”

Coulson parve capire, ma non insistette. Al contrario si versò una generosa tazza di caffè.

“Mi hanno detto che hai un bel po’ di lavoro da digerire…” lo sentì dire, prima di rendersi conto che c’era un po’ troppo movimento nei corridoi.

“Coulson…”, lo richiamò all’attenzione, prima di intuire, fra le chiacchiere concitate, che sembrava esserci in atto uno scontro in palestra.

I due si scambiarono un rapido sguardo, prima di abbandonare la postazione e seguire i gruppetti di curiosi che si stavano spostando in quella direzione.

 

Fuori dalla palestra si era già assiepato un discreto capannello di persone. Coulson dovette sgomitare per farsi strada e lanciare sguardi severi che suggerissero la ritirata.

Quando l’invasione fu in parte dissipata anche Clint poté dare un’occhiata, ma quello che vide più che sorprenderlo, lo divertì: un quartetto di ragazzoni delle truppe speciali dello SHIELD era steso al suolo, in condizioni tutt’altro che rassicuranti. Mentre due donne si stavano amorevolmente scannando ai piedi del ring.

Non fece fatica a riconoscere Natasha in uno dei due avversari. E nemmeno si sorprese della sua indubbia condizione di superiorità. A parte qualche scomposto ciuffo di capelli, la donna non sembrava aver risentito granché dello scontro. L’altra, sudata e ansante, costretta in un angolo, la guardava come un animale braccato, spacciato.

“Che sta succedendo qui?” la voce di Coulson a sciogliere quel conflittuale idillio. “Che significa? A meno che non abbiate spiegazioni soddisfacenti per questo, mi vedrò costretto a prendere seri provvedimenti disciplinari.”

Sul volto della giovane agente dello SHIELD si verificò il panico, in quello di Natasha, solo una punta di fastidio. Come se l’interruzione del combattimento fosse arrivata assolutamente inopportuna.

Visto che nessuno parlava, allora lo fece lei: “Un allenamento che ci è solo un po’ sfuggito di mano.”

Coulson la squadrò, valutandone la sincerità. Non ci mise poi molto a concederle il beneficio del dubbio. O forse intuendo, fra le righe, quale fosse la verità.

Lanciò al resto del gruppo uno sguardo severo. Cosa che non sfuggì a nessuno di loro. Abbassarono gli occhi colpevoli, senza dire una parola.

“Direi che per oggi vi siete sfogati abbastanza allora.” Decretò, guardandoli raccogliere stancamente le proprie carcasse e prendere l’uscita.
Clint non poté fare a meno di notare come fossero diversi gli sguardi che ora rivolgevano alla donna. Confusione sicuro, e una punta di… gratitudine?

L’agente Coulson lanciò uno sguardo a Natasha che stava bruscamente sciogliendo le bende alle mani e tornò sui suoi passi, affiancando Clint alla porta. Non disse assolutamente nulla, ma capì che gli stava suggerendo che se mai avesse cercato un’occasione per parlare con la donna, dopo gli ultimi avvenimenti, quella sarebbe stata la volta buona.

Non ebbe tempo né voglia di ribattere qualsiasi cosa, che Coulson fu andato.

E dal pizzicore che avvertiva alla nuca, improvvisamente fu certo che Natasha lo stava guardando.

 

Si fece avanti, solo dopo un misero attimo di tentennamento. Non si era forse chiesto in continuazione come se la stessa passando?

Valutando la situazione e l’aspetto, avrebbe detto: straordinariamente.

“Mi avevano detto che eri costretta a indossare una maschera alla Hannibal Lecter.” Esordì. Non uno dei migliori approcci ma era l’unico modo in cui si sentiva di rompere il ghiaccio.

“E a me avevano detto che avevi deciso di astenerti dal parlare di cose insensate”, la sentì ribattere, mentre recuperava un asciugano fra quelli ordinatamente sistemati su una delle panche. “Evidentemente dicevano sciocchezze in entrambi i casi.”

Si sorprese a sorridere. Se non altro, non erano riusciti a spezzare il suo pungente sarcasmo.

“Già. Ne girano di stupidaggini, di questi tempi.” Alluse.

“Te ne curi?”

“Giusto il tempo di un caffè.”

“Quello qui fa schifo.”

“Touché.”

La vide voltarsi e rivolgergli improvvisamente tutta la sua attenzione, solo la maglia inumidita dal sudore ad indicare le sue recenti fatiche.

“A quanto pare non mentivi.” Decretò composta, senza dare l’idea di essere particolarmente colpita dalla rivelazione.

“Mentire è uno spreco di energie.” Le rispose placidamente.

“Mentire può scoprirsi fondamentale in un lavoro come il nostro.”

“Tu non eri più un mio lavoro.”

Vide, nel suo sguardo - per un attimo certo, ma lo vide - un guizzo di consapevolezza. Una lieve tensione nei muscoli del collo a suggerirgli che l’aveva disorientata, sorpresa.

“Spiegami perché.” Gli chiese allora, la voce vagamente più mansueta. Riusciva ad intuire il resto della domanda. La tacita confusione di chi non comprende perché mettere a rischio una carriera, un’esistenza, per una perfetta sconosciuta.

“Ho visto che avevi paura.”

La sentì sbuffare una risata: “Stronzate.”

“Dici? Riesci a dormire la notte, ora?”

Di nuovo quel guizzo disorientato.

“E tu ci riesci?” non si scompose a sentirsi rispondere con un’altra domanda.

“Da qualche anno come un bambino.”

“I letti dello SHIELD sono comodi.”

“Certo, e i muri sono rassicuranti.”

“Non le persone.”

“Alcune sì…”

Su questo Natasha non aveva avuto niente da ribattere.

 

New York, USA

Ore 18:10


Oltre la vetrata della tavola calda, le sue due ombre si stavano guardando freneticamente attorno, tornando continuamente su di lei a più riprese, le mani in tasca, la fronte coperta da un leggero strato di sudore.

 

“Fury deve aver promesso di staccar loro le palle se qualcosa va storto.”

Natasha si voltò verso l'agente Barton che, sedutole di fronte, come intuendo i suoi pensieri, aveva parlato. Lo guardò armeggiare col suo caffè, la scusa con cui era riuscito a convincere i suoi due carcerieri a permetterle di uscire dallo SHIELD Center per la prima volta da quando era arrivata a New York.

“Fury ha l'aria di esserne capace”, commentò in risposta, lanciando un'occhiata critica alla tazza piena di liquido scuro che la cameriera le aveva messo davanti, ma non prima d'averla squadrata per bene. Qualcosa le diceva che quella, per lui, era una meta abituale... non altrettanto per le sue presunte accompagnatrici, a giudicare dallo sguardo allarmato che Betsy – o così diceva la targhetta appuntata sulla sua divisa – aveva rivolto nella loro direzione quando avevano fatto il loro ingresso nel locale.

“Non sai nemmeno quanto”, confermò Barton con una risata repressa nella voce.

“Se ci metti altra panna, là dentro, corri il rischio di veder scritto 'colesterolo' tra le tue cause di morte”, non riuscì a trattenersi dal dire, vedendolo arraffare l'ennesima micro-confezione dal cestino sistemato al centro del tavolo.

L'uomo rialzò uno sguardo perplesso su di lei, evidentemente poco preoccupato della prospettiva: “Fai la dietologa nel tempo libero?”

Natasha ribatté con un'occhiata che si sarebbe potuta tradurre in: Fa' un po' come ti pare.

“Credo che tu gli piaccia”, riprese lui, girando il suo caffè con una lunga palettina di legno. “A Fury, intendo. Avete entrambi questo sguardo un po'...” Provò a mostrarle che razza di espressione avesse in mente. Fallì miseramente. “Solo che lui ha un occhio solo.”

“Sei molto perspicace. Sono ufficialmente impressionata.” Il suo tono era asettico, monocorde, un sopracciglio alzato con aria interrogativa.

“Comincio a chiedermi se tu sia mai stata impressionata in vita tua. Sul serio, intendo”, alluse in tono canzonatorio, come a sminuire il peso della sua risposta.

“Non capita spesso... ma capita”, gli concesse.

“Potresti cominciare assaggiando quel caffè. Ti porto a bere il miglior caffè americano di New York, e non accenni neanche a volerlo provare?” Indicò la sua tazza ancora intatta.

“Non bevo caffè.”

“Stai scherzando.”

Le bastò un'occhiata per fargli capire che, no, non scherzava affatto. Barton si agitò sulla panca, attirando l'attenzione di Betsy che non smetteva di guardare nella loro direzione.

“Ehi, Bess!” la richiamò. “Ti dispiace portare un...” si voltò verso Natasha, una tacita domanda negli occhi.

“Tè.”

L'uomo parve avere un rigetto solo a sentirne pronunciare il nome, ma non disse niente. “... un tè per la Regina dei Ghiacci?”

La cameriera annuì con aria riluttante e Natasha si chiese se non le avrebbe sputato nella tazza, tanto per gradire. Non era neppure sicura che Barton si fosse accorto della cotta che la ragazza – minuta, bionda, esile – sembrava avere per lui.

“Dovresti pensare a metterlo nel curriculum”, le suggerì.

“Ho già un nome in codice di dubbio gusto.”

“Giusto... sei stata tu a sceglierlo o... ?”

“E tu?”, rilanciò lei. “Sei stato tu a scegliere il tuo?”

Ci aveva messo un po' a capire chi diavolo fosse quell'Occhio di Falco di cui tutti andavano parlando. Inizialmente pensava si trattasse di un dolce, poi di una canzone: in entrambi i casi aveva scoperto di avere torto.

“Va bene, va bene. Ho capito l'antifona.”

Betsy tornò col suo tè e un sorriso imbarazzato in direzione di Barton. Per essere uno che osservava la gente per lavoro, non le sembrava che fosse molto sveglio. Magari i suoi talenti si rivelavano solo da una certa distanza. Magari era metaforicamente presbite. Magari lo era davvero.

“Hai visto? Stai distruggendo la mia reputazione. Sembra che una ragazzina mi stia facendo verbalmente a pezzi.” Le fece notare, fintamente compito.

“Non sono una ragazzina”, fu la pronta risposta, mentre zuccherava il suo tè.

“Non so nemmeno quanti anni hai.”

“Neanche io.”

Evitò di guardarlo, ma si sentì addosso il suo sguardo comunque. Si chiese se si fosse accorto che non stava scherzando. Rimasero in silenzio per un paio di scomodi istanti durante i quali Natasha prese in seria considerazione la possibilità di farsi portare via dai suoi cani da guardia.

“Ti hanno già detto quando ti daranno il via libera per le missioni sul campo?”

Natasha scosse il capo. Aveva la netta sensazione che quella era una conquista che avrebbe dovuto sudare per ottenere.

“Parlerò con Fury”, suggerì allora lui.

“No.” Il monosillabo le sfuggì di bocca con decisione tale da sorprendere persino se stessa. “No, non parlare con Fury.” Aggiunse in tono meno ostile, evitando di nuovo di guardarlo.

 

Percepì una risposta sospesa nell'aria, ma un attimo dopo un bussare alla vetrata arrivò a distrarre entrambi. Natasha riconobbe una delle sue ombre, sempre più pallida ed agitata. Indicò nervosamente all'orologio che aveva al polso, come a dirle di darsi una mossa.

“Devo andare”, annunciò allora, rimettendosi in piedi. Accennò alle due bevande a malapena toccate. “Dovresti offrirne una a Betsy.”

Se aveva capito, Barton non lo diede a vedere.

Natasha tirò fuori una banconota da venti dollari, poggiandola sul tavolo: “Lasciale la mancia”, aggiunse, scivolando tra la panca e il tavolo per rimettersi in piedi.

 

Fece per andarsene e basta, ma - per quanto s'impegnasse per convincersi che non gli doveva proprio niente, che tutto quello che aveva fatto l'aveva fatto di testa sua - qualcosa la tenne bloccata lì. Una parte di lei avrebbe voluto ringraziarlo, un'altra voleva dirgli di farsi gli affari suoi, un'altra ancora assicurargli che non aveva bisogno di nessun aiuto, che non ne aveva mai avuto.

Nessuna delle tre ebbe la meglio.

“Non so ancora il tuo nome”, disse invece, un'espressione indecifrabile dipinta sul volto.

L'uomo parve sorpreso, ma non si scompose più di tanto.

“Clint. Clint Barton.”

Natasha annuì, come a prenderne atto.

“Natasha Romanoff”, dichiarò in risposta, prima di scrollare leggermente le spalle. “Per adesso, almeno.” Ci tenne ad aggiungere.

Non che avesse una qualche importanza... non era neppure sicura che Natalia fosse il suo vero nome.

Si trattenne ancora per qualche istante, quel tanto che le bastò per rendersi conto di non ricordare quando fosse stata l'ultima volta che aveva salutato qualcuno che avrebbe rivisto.

“Allora... ci vediamo in giro, Barton.”

Clint abbozzò un sorriso.

“Ci vediamo in giro... Regina dei Ghiacci.”

Mentre se ne andava, Natasha alzò gli occhi al soffitto con una velocità tale da procurarsi un fulmineo mal di testa.




Note:

Il passo sul test di associazione di parole si ispira ad una scena del film Skyfall.

 

~~~~~~~~~

Arrivederci al prossimo capitolo per l'epilogo della storia... :)

  
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Film > The Avengers / Vai alla pagina dell'autore: BlackEyedSheeps