Fanfic su artisti musicali > Guns N'Roses
Segui la storia  |       
Autore: La neve di aprile    09/09/2013    0 recensioni
Era inevitabile del resto, si disse stringendo una sigaretta tra le labbra.
Vista la situazione in cui si era cacciato, non c'era altro che potesse fare e se lo faceva, era per ragioni che andavano al di là della sua comprensione.
Non era mai stato particolarmente maturo e non se n'era mai fatto un cruccio, ma se riusciva a leggere del rimprovero persino negli occhi verdissimi di Axl, allora aveva superato ogni limite.
Finse di non pensarci o di non essere turbato, soffiando fuori una nuvola di fumo che s'increspò nell'aria incandescente dell'estate, prima di lanciare il mozzicone ancora acceso oltre la balaustra del minuscolo terrazzino che lo ospitava.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro personaggio, Duff McKagan, Quasi tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 
CENTER OF ATTENTION

II
A Seattle pioveva spesso, a Los Angeles il sole splendeva tutti i giorni dell’anno


 
 
 
A Seattle pioveva spesso, a Los Angeles il sole splendeva tutti i giorni dell'anno.
Le mancavano le giornate uggiose, le mancava l'odore dell'aria che si sporcava di umidità, le mancava schiacciare il viso contro il vetro di una finestra per spiare il via vai continuo delle macchine giù in strada. La pioggia era discreta, concedeva margini di ombre in cui confondersi, con cui confidarsi, e nel suo continuo scrosciare affogava il silenzio che in quel momento allungava le sue dita infide, invisibili, a strangolarle il collo.
Riaprì gli occhi, spalancandoli sul soffitto sporco del piccolo soggiorno: una macchia di muffa, una crepa, la vernice bianca scrostata che minacciava di precipitarle sul viso, un ragno in un angolo.
Aveva imparato a memoria le geometrie di quell'appartamento tanto quanto quelle del malumore di Duff le erano ancora estranee. Certo, sapeva cogliere il preludio di una sfuriata dal modo in cui i suoi occhi si offuscavano e le sue labbra si serravano, ma del perché questo accadesse non aveva ancora la ben che minima idea a riguardo. Sapeva che quando irrigidiva la mascella, oltre a immagazzinare parole poco lusinghiere e affilate di cattiveria da riservarle, un brivido le correva lungo la schiena e non sapeva mentire a se stessa fingendo che non lo trovasse bello. Aveva iniziato a notarlo per noia, così come aveva iniziato a notare le macchie di unto sulle piastrelle sopra i fornelli.
Qualche mattina dopo quell'unica serata passata fuori casa l'aveva incrociato per caso mentre sgattaiolava furtivo verso la sua camera.
Le scarpe in mano, un calzino bucato - il sinistro -, la maglietta tutta stropicciata e l'etichetta che faceva capolino sul collo, tra i capelli scompigliati.
Aveva il trucco sbavato come succedeva a lei quando era troppo stanca per lavarsi la faccia, una sensazione di vissuto aggrappata alla pelle segnata da occhiaie e il languore che gli stirava le labbra in una smorfia sensuale al pensiero del buio fitto e dell'abbraccio del suo letto da lì a qualche minuto.
Si erano incrociati perché mentre lui entrava, lei usciva.
Il giorno e la notte, in una timida aurora che avevano evitato con tutte le loro forze sorgesse e in un tramonto che avevano impedito si spegnesse oltre la linea di un mare di parole taciute.
Non aveva avuto modo di sottrarsi allo scontro, due paia di occhi offuscati dagli strascichi di un risveglio non ancora scacciato e dal desiderio di un sonno senza sogni in cui smettere completamente di pensare; l'impatto che non era stato violento l'aveva fatta sobbalzare ugualmente per la sorpresa nell'attimo in cui aveva realizzato di aver registrato un'infinità di dettagli troppo specifici per non essere ricercati.
Le scarpe in mano, un calzino bucato - il sinistro -, la maglietta tutta stropicciata e l'etichetta che faceva capolino sul collo, tra i capelli scompigliati.
Li aveva recitati uno dopo l'altra tra le labbra socchiuse su uno stupore tutto nuovo che non avrebbe potuto decifrare, non una preghiera né una supplica, ma un elenco sterile di informazioni assimilate in un'occhiata soltanto mentre barcollava indietro d'un passo e andava a sbattere con la schiena contro lo stipite della porta.
La sensazione del legno conficcato in mezzo alle scapole - ruvido, pungente, sgradevole - non era altrettanto nitida come lo schiaffo del profumo di lui e la carezza del suo respiro tra i capelli - tiepido, morbido, gradevole - e per un attimo non aveva saputo cosa fare, né cosa dire.
Quindi non aveva detto nulla, prevedibile tanto quanto lui invece la sorprese con l'esatto contrario.
“Scusa” aveva borbottato, soffocando uno sbadiglio e attardandosi nel metterla a fuoco.
“...non fa niente” si era costretta a replicare, memore di quanto il non ottenere una risposta lo facesse infuriare.
Duff aveva socchiuso gli occhi scuri, feriti da una lama di luce che gli pioveva sul volto, nel tentativo di metterla a fuoco nel mare di pulviscolo dorato che le vorticava attorno.
Una pausa si era allungata tra di loro, tutt'altro che placida, e Hannah si era strofinata una mano sugli occhi solo per rompere il silenzio con il fruscio della maglietta che si tendeva sulla pancia e poi si ammorbidiva nel momento in cui tornava ad abbassare il braccio.
Gli occhi di lui non l'avevano lasciata per un solo istante, pugnali d'oscurità concentrati sulla linea invadente del ventre gonfio di vita.
“Ti va un po' di caffè?”
“E' vero quello che hai detto?”
Avevano parlato contemporaneamente e allo stesso modo, poi, si erano risposti.
“Eh?”
“Eh?”
Hannah aveva preso fiato e coraggio, facendogli cenno di iniziare.
“E' vero quello che hai detto l'altra sera?”
A Seattle pioveva spesso, a Los Angeles il sole splendeva tutti i giorni dell'anno.
Cosa diavolo aveva detto, l'altra sera?
“Cosa ho detto?”
“ Che è ancora troppo presto perché scalci.”
Si era chiesta se la stesse prendendo in giro, tormentando l'orlo della maglia con dita inquiete come il suo sguardo che saltava da Duff, alle sue scarpe, al calzino bucato e poi di nuovo al volto del ragazzo, deviando saltuariamente verso qualche angolo più neutro che non offriva né conforto né suggerimenti.
“No, non è troppo presto” aveva detto quindi, senza sapere da dove arrivava la sua voce, come avesse fatto ad attraversare la gola serrata dal panico improvviso, come si fosse intrufolata tra le labbra secche, sigillate da una colla di paura.
“Non l'ha mai fatto?” aveva insistito lui, sorprendendola per la seconda volta in una stessa giornata.
L'aveva scrutato con maggiore attenzione, sbirciando tra i capelli soffici che gli ricadevano sulla fronte liscia come per scovare una chiave o un indizio che potessero aiutarla a decifrare il mistero di quelle domande.
Sapeva di non aver colto né preoccupazione né interesse che si riconducesse ad un qualsiasi abbozzo di affetto paterno; semmai era la curiosità di un bimbo che si approcciava a qualcosa di sconosciuto con in mente solo una vaga idea della questione.
Un bambino non può crescere un altro bambino.
“L'ha fatto, è da quasi un mese che scalcia.”
“Non me l'hai mai detto.”
“Non me l'hai mai chiesto.”
Non si erano rimproverati nulla, avevano sottolineato l'ovvio.
Il non detto, il taciuto, si erano alleggeriti di una manciata di parole e avevano spinto per i sorrisi che si erano scambiati un attimo più tardi. A labbra chiuse, senza troppa convinzione e comprensione di quel minuscolo passo che non li aveva avvicinati ma che li aveva resi coscienti l'uno dell'altra come non lo erano mai stati fino ad allora.
Hannah si era sentita guardata come se venisse vista per la prima volta, e per la prima volta aveva deciso di non avere paura di dire una cosa che pensava per timore di una solitudine che non si sarebbe comunque affievolita. Aveva messo a lucido il coraggio appena conquistato, inamidato lo slancio improvviso e ricamato parole che non erano gentili, ma poco ci mancava.
“Scalcia spesso la notte” - quando non lui non c'era - “e solo al mattino si calma.” - quando tornava a casa e se ne andava a dormire - “La prima volta ho quasi preso paura, pensavo fosse un crampo particolarmente fastidioso.”
Aveva ridacchiato, senza strappargli più di un cenno del mento che era tornato a nasconderlo dietro un velo d'orgoglio. Non le aveva chiesto di fargli sentire nulla, non le aveva chiesto se avesse mai pensato di dirglielo, non le aveva chiesto se la paura era passata o se si era trasformata in qualcosa di diverso.
L'aveva scrutata in silenzio ancora, come a voler vagliare le possibilità che gli si dipanavano davanti, indossando una bellezza sciupata di cui non era stato consapevole - ma che a lei non era sfuggita, per la quale aveva incolpato noia, solitudine e reclusione condite di ormoni fuori controllo - per poi finalmente decidere.
“Non lo voglio il caffé, grazie.” aveva detto, distogliendo lo sguardo da Hannah e superandola, scomparendo nella famigliare, solitaria oscurità artificiale della sua stanza. Lei aveva aspettato il tonfo soffocato della porta che si richiudeva dietro e su di lui, su quel frammento di conversazione che si erano regalati, segnale implicito di una routine di silenzi e finzione ristabilita, per staccarsi dallo stipite - ruvido, pungente, sgradevole - con un colpo di reni meno scattante di quanto non sperasse e attraversando i dieci passi che la separavano dal cucinino dove si sarebbe preparata un caffé che non avrebbe condiviso con nessuno.
Oltre le finestre spalancate sulla calura estiva, la città strideva e strillava ricordandole di come una nuova giornata si annunciasse soleggiata e solitaria.
A Seattle pioveva spesso, a Los Angeles il sole splendeva tutti i giorni dell'anno - e lei neppure oggi avrebbe avuto uno scroscio di pioggia che scacciasse con il suo mormorio tutta la solitudine e il silenzio che le premevano addosso, soffocandola nell'attesa di riconoscere lo scricchiolio del pavimento che le avrebbe raccontato del rientro di Duff.
 
 
Era già sveglia, quando rientrò finalmente a casa.
Si era attardato fino a quando l'alba non si era sciolta nella radiosità di una mattinata senza nubi - a Seattle pioveva spesso, a Los Angeles il sole splendeva tutti i giorni dell'anno - e i marciapiedi sconosciuti non si erano trasformati in scorci di periferia fin troppo noti.
I casermoni si inseguivano uno dopo l'altro, tutti uguali e tutti tatuati di graffiti più o meno sbiaditi, i suoi passi s'infilavano uno dopo l'altro senza che avesse bisogno di scegliere che svolta imboccare o quali incroci attraversare: come accadeva tutti i giorni, al termine della notte era il suo stesso corpo a scegliere di tornare a casa, quando finalmente la mente era troppo stanca o troppo intontita per poter mettere a fuoco ciò che lo circondava.
Aveva caracollato oltre il portone lercio, sbattendo contro il primo passamano d'ottone opaco e ridacchiando da solo - le scale gli aveva rimandato un patetico eco della sua ilarità ubriaca - nel tentativo di arrampicarsi su quei dieci piani di gradini che lo separavano dal suo letto.
In un angolo tra il quarto e il quinto piano aveva urinato più birra che altro, avendo la buona cura di premurarsi di scegliere un angolo talmente irrespirabile che l'idea di aver contribuito al tanfo gli aveva impedito di respirare per il troppo ridere per le tre rampe di scale successive. Una visione rosa confetto gli aveva sbarrato la strada due piani più in su, armata di scopa e insulti che sentiva rimbalzargli addosso senza che nulla lo disgustasse più delle rughe ai lati delle labbra e degli occhi inferociti della signora che aveva scansato senza degnarla di una risposta mentre la fatica gli azzannava le gambe impietosa.
Al nono piano, su un pianerottolo ingombro di piante secche al punto da sembrare solo che ridicolo, si era concesso una sigaretta convinto che sarebbe stata la sua ultima, che la mancanza d'ossigeno ai polmoni l'avrebbe stroncato all'alba dei suoi ventun anni e che niente lo avrebbe potuto risparmiare da una sorte tanto crudele.
Varcare la soglia di casa era stato un sollievo indescrivibile, a paralizzarlo fu invece la vista di lei raggomitolata sul divano.
Scalza, le mani raccolte vicino al volto pallido, una tazzina vuota abbandonata sul pavimento accanto ad una rivista stropicciata e i capelli ancora umidi sulle punte. Non poteva sentirlo ma poteva giurarlo, sulla pelle doveva esserci odore di sapone.
A Seattle pioveva spesso, a Los Angeles il sole splendeva tutti i giorni dell'anno.
Non dormiva, aveva gli occhi aperti e fissi sulla piccola televisione spenta.
Riusciva quasi a scorgere il grigio dello sguardo, tra le ciglia scure e ciocche di capelli scombinate che le ricadevano sulla pelle chiarissima.
Non avrebbe saputo dire per quanto tempo fosse rimasto così, immobile sull'uscio di casa, la mente annebbiata da stanchezza e alcol e ogni singolo pensiero che scappava al suo labile arbitrio per aggrapparsi a dettagli sconosciuti di Hannah. Poteva sentirli incastrarsi da qualche parte di lui, quadratini dagli spigoli taglienti come lame, chiodi di consapevolezza conficcati con forza nella parte più fragile ed esposta di sé.
“Non mi ricordo mai come si chiama” esordì incerto, senza neppure sapere perché lo stesse facendo.
Loro non si parlavano, era l'unica condizione posta al precario equilibrio in cui convivevano: scambiavano qualche parola solo se strettamente necessario, ma mai – mai - andavano oltre la superficie di ipocrita cortesia.
“Cosa?” fece di rimando lei, aggrottando la fronte e torcendo di poco il collo per cercarlo.
Negli occhi aveva il colore del cielo prima di un temporale.
Non c'era sole ad illuminarli, solo la cupa sfumatura di una solitudine inenarrabile.
“Il fiore” biascicò, caracollando accanto al bracciolo per aggrapparvisi malamente. Ridacchiò, e lei storse il naso per la puzza dell'alcool, ma quando sfiorò il tatuaggio con la punta delle dita era un brivido quello che contrasse la pelle sotto i suoi polpastrelli.
“Un loto” rispose dopo qualche attimo di ritardo, facendo leva su una mano per tirarsi a sedere.
Si fronteggiarono in silenzio, occhi negli occhi, e lui si sentì sprofondare nel grigio nebbioso che colorava lo sguardo di lei come fosse un mare in tempesta pronto a sommergerlo e soffocarlo nella sua morbidezza.
“Perché l'hai fatto?”
“Perché ero giovane, stupida e ubriaca” recitò lei senza convinzione, imbastendo la più innocua delle risposte. Loro non parlavano, ricordò Duff con un singulto sordo che gli riempì la bocca serrata di un sapore disgustosamente acido.
Ma non sorrise beffardo, non annuì, non disse che aveva capito, che dietro quel fiore d'inchiostro sbocciato sotto la pelle c'era qualcosa di più. Non disse che gli sarebbe piaciuto, in realtà, sedersi sul pavimento ad ascoltare quel che lei avrebbe potuto dirgli.
Non fece nulla di tutto questo: si premette una mano sulle labbra livide di rossetto sbiadito e corse via, disseminando sul pavimento tracce di vomito.
 
Ci mise qualche attimo a registrare che le dita intente a scostargli i capelli dal volto non solo erano morbide e fresche, ma non erano neppure le sue.
Aveva la netta sensazione della ceramica gelida premuta sotto i polpastrelli, come avrebbe potuto accarezzarsi così delicatamente la fronte e le guance al tempo stesso?
Serrò gli occhi con forza, la mente annebbiata dal dolore sordo all'addome e la bocca riarsa dai fiotti acidi che scorrevano impetuosi sul palato, scivolavano tra i denti e si riversavano nella tazza del water. Tossì, le narici bruciate dal vomito che gocciolava dalla punta del suo naso.
“Butta tutto fuori, Duff.”
A Seattle pioveva spesso, a Los Angeles il sole splendeva tutti i giorni dell'anno.
Aveva raccolto i capelli nel palmo di una mano, e con l'altra seguiva il sentiero aguzzo della sua colonna vertebrale. Scendeva e risaliva, costante. Confortante.
Non poteva vederla, ma sapeva esattamente come le sue ginocchia si stessero arrossando contro le piastrelle sporche del bagno. Sapeva come il suo volto fosse contratto in una smorfia disgustata e come cercasse di respirare con la bocca per non sentire la puzza orrenda delle sue miserie; sapeva anche come la nausea che le serrava la gola non fosse il riflesso di quella implicita nei suoi occhi, rimasti placidi come uno stagno sotto un cielo metallico.
Se l'avesse guardata in faccia, avrebbe letto tra le righe delle sue espressioni una preoccupazione genuina forte al punto da vincere ogni ritrosia per infrangere la fragilissima impalcatura di regole impilate a casaccio in mesi di convivenza forzata.
Non parlarsi, non toccarsi, non mostrarsi nulla più di una vaga indifferenza.
E ora aveva nelle orecchie il mormorio costante di una voce morbida a rassicurare i suoi pensieri sbriciolati dall'alcol, sulla schiena dita gentili contro il cotone della maglietta.
“Così, da bravo” bisbigliò ancora Hannah con voce morbida, allungandosi per tirare lo sciacquone una terza volta e urtandolo inavvertitamente con il pancione. Era morbido, si sorprese a pensare Duff. Morbido e caldo, mentre le dita di lei erano fresche e ferme nel sostenergli la fronte mentre un nuovo riflusso acido lo costringeva in avanti e lo svuotava d'ogni brandello d'anima gli fosse rimasto in corpo.
Ripensò a tutte volte che l’aveva sentita – nel cuore della notte, della mattina, del pomeriggio, di qualsiasi cosa stesse facendo o pensando di fare – correre scalza lungo la falsariga di corridoio che separava il soggiorno dalla sua camera per chinarsi sul water e rimettere in perfetta solitudine, senza nessuno che potesse cullare e placare il suo dolore.
Ripensò alle volte che silenziosamente l’aveva maledetta per il disturbo, rigirandosi nel letto e fingendo di non sentire i conati e i singulti; le lacrime che immaginava averle scavato la faccia quando poi riemergeva dalle tenebre e la scorgeva rannicchiata sul divano, gli occhi arrossati e le ginocchia raccolte al petto.
Ripensò a tante cose, mentre Hannah si alzava in piedi e lo sosteneva con dita ferme guidandolo verso il lavandino, lo faceva sedere sul bordo della vasca da bagno e con una dolcezza che non ricordava di aver sperimentato da molto tempo gli tamponava le labbra riarse e gli puliva la faccia.
Gli venne in mente l’incertezza che le colorava gli occhi tutte le volte che aveva necessità di chiedergli qualcosa, il fremito delle labbra che precedeva il brusco imporsi di silenzi tanto più indesiderati quanto più il suo bisogno di parlare era impellente.
“Ho scelto il loto perché mi piace pensare che anche io, come il fiore, un giorno sarò in grado di alzarmi da questo schifo di fango dove sono impantanata.”
A Seattle pioveva spesso, a Los Angeles il sole splendeva tutti i giorni dell'anno.
Ciondolò il viso con aria stanca, nel tentativo di incrociare lo sguardo grigio di Hannah; lo trovò senza che lei scegliesse di sottrarsi all’interrogativo silenzioso che sapeva riecheggiare urgente nei suoi, di occhi, dove il marrone si faceva nero nella luce tremula della piccola stanza.  La ragazza non gli sorrise, dandogli brevemente le spalle per tornare a sciacquare la pezzuola umida con gli aveva ripulito il viso.
“Non credo a tutte quelle stronzate buddiste sull’eternità dell’anima, o sul liberarsi dalle passioni per raggiungere la purezza. È un promemoria per non dimenticare mai che c’è vita oltre la melma e l’acqua, oltre tutto quello che mi soffoca.”
Tornò a chinarsi su di lui, raccogliendogli il mento tra le dita per ripulirgli gli angoli delle labbra ancora socchiuse, come a volergli impedire di dire qualsiasi cosa.
“Probabilmente lo trovi stupido, così come sembri trovare stupido tutto quello che esce dalla mia bocca, ma certe volte ho davvero bisogno che qualcosa, se non qualcuno, mi dica che non sarà sempre così. Che non sarò sempre incita, che non sarò sempre sola, che non sarò sempre incastrata in una vita che non mi appartiene e che non avrei mai dovuto vivere.”
Duff, che non trovava per niente stupido quello che lei gli stava confessando con tanta leggerezza, si limitò a guardarla con occhi offuscati. Da qualche parte, dentro di lui, dove l’alcol era sfiorito e la ragione raccoglieva faticosamente sottili brandelli di concentrazione, da qualche parte lì in fondo avvertì nitida la voglia di baciarla. Di avvolgerle il volto tra le mani e mangiare dalla sua bocca tutta quella tristezza, tutto quel dolore; e rimangiarsi tutta l’indifferenza che le aveva rovesciato addosso giorno dopo giorno, soprattutto, facendo ammenda per le sue paure e le sue mancanze.
Hannah premette un’ultima volta la pezza umida sulle sue labbra, come intuendo il suo desiderio, e rimane immobile qualche attimo. Solo uno strato di stoffa tra labbra e polpastrelli, un confine sottilissimo e al tempo stesso invalicabile, un muro di fibre intrecciate a separare le intenzioni dall’azione. Duff abbassò le palpebre, frastornato dall’intensità vellutata degli occhi di lei. Non aveva mai realizzato – mai veramente – quanto il grigio potesse essere un colore confortante. Un colore da cui lasciarsi cullare, pulito e fresco come pioggia in una giornata troppo calda. Un colore in cui affondare e sparire, dimenticare ogni cosa.
“Non lo fare,” bisbigliò lei con un sospiro, “ti prego Duff, non lo fare.”

“Non fare cosa?” le chiese suo malgrado, pur comprendendo perfettamente le ragioni disperate di quella supplica senza voce, svuotata di ogni energia. Se avessero superato quell’ultimo confine, se avessero infranto quell’ultima regola - non parlarsi, non toccarsi, non mostrarsi nulla più di una vaga indifferenza – non sarebbe rimasto più nulla in grado di arginare il diluvio che sarebbe esploso e la tempesta sarebbe stata troppo violenta perché chiunque potesse sopravviverle.
Un bacio valeva davvero tutto quello?
Un bacio avrebbe giustificato la rottura delle fondamenta del loro stare assieme?
Un bacio.
Solo un bacio.
Duff non era mai stato meno che egoista e infantile. Sin da quando era un bambino dai capelli castani e gli occhi spalancati aveva sempre strepitato e pestato i piedi per avere ciò che desiderava e crescendo non era poi cambiato. Semplicemente aveva imparato modi più sottili per esaudirsi, esplorando le infinite vie della manipolazione, facendosi subdolo al limite della meschinità.
Come avrebbe potuto una cosa innocua come un bacio, una cosa così piccola, fare del male a qualcuno?
A Seattle pioveva spesso, a Los Angeles il sole splendeva tutti i giorni dell’anno.
Duff accantonò ogni indugio e ascoltò il rigurgito impetuoso delle proprie voglie.   Strinse con dolcezza il polso di Hannah in una mano, disfacendo la sua ultima difesa, e  contemporaneamente avvolse la sua guancia nel palmo dell’altra per tenerla ferma e andarle incontro, per trovare e catturarle la bocca in un gesto tanto sconsiderato quanto liberatorio.
Il sollievo fu tale che una vertigine lo colse impreparato, sbilanciandolo al punto da farlo cadere con la schiena contro il bordo incrostato della piccola vasca da bagno alle sue spalle. La ragazza assecondò i suoi movimenti con un gemito spaventato, il ventre rotondo perfettamente incastrato a colmare la distanza che li separava.
Baciandola, gli tornò in mente quell’unica volta in cui erano stato a letto assieme, il sapore della sua pelle e la morbidezza spietata delle sue carezze. In un lampo di luce così intenso da fargli temere che sarebbe rimasto impresso nella sua retina per sempre ricordò come si fosse sentito dopo e la paura che gli aveva stretto lo stomaco quando aveva realizzato che il suo corpo non avrebbe mai potuto dimenticare cosa significasse sciogliersi e confondersi in altra carne, al punto che l’aveva reclamata – inconsciamente, mordendola e vezzeggiandola – affinché nessun’altro potesse privarlo del piacere di possederla. Di averla.
Violò le sue labbra con ferocia improvvisa, rubandole le parole dalla bocca in cambio delle sue; uno scambio impari che si trascino nel silenzio della piccola stanzetta al ritmo del gocciolare del lavandino. Fu solo quando la sentì gemere contro la sua lingua che si rese conto di stringerla con violenza ingiustificata, una mano sulla gola e una premuta sul reticolo palpitante di vene azzurrognole sbocciato al confine ultime di un palmo teso, contratto, congelato in uno schiaffo che non aveva modo di raggiungerlo.
Quando si staccò, quando ebbe finalmente la cortesia di allentare la stretta attorno al suo polso – e il cuore di lei smise di battere furioso contro le sue dita, concedendogli di assaporare per la prima volta il suono di una mancanza sofferta –, Duff non vide Hannah scivolare sulle piastrelle, verso la porta del bagno, né ebbe modo di leggere il terrore che si cristallizzò limpido nei suoi grandi occhi chiari. Sentì solamente la porta sbattere e i suoi passi ciabattare sulle piastrelle sporche del corridoio. Rimase qualche attimo attonito, poi il suo corpo reagì e lo costrinse a trovare nuovamente il water in cui seppellire la sua vergogna.
A Seattle pioveva spesso, a Los Angeles il sole splendeva tutti i giorni dell’anno.
Ma ogni tanto anche a Los Angeles piove e quando capita niente di buono può veramente accadere.



 
[ ... ]





 
Avviso ai naviganti:
tra due settimane mi troverò ad affrontare una vita completamente diversa da quella attuale. Per studiare mi trasferisco a sei ore di treno da casa, lontana da famiglia, cagnona, moroso e amici. Non so come questo si rifletterà sui miei aggiornamenti - potenzialmente potrei passare le giornate a scrivere così come a piangere, non lo so - ma confido nella vostra comprensione e pazienza. La mia pagina facebook è a vostra completa disposizione per insulti, lamentele, curiosità o quant'altro.
Un bacio grande e al prossimo capitolo.

 
   
 
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > Guns N'Roses / Vai alla pagina dell'autore: La neve di aprile