La
voce leggermente stridula di una hostess mi sveglia dal sonno
tormentato in cui
sono caduta, letteralmente, dato
che
ho sognato di precipitare dentro un buco, come Alice, ma senza coniglio
bianco
o porte minuscole; nel sogno mi limitavo a vegetare dentro quello che
sembrava
un pozzo molto fondo per il resto della mia vita, e non morivo
cibandomi di
strane rape blu che crescevano lì dentro. Non sono mai stata
del tutto normale,
in fatto di sogni. E no, non sono una consumatrice di LSD, se ve lo
state
chiedendo. Faccio solo sogni strani. Capita, è
così che va la vita, alcune
persone fanno sogni strani, altre li fanno nella norma, altre ancora
non li
fanno. Capita.
«Signorine,
stiamo per atterrare, dovete allacciare le cinture», dice la
hostess con la
voce non poco irritante. Ancora intontita dal sonno, annuisco. devono
farlo
anche le mie amiche, perché lei ci avvolge con un sorriso
rugoso – non sapevo
che le hostess potessero avere più di trentacinque anni,
sono contenta che la
discriminazione non sia arrivata ancora a questi livelli – e
se ne va ad
avvertire qualche altro passeggero che come noi, durante il volo, si
è
addormentato.
«Quanto
tempo abbiamo dormito?», chiedo alle altre.
«Tu
sei crollata come un sasso finito il pranzo, con la pancia
piena», risponde con
un sorrisino Rain.
Non
mi convince quel sorriso. «Perché
sorridi?»
Tossichia.
«Sei carina quando dormi»
«Non
prendermi in giro», le dico puntandole un dito contro il
petto. «Perché diavolo
stai sorridendo in quel modo inquietante? Rispondi»
«Che
maniere!», sbuffa. «Diciamo che, emh… ti
ho aiutato a fare sogni tranquilli»
«Sono
caduta dentro un fottuto buco buio a cibarmi di rape blu, nel mio sogno
tranquillo». E in quel momento collego. È vero che
faccio sogni strani, ma rape
blu? «mi hai drogata?», boccheggio.
«Ti
ho messo un tranquillante nell’acqua, giusto per farti
addormentare. Frances,
l’ha messo, per la precisione»
Guardo
Frances che si stringe nelle spalle. «Mi spiace, ma noi
abbiamo detto no agli
attacchi di panico»
«Traditrice»,
sibilo guardandola in cagnesco.
Sento
qualcuno che mi appoggia una mano sulla spalla e alzando gli occhi noto
che è
l’hostess di prima, un qualche sentimento negativo nei miei
confronti
mascherato da un sorriso in volto. «Sì,
scusi», dico imbarazzata trafficando
con la cintura e riuscendo, dopo svariati tentativi, ad allacciarla.
Alzo la
testa e le sorrido.
Sono
quasi sicura di essermi meritata una maledizione da parte sua, quindi,
sconsolata, mi accascio sul sedile, ancora con il torpore tipico del
sonno in
testa. Mi volto a guardare le mie amiche e le vedo molto prese a
osservare
qualcosa fuori dal finestrino. Da dove sono io, il sedile vicino al
corridoio –
condizione tassativamente imposta da me stessa in quanto 1) in caso di
nausea
posso correre in bagno, 2) meno vedo fuori dal finestrino meglio
è, 3) alla mia
sinistra non c’è nessuno, il che significa che
rimane più ossigeno per la
sottoscritta, 4) voglio essere la prima ad essere avvertita della
propria imminente
morte, in caso sia necessario – non riesco a vedere bene che
cosa stiano
indicando, ma non me ne curo (vedi punto 2 della soprastante lista) e
invece
chiudo gli occhi, sperando di sentire di meno tutti gli strani
movimenti che
l’aeroplano compie in fase di atterraggio, auto convincendomi
che se non vedo
allora andrà tutto bene.
E
va tutto bene, effettivamente. Il problema è che qui, a New
York, ci stiamo tre
ore. Ci concediamo un caffè, una capatina al bagno a
rinfrescarci la faccia che
ha l’aspetto di un’esperienza post morte (la mia,
almeno, Frances è perfetta
come sempre) e poi un altro caffè, stavolta con la panna
sopra, giusto perché
tanto grazie all’ansia sono dimagrita di qualche chilo. E poi
facciamo un altro
check-in e ci imbarchiamo. Di nuovo.
Un’ora
dopo mi ritrovo inevitabilmente a lamentarmi. È nella mia
natura, non posso
farci nulla. «Tutti questi aerei mi faranno venire i capelli
bianchi», sbuffo.
«Mi
spiace deluderti ma sono ancora deliziosamente fucsia»,
ribatte Frances.
«Non
serve rimarcare il fatto che l’unica bionda, e quindi con
qualche misera
possibilità di far colpo su Jared, fra le tre, sei
tu»
Sorride.
«C’est la vie»
«Voi
e il vostro francese del cavolo»
«Dovevi
metterci più panna in quel caffè. Sai, magari ti
addolciva», interviene Rain.
Bene,
sono pure acida adesso. Sbuffo di nuovo, abbassandomi ad allacciare una
scarpa.
Casualmente, e i peli mi si rizzano sulle braccia, noto il tempo
davvero poco
carino fuori dal finestrino. «Di nuovo una tempesta? Io non
ce la faccio!». Voglio
morire prima che un lampo entri dentro questa macchina infernale e mi
faccia
diventare un mucchietto di cenere, è tanto da chiedere?
Rain
alza gli occhi al cielo. «Non morirai»
«Tutti
muoiono»
«Non
morirai adesso»
Borbotto
un «questo lo dici tu» che credo non senta, dato
che non pervengo nessuna
risposta scocciata. Con lo stomaco chiuso, comincio a grattarmi via lo
smalto
dalle unghie, tanto per passare il tempo. Infine sto andando a Los
Angeles, non
a farmi decapitare da un boia, un po’ di entusiasmo potrei
ostentarlo, ogni
tanto, no? Prendo un grosso respiro e decido che sì, la mia
faccia potrebbe
rilassarsi un pochino e che le probabilità che io muoia, in
fine, non sono poi
alte. Posso davvero calmare i nervi.
Posso
eccome, ma l’aereo comincia a traballare, e lo stomaco mi
finisce in gola.
Vorrei urlare ma non ci riesco. «Che cazzo
succede?», annaspo, chiedendolo a
nessuno in particolare.
La
voce di un’hostess esce dagli altoparlanti «Si
avvisano i gentili passeggeri di
mantenere la calma. Le turbolenze termineranno appena avremmo
sorpassato la
tempesta»
La
voce di Hagrid che afferma “Arriva
una
tempesta Harry, proprio come l’ultima volta”
mi rimbomba in testa. Moriremo
tutti, e non per mano di Voldemort. Oh, quella sì, che
sarebbe stata una morte
degna. Moriremo tutti perché questo aereo perderà
un ala, prenderà fuoco, e si
schianterà al suolo. «Non ce la faccio»
Frances,
al mio fianco, mi appoggia una mano sulla gamba. «Calmati.
Sorpasseremo il
temporale in fretta, vedrai»
Faccio
dei grossi respiri, ma l’aria non vuole saperne di arrivare
al polmoni. Ripeto
l’operazione un paio di volte, prima di riuscire a sentire
l’ossigeno arrivare
al cervello di nuovo. E in quel momento, l’aereo si muove
violentemente di
nuovo. D’istinto, mi aggrappo a Frances. «Oh
Dio»
«Calma»
«Vaffanculo.
Come faccio a stare calma? Questo coso si muove!»
«Shh,
abbassa la voce, stai urlando», mi intima Rain. Lei mi guarda
e mi sorride. «Tesoro,
calmati, ti prego. Va tutto bene»
Vorrei
dire che me la sto facendo sotto dalla paura, non che non si capisca,
ma il
briciolo di dignità che mi rimane, mi sprona ad annuire.
«Okay», è l’unica
parola che riesco a sillabare.
Ritorno
alla mia posizione originale, sebbene io sembri di più uno
stoccafisso che un
essere umano, e cerco di stabilizzare il mio respiro, focalizzando
tutta
l’attenzione sul battito del mio cuore e
sull’alzarsi e l’abbassarsi del mio
petto. Ce la puoi fare, mi ripeto. Va tutto bene, benissimo.
«Vedi?
Le turbolenze sono finite», dice Frances con sorriso tenero
in volto. Mi limito
ad annuire.
Le turbolenze sono
finite, ultime
parole famose. Non so di preciso che cosa succeda, dato che accade
tutto troppo
velocemente, ma qualcosa, qualcuno,
a
causa dell’ennesimo assestamento del veicolo, ci piomba
addosso. Finisce dritto
disteso sulle nostre gambe e ci paralizza. L’uomo
– deduco sia di sesso maschile per
l’altezza e per il modello di scarpe – rimane per
qualche secondo in quella
posizione imbarazzante, poi, agilmente si alza, borbotta qualche scusa,
e se ne
va.
Mi
volto verso Frances e Rain con espressione
confusa. «Che cos’è appena
successo?»
«Un
tipo ci è caduto addosso», risponde Frances,
corrucciata.
«Sbaglio
o aveva una felpa, una giaccia e un’altra giacca legata alla
vita?», dico.
«Sbaglio
o era super muscoloso?», rincara Rain.
«Sbaglio
o non l’ho visto in faccia perché aveva il
cappuccio e degli occhiali da sole?»,
aggiunge Frances.
Tre
giacche, quando la temperatura è decisamente gradevole.
Occhiali da sole quando
di sole non c’è neanche l’ombra.
Cappuccio, quando non piove (per lo meno non dentro
all’aereo). Muscoli. Il mio cervellino da criceto sta
lavorando, e anche molto
in fretta. «Voi non pensate sia…?»
Ci
scambiamo uno sguardo d’intesa che dura un tempo infinito.
«Nah, quello non può
essere Jared», sentenzio alla fine, scuotendo la testa.
«No,
non può essere», concorda Frances.
«Questa cosa ci sta decisamente dando alla
testa»
«Pazze per Jared
Leto, chiamerò così la
mia prima serie tv», affermo. L’ansia comincia a
passarmi, anche grazie
all’annuncio promulgato dagli altoparlanti il quale dice che
la tempesta sembra
essere passata.
Controllo
l’ora sul telefono, calcolando circa mezz’ora
all’atterraggio e mi collego
prima a Twitter, ma non noto nessuna informazione interessante. Dunque
passo a
Tumblr, patria di noi lupi solitari e asociali. Delle foto mi saltano
subito
all’occhio. Delle foto di Terry Richardson. Delle foto di
Jared Leto scattate
da Terry.
«Si
avvisano i gentili passeggeri di allacciare le cinture di sicurezza per
l’atterraggio e di spegnere ogni apparecchio che potrebbe
disturbare le linee».
Allaccio
quell'imbracatura e butto il telefono nel bagagli a mano, con
un gesto meccanico, poi
mi volto verso le mie amiche. «Terry
ha
recentemente scattato delle foto di Jared».
Mi
guardano perplesse. «Quindi?», chiede Frances.
«Quindi
lo studio di Terry è a New York»
«…quindi?»,
ribadisce Rain.
«Quindi Jared era a
New York. Recentemente.
Quindi quell’uomo che prima ci è caduto addosso
potrebbe…»
«Oh
mio Dio», dice Rain.
«Ohh»,
dice Frances.
L’atterraggio
inizia e io rimango incollata al sedile. La saliva, inoltre, mi si
è seccata in
bocca e non riesco a deglutire bene. Barcollando scendo
dall’aereo, guardandomi
invano intorno cercando il ragazzo con la felpa nera e gli occhiali da
sole e
le due giacche, il presunto Jared Leto, ma di lui nessuna traccia. Noto
come
Rain e Frances stiano facendo la stessa cosa; noto dalle loro facce
deluse che
nemmeno loro l’abbiano individuato.
Aspettiamo
davanti al nastro trasportatore le nostre valige, che tardano ad
arrivare. Per
un momento dimentico Jared, le foto di Terry e tutto il resto
perché Frances
sta avendo un vero e proprio attacco isterico. A quanto pare la sua
valigia, a
contrario di quella mia e di Rain, non è arrivata a
destinazione.
«Io
li denuncio. Dove cazzo è la mia valigia? Cosa devo fare,
adesso?», dice, le
mani fra i capelli.
«Andiamo
a chiedere a qualcuno, okay?». Ora che i miei piedi sono ben
piantati a terra,
personifico la calma. Ci incamminiamo verso quello che ci sembra il
posto più
indicato, ascoltando i borbottii irritati e arrabbiati di Frances.
Chiede
all’uomo burbero dietro il bancone che cosa deve fare per
ritrovare la sua
valigia, e lui, di rimando, le dice di aspettare.
Sto
per alzare gli occhi al cielo indispettita in quanto dovremmo
sicuramente
aspettare un’eternità, quando vedo di nuovo quel
cappuccio, quelle scarpe, quei
pantaloni.
«Ragazze»
«Cosa?»,
chiedono in coro.
«Eccolo»,
esclamo. «Eccolo, è lui»
Ricominciamo
a camminare, dimenticando la questione valigia, e seguendolo a distanza
per poi
fermarci all’improvviso quando lui si
alza una manica della felpa. Un tatuaggio che conosco molto bene mi si
para
davanti agli occhi. Il respiro mi si mozza in gola. «Porca
puttana»
«Oh
cazzo», esclama Rain.
«Merda»,
dice invece Frances.
Le
guardo. «Quello è Jared. Jared Leto è
caduto sulle nostre gambe. Jared
Sesso Leto è davanti a noi. Che cosa facciamo?»
«Porca
miseria», dice di nuovo Rain.
«Ragazze,
concentrazione. Che-cosa-cazzo-facciamo?»
«Corriamo»,
«Corriamo?», «Corriamo»
Quando
però, a voto unanime, decidiamo che l’unica cosa
da fare è correre e
raggiungerlo, lui è già sparito dalla nostra
visuale. «Era così
vicino», piagnucolo sedendomi su una sedia.
«Lo
sarà di nuovo», dice determinata Frances.
«Promesso?»,
chiediamo contemporaneamente io e Rain.
«Promesso.
Ritroveremo Jared Sesso Leto, prima o poi. Ci riusciremo»