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Autore: alaisse_amehana    16/09/2013    2 recensioni
C’è qualcosa di strano in me.
L’ho sempre saputo. Non è una cosa di cui si possa parlare. Non che debba vergognarmene, almeno non credo. E’ solo che non posso spiegarlo. Non più di quanto posso spiegare cosa c’è nella mia testa. Per quanto mi sforzi, le parole sono insufficienti.
L’ho sempre saputo.
Quando la gente parla non capisce mai davvero cosa vuole dire l’altro.
Con le parole si possono creare così tante realtà alternative, ma queste realtà non potranno mai superare quelle presenti dentro ciascuno di noi. Io lo capisco bene.
Mi chiedo se sono l’unica.
Genere: Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Questa volta sono sparita per mesi, lo so. Vi chiedo scusa!
Per farmi perdonare, ho lasciato il capitolo più lungo del solito, invece di spezzarlo. Spero che compensi l'attesa. 
Buona lettura a tutti e, se avete voglia, fatemi sapere cosa ne pensate^^


Ci sono giorni belli e giorni brutti. Non tutti sono uguali nella loro bruttezza e non tutti hanno lo stesso livello di bellezza. Ma quando una giornata inizia male, non c’è verso che le cose possano migliorare. Certe volte, semplicemente, non bisognerebbe alzarsi dal letto, non importa cosa può succedere.
Ovviamente questa mattina non ho avuto scelta e sono dovuta uscire lo stesso.
Mentre entro nell’atrio della scuola mi chiedo perché non sono tornata a casa, una volta che i miei erano usciti. Ripenso a mia sorella che entra in camera come un tornado, chiedendomi dove ho nascosto la sua camicetta gialla. Come se io potessi indossare una cosa del genere. Al massimo avrei potuto bruciarla. Non che l’idea non mi sia mai passata per la testa.
In ogni caso, io la sua camicetta non l’ho proprio vista, ma non ho potuto far valere la mia innocenza. Mia sorella ha rimesso a soqquadro la mia camera per trovarla. Ieri sera potevo risparmiarmi la fatica di rimettere tutto a posto.
«Alice!».
Vedo arrivare Eleonora mentre sto per salire in ascensore. Mi sposto per farle spazio.
«Ciao, come stai?» le chiedo. «Ieri non sei venuta a scuola».
«Non sono stata molto bene» dice con un sorriso tutto fossette.
Sulla sua testa svolazza un nugolo di farfalle multicolore. Cerco di non guardarla troppo a bocca aperta.
«Scusa se non ho risposto al tuo messaggio. Sono senza soldi sul cellulare».
«Non c’è bisogno che ti scusi. Non importa» rispondo.
Nel frattempo l’ascensore è arrivato al nostro piano e usciamo.
«Abbiamo un nuovo compagno» dico, non sapendo come altro portare avanti la conversazione.
«Davvero?». Eleonora spalanca gli occhi e mi afferra un braccio. «Ti prego, dimmi che almeno è carino… e che non è gay!».
«Uhm, ecco, sì. No».
Lei mi guarda piena di aspettative.
«Sì, penso sia carino. No, non penso che sia gay».
Le farfalle intorno alla sua testa cominciano a girarle intorno vorticosamente. Mi viene la nausea a guardarle così da vicino.
«Ieri si è seduto al tuo posto».
Entriamo in classe e troviamo solo Stefano già seduto.
Ci salutiamo con un cenno della testa. Sta leggendo il giornale, come tutte la mattine. Non ce n’è uno normale nella nostra classe.
«Quindi oggi si siederà di fianco a me?» chiede facendomi l’occhiolino.
Poi si blocca mentre mi siedo al mio solito posto vicino al muro.
«Non è che tu…» dice abbassando la voce perché Stefano non senta.
«Cosa?» chiedo togliendomi la giacca e buttandola sullo schienale della sedia.
«Non è che ti interessa?» chiede col tono di una spia russa durante la guerra fredda.
Scoppio a ridere. Non riesco a trattenermi, è più forte di me. Con tutto quello che è successo negli ultimi giorni, il mio ultimo pensiero è stato fare gli occhi dolci a Gost. O a chiunque altro.
Stefano mi lancia un’occhiataccia, prima di profondare di nuovo nella lettura del suo giornale.
«Non ti preoccupare, hai il via libera. Ma dovrai lottare con le unghie… e altre lo hanno già puntato» la metto in guardia.
Eleonora ammicca, per nulla preoccupata.
«Oh, tirerò fuori gli artigli!».
È l’ultima persona al mondo che potrebbe farlo. Penso sia la ragazza più dolce e sensibile che abbia mai incontrato. La sola idea che possa lottare con le unghie e coi denti basta a farmi scoppiare di nuovo a ridere.
In quel momento entra Gost.
Punta dritto verso di me, ma si ferma quando si accorge che Eleonora è seduta al suo posto.
«Ciao!» lo saluta lei con uno dei suoi sorrisi disarmanti.
Gost si blocca a metà di un passo. Mi sembra di potergli vedere le rotelle del cervello che si bloccano cercando di registrare la sua presenza. Spalanca la bocca, poi la richiude, riprendendosi. Per un attimo ho temuto che sarebbe rovinato a terra. Invece riesce a concludere il passo, appoggiandosi al banco.
«Ciao» risponde.
Restano tutti e due in silenzio per alcuni secondi. Gost guarda alternativamente Eleonora, poi me, poi di nuovo lei.
Decido di fare le presentazioni, prima che si trasformino in due statue di sale e ci tocchi farle portare via dai bidelli.
«Eleonora, lui è il nostro nuovo compagno, si fa chiamare Gost» dico.
Nuovo sorriso condito da fossette da un lato, bocca aperta dall’altro.
«Piacere, siediti pure qui» dice Eleonora indicando il posto accanto a lei.
Gost si siede meccanicamente, lanciandomi una breve occhiata.
«Sei un’amica di Alice?».
Finalmente ha parlato! Mi disinteresso educatamente, immergendomi nei miei pensieri. Lascio che portino avanti la conversazione da soli.
Nel frattempo arriva il resto della classe, a gruppetti di due o tre. L’unica che sembra essersi data alla macchia è la prof di scienze. Non che qualcuno la rimpianga.
Arriva con dieci minuti di ritardo nel suo abito svolazzante, la voce sottile e gli occhi cisposi. Uno spettacolo idilliaco.
Disattivo il cervello dopo cinque minuti di spiegazione. Gost, prende furiosamente appunti, anche se immagino che questi argomenti li saprebbe recitare a testa in giù.
Intorno alla testa dell’insegnante vorticano foglie autunnali trasportate dal vento e un paio di sfere non bene identificate che sembrano asteroidi in miniatura. Nulla di più strambo del solito. Una volta l’ho vista con l’intero sistema solare intorno alla testa. Certe volte mi dispiace davvero di essere l’unica a poter vedere certe cose.
Suona l’intervallo e mi rendo conto di aver passato due ore a fissare il vuoto senza fare niente. Eleonora esce per andare a prendere la merenda, ma i miei muscoli mi diffidano dal seguirla. Penso che le mie gambe non mi rivolgeranno mai più la parola. La fiducia che c’era tra di noi è andata perduta ieri, quando le ho torturate per due lunghissime ore. Anche io non mi rivolgerei più la parole, fossi al posto loro.
«Come va?».
Sussulto, accorgendomi che Gost sta parlando con me.
Elisa e Carlotta stanno cercando di uccidermi con lo sguardo. Come se avessi bisogno anche di loro.
Cerco di concentrarmi su Gost.
«Potrebbe andare meglio. I miei muscoli sono entrati in sciopero».
«Non ti devi scoraggiare, vedrai che andrà meglio» cerca di consolarmi, con scarsi risultati.
«Oggi posso darmi malata?» chiedo speranzosa.
Gost scuote la testa.
«Non ci pensare nemmeno. E poi dobbiamo studiare letteratura inglese, la prossima settimana c’è la verifica» dice entusiasta.
«Evviva».
Lui non coglie l’ironia nel mio tono.
Eleonora ritorna, la campanella suona, io riprendo a fissare il vuoto. Il mondo è tornato a girare nel verso giusto.
Quando finiscono le lezioni e tutti escono dall’aula, all’improvviso recupero la lucidità. Ci sono solo più Eleonora e Gost. Lui continua a lanciarmi delle occhiate per dirmi di muovermi. Afferro la giacca con calma e faccio molta attenzione a infilarla, stirando le pieghe con le dita e sistemandomi i capelli. Sembra così sulle spine che mi fa quasi tenerezza.
«Così sei stato per un certo tempo in Svizzera?» sta chiedendo Eleonora.
Gost risponde qualcosa. Sono troppo concentrata a infilare i libri nello zaino più lentamente possibile per sentire la risposta. La faccia irrequieta di Gost è una ricompensa sufficiente a tutti i miei sforzi.
Mi metto lo zaino in spalla e mi sembra di sentire il sospiro di sollievo di Gost. Ma quando mi giro sembra concentrato nella conversazione con Ele, forse un po’ impacciato. Solo dopo qualche secondo noto la preoccupazione nel suo sguardo, e non è dovuta a lei. Mi fa un cenno deciso verso l’uscita e io annuisco, il cuore in gola.
Scendiamo le scale in fretta, ormai la folla si è diradata. Gost continua a guardarsi intorno. Noto che in mano tiene l’aperio e ogni tanto gli dà un’occhiata. Eleonora chiacchiera tranquillamente, non si è accorta di nulla. Vorrei dirle di andare avanti, salutarla e dirle che siamo in ritardo, ma non posso. Cerco negli studenti che incontriamo qualche traccia di Occulti, ma non vedo bolle marroni. Solo le solite caotiche immagini di sempre, prive di senso e relativamente innocue.
Usciamo in strada e vedendo che ci sono Diego e Blu mi sento sollevata. Gost fa due segnali. Solleva l’aperio e se lo picchietta sulla tempia, poi si posa l’indice e il medio sulle labbra. È così veloce che a stento seguo i suoi movimenti, ma gli altri due scattano come se avesse urlato a squarciagola “Allarme bomba!”.
Pessimo segnale. Davvero pessimo.
«C’è tua madre!» urlo a Eleonora, forse con un po’ troppa foga.
Sono così nervosa che a stento evito di mettermi a saltellare sul posto.
Lei mi guarda per un attimo corrucciata. L’ho interrotta a metà di una frase senza spiegazione. Per fortuna non è il tipo da portare rancore.
«Ci vediamo domani?» chiedo, facendo finta di non averle appena detto, in modo velato, di togliersi dai piedi.
La sua espressione sfiora l’irritazione, l’emozione più vicina alla rabbia che sia in grado di mostrare, poi si scioglie in uno dei suoi sorrisi. Al posto delle farfalle adesso ha una lumachina rosa sulla testa.
«A domani» ci saluta, correndo da sua madre.
Non ha fatto neanche due metri che Diego e Blu mi affiancano, uno per lato, e mi afferrano per le braccia, cominciando a trascinarmi lontano di lì. Gost è subito dietro di me, che continua a fissare il suo dannato aperio.
«Ehm, sapete… so camminare da sola. Giuro che è vero! Forse vi ho dato l’impressione sbagliata, ma è proprio così» dico cercando di divincolarmi.
Blu mi fa l’occhiolino, ma continua a trascinarmi ad una velocità folle. Se qualcuno ci stesse osservando potrebbe concludere che stanno tentando di rapirmi, il che non si discosta molto dal vero.
Diego non si volta verso di me ma sento una tensione diversa provenire da lui, è come se fosse arrabbiato per qualcosa. Ha un’aria così determinata che non vorrei per nulla al mondo essere quella contro cui è diretta tutta la sua aggressività. E spero di essere molto lontana quando si scatenerà.
Siamo quasi arrivati al camper, due isolati fatti senza quasi toccare terra con i piedi, quando Gost decide di interrompere quella sceneggiata.
«Ho perso il segnale. Non vedo più niente» dice.
Gli altri due si rilassano leggermente, ma non mi lasciano comunque andare finché non mi depositano davanti all’armadio del camper. Mi hanno issato a bordo come fossi una valigia molto pesante. Vorrei avere la forza per offendermi almeno un po’, ma la verità che mi tremano ancora le gambe per la paura.
«C’era un Occulto?» chiedo col fiato corto, nonostante non abbia quasi camminato.
Gost armeggia per un po’ con l’aperio prima di rispondermi.
«Ho captato qualcosa, ma poi ho perso il segnale. Nulla di molto forte in ogni caso. Se era un Occulto era molto debole, oppure molto lontano».
«Meglio riferire a Gabri» dice Blu passando dall’altra parte dell’armadio.
Diego annuisce e lo segue.
Non mi resta che imitarli, seguita da Gost.
«Questa volta possiamo mangiare prima della sessione di tortura? Anzi, meglio, possiamo mangiare e basta?».
Blu si volta verso di me mentre apre la porta della cucina. «Te ne do atto: ci hai provato».
«Ma almeno una cosa te la concediamo» aggiunge. «Prima si mangia».
Temo che sarà l’unica cosa positiva del pomeriggio.
Questa volta il tavolo è apparecchiato solo per quattro.
«Ci siamo solo noi?».
Blu si mette comodo, lasciando agli altri il compito di mettere il cibo in tavola. Mi tolgo la giacca e poso lo zaino in un angolo.
«Morgana aiuta Marianna per una missione di ricognizione. Sono dovute tornare alla base per un po’. Gabri continua a lavorare in laboratorio per trovare un sistema che blocchi gli schermi ultrapiatti» elenca Gost, prendendo il termine che uso io per definire le immagini attorno alle persone.
«Mi spiace che debba lavorare così tanto… non è necessario che lo faccia».
Mi sento in colpa per averlo costretto a saltare tanti pasti e rinchiudersi in laboratorio.
«Lascia stare» dice Gost mettendo in tavola insalata mista e polpette al sugo. «Oggi ha cucinato Diego» aggiunge come fosse una notizia di una certa importanza.
Il profumo in effetti è ottimo.
«Tra noi è il cuoco migliore» spiega.
Gost cerca di prendere l’insalata con dei grossi cucchiai di plastica rossa per metterla nel piatto, ma rischia di farla cadere tutta sulla tovaglia. Decido di prendere in mano la situazione e servo gli altri tre prima di servirmi una generosa porzione.
«Questo è uno dei motivi per cui devono esserci donne nel nostro gruppo» esclama Blu, abbuffandosi come se temesse di non poter più toccar cibo per settimane.
«Perché non sei in grado di metterti l’insalata nel piatto?» chiedo sarcastica.
«Certo che sì. Ma voi donne lo fate con più stile».
Come posso ribattere a un’osservazione del genere?
Assaggio le polpette. Sono ottime.
«Complimenti al cuoco» dico divorandone una in un sol boccone.
Gost annuisce mentre Blu continua a ingozzarsi. Diego fa spallucce, ma si vede che la lode gli ha fatto piacere.
Finiamo di mangiare in fretta, con Gost e Blu che discutono del segnale che hanno captato prima.
«Non ho idea di che livello fosse, la traccia era troppo debole» dice Gost, pulendo la pentola con del pane. Blu cerca di fare lo stesso, ma più in fretta per non lasciarne all’altro.
«Dovevi risalire alla fonte» gli dice raccogliendo una generosa porzione di sugo e mettendosela in bocca con gusto.
Io e Diego li guardiamo mentre lustrano i piatti e la pentola.
«Perfetto, direi che non c’è bisogno di lavarli» dico.
Gost si pulisce il mento con il tovagliolo. Ha del sugo che gli arriva fin sul naso. E dovrebbe essere un terribile assassino di demoni? Topo Gigio mette più paura di lui.
Gli altri tre mi guardano, pieni di aspettativa.
«Fatemi indovinare… devo lavare i piatti?» chiedo, conoscendo già la risposta.
«Saresti così gentile?» chiede Blu con un sorrisone. Mi fa venire voglia di rispondergli di lavarseli da solo. Ma è giusto che anche io faccia qualcosa.
«Bene, allora io vado in camera. Se avete bisogno di me, urlate».
Mi alzo per mettere a posto, ma Gost mi precede.
«Ci penso io a mettere a posto, tu puoi lavare i piatti. Per quello sono negato».
«Mi sembra un patto equo».
Mi metto i guanti di gomma che avevo visto usare a Morgana e cerco il detersivo. Non faccio in tempo a guardare sotto il lavandino che Diego è al mio fianco con il flacone in mano.
«Grazie» dico prendendolo e versandone un po’ sulla spugna.
«A casa abbiamo la lavastoviglie, nemmeno io sono molto brava a lavare i piatti» ammetto mentre Gost si muove attorno a noi per rimettere tutto in ordine.
Guardo la pila di piatti e pentole alla mia sinistra aspettando che spariscano da sole. Se mi concentrassi abbastanza potrebbe funzionare?
«Ti aiuto ad asciugare» si offre Diego. È già pronto con uno strofinaccio in mano e aspetta tranquillo che gli passi i primi piatti.
Siamo così vicini che la sua felpa mi sfiora il braccio. Ho la gola secca e cerco di schiarirmela senza che se ne accorga.
Prima di iniziare mi rimbocco le maniche del golfino blu, anche questo un tempo era di mia sorella. Se lo rovinassi potrebbe farsi venire un colpo.
«Era di puro cachemere!» mi sembra di poter sentire la sua voce.
Lavo i bicchieri uno alla volta passandoli a Diego che li asciuga e li rimette a posto nella credenza di fianco a lui. I suoi movimenti sono fluidi e perfettamente naturali. Io devo usare ogni briciolo di concentrazione per non tagliarmi le dita coi coltelli o farmi cadere una pentola sul piede. Mi trovo a guardarlo con invidia.
«Tutto bene?» chiede Diego, così all’improvviso che sussulto e il piatto che stavo lavando scivola di nuovo sul fondo del lavandino pieno di acqua.
«Certo, perché?» chiedo nervosa.
Cerco di lanciarli un’occhiata indagatrice. Lui sembra calmo, nessun atteggiamento strano.
«È solo che di solito parli di più. Con gli altri» dice.
Non so come ribattere.
«Più che parlare, dico un sacco di stupidaggini» rispondo cautamente.
Con la coda dell’occhio vedo che sorride. Mi giro e il suo volto mi fa saltare un battito di cuore. Torno a concentrarmi sulle posate.
Pessima idea guardarlo. Ho perso il filo del discorso.
«È divertente per quello».
Ci metto un po’ a capire la risposta, poi arrossisco ammutolendomi.
Mi mancano solo un paio di pentole, poi potrò andare a seppellirmi da qualche parte. Questo posto è enorme, sono sicura che troverò un angolo abbastanza appartato per passarci il resto del pomeriggio.
«Non volevo offenderti» dice Diego. La sua voce rattristata ha il potere di riscuotermi dai miei pensieri.
«No» dico voltandomi di nuovo, però faccio attenzione a non guardarlo direttamente. «Non sono offesa, davvero» dico cercando di essere più convincente possibile.
L’espressione di Diego non è molto convinta, ma non ribatte.
Sospiro, passandogli l’ultima padella e togliendomi i guanti mentre lui l’asciuga.
«È solo che non mi sento del tutto a mio agio, e quando sono imbarazzata il mio cervello perde totalmente il controllo della bocca. Perciò, ecco, non farci troppo caso quando succede».
Non penso di essermi spiegata, ma lui annuisce e sembra più rilassato.
«Adesso cosa facciamo?» chiedo.
«Puoi iniziare a fare i compiti con Gost, di sicuro lui non vede l’ora».
Cerco di capire se sta scherzando, ma mantiene la solita neutralità. Sospiro andando a prendere lo zaino. Stamattina mi sono pure ricordata di portarmi la tuta e un cambio di biancheria.
«Quindi oggi pomeriggio lo passo sui libri?» chiedo mettendomi lo zaino in spalla. Rischio di cadere all’indietro per il peso, ma mi riprendo all’ultimo.
«No, ovviamente. Dopo ti alleni con me».
Ok, sta scherzando. Questa volta non può dire sul serio.
«Ma ho fatto un solo allenamento con Morgana. Non sono pronta!» dico, gli occhi spalancati dalla paura. Le spalle larghe e l’altezza di Diego mi sembrano improvvisamente molto minacciose. Mi farà a pezzi!
«Non devi essere particolarmente allenata per imparare le mosse base» ribatte Diego. Incrocia le braccia sul petto e si appoggia al lavandino, fissandomi.
«Non dirmi che hai paura».
Guardo i muscoli delle sue braccia che si flettono e li immagino mentre mi stritolano in una morsa letale.
«No, direi piuttosto che nutro una prudente preoccupazione».
«Sei spaventata a morte» sorride Diego.
«Sono cauta!».
«Terrorizzata, quindi».
Apro la bocca per ribattere, ma la richiudo a corto di parole. Il sorriso di trionfo sul viso di Diego minaccia di farmi perdere di nuovo l’equilibrio.
«Vado a studiare con Gost» dico puntando al salotto. «Ci metterò un sacco di tempo a fare tutti i compiti. Non so se avremo tempo per l’allenamento».
«Tra due ore vengo a prenderti». Il suo tono non ammette repliche.
Mi siedo al tavolo del salotto, pensando febbrilmente a cosa posso fare in queste due ore per farmi rispedire a casa. Se fingessi uno svenimento? Troppo banale, non ci cascherebbero.
Gost è già pronto alla partenza, con il libro di letteratura inglese e fogli bianchi su cui scrivere.
«Cominciamo?».
Annuisco e prendo il mio libro, mentre il mio cervello continua a lavorare febbrilmente.
Potrei fingere di inciampare e di slogarmi una caviglia. Dopo un secondo scarto l’idea. Con la mia goffaggine finirei per rompermela davvero.
Continuo con i miei piani per altri dieci minuti, finché Gost non si accorge che non lo sto seguendo e richiama la mia attenzione. Mi costringe a rileggere ogni dannatissima pagina due volte e me le fa pure ripetere!
«Visto che non era così difficile?» chiede alla fine, dopo quaranta pagine di autori inglesi. Sento il cervello in fiamme, ma stranamente ho capito tutto. Ricordo persino tutti i nomi.
Mi rendo conto che sono già passate due ore quando arriva Diego.
«Tocca a te?» chiede Gost. Lui annuisce mentre io sono tentata di scivolare sotto al tavolo e aggrapparmi a una gamba per non essere portata via. Lo sguardo di Diego minaccia di trascinarmi a forza in palestra se opporrò resistenza.
Guardo speranzosa Gost, in cerca di sostegno. Ma ovviamente la mia fiducia è mal riposta.
«Buon allenamento».
«A-aspetta… credo che dovremmo rivedere l’ultima parte. Non sono sicura di…».
«Bel tentativo» dice Diego posandomi la mano sulla spalla. Non stringe, ma ho come l’impressione di essere stata afferrata da un rapace che vuole divorarmi.
«Ma non sarebbe meglio che una lezione del genere la facessi con Gabriele?».
«Credi che io non sia capace di insegnarti?» chiede Diego, il suo tono è diventato pericolosamente irritato.
«No, non è questo. È solo che, magari, mmmh…» non so più cosa dire, ma l’idea di dover affrontare Diego su un tappetino da arti marziali mi rende un tantino agitata.
«Dovrai cominciare prima o poi» dice Gost. «E poi non ti preoccupare. Diego studia arti marziali da quando era bambino. È il più adatto a insegnarti».
Il fatto che siano anni che sa come picchiare la gente non mi tranquillizza affatto.
«Ok, dove mi cambio?» dico con la voce di un condannato al patibolo.
Diego fa un cenno con la testa.
«Puoi usare di nuovo la stanza di Morgana. Io ti aspetto in palestra. Non metterci troppo o vengo a prenderti e ti ci porto come sei».
«Di solito non fa certe minacce» dice Gost mentre Diego esce dal salotto.
«A dire la verità di solito non parla e basta».
«E secondo te è un buon segno?» chiedo.
«Lo scoprirai presto».
Mi avvio con andatura mogia nella stanza di Morgana, dove metto i pantaloni neri della tuta che ho recuperato a casa – miracolosamente mi stanno bene – e una maglietta lilla un po’ stretta. Provo a fare qualche movimento con le braccia per controllare che non mi ostacoli troppo. Per ultimi lego i capelli in una coda e infilo le scarpe da ginnastica. Controllo due volte come sono vestita e apro l’armadio di Morgana in cerca di uno specchio. Ne trovo uno abbastanza grande su un’anta e mi guardo con occhio critico. Meglio dell’ultima volta che ho fatto ginnastica, ma continuo a sentirmi informe e sciatta. Mi scopro a pensare che avrei dovuto mettermi qualcosa di più carino per allenarmi con Diego.
Un momento! Qualcosa di carino, io? Perché?
Che senso ha vestirsi bene per sudare?
Ora che ci penso, nella nostra classe metà delle ragazze fa  ginnastica con magliette aderenti e pantaloni di marca. Ma ho sempre pensato che lo facessero per mettersi in mostra coi ragazzi delle altre classi.
Mi giro per controllare come mi stanno i pantaloni. Come mi aspettavo il mio didietro non ha nessuna forma. Provo a tirarli un po’ su, senza risultato.
Quando mi rendo conto di cosa sto facendo chiudo di colpo l’armadio dandomi della stupida.
Si può sapere che mi prende? Da quando mi preoccupo di come sto in tuta da ginnastica?
Faccio un respiro profondo e sbircio in corridoio.
Via libera.
Esco dalla camera di Morgana e mi muovo velocemente per raggiungere la palestra. Non sento passi o altri rumori. Prendo di nuovo un respiro profondo ed entro in palestra.
Diego mi aspetta vicino al tapis roulant. Si è cambiato e indossa anche lui una tuta nera e una maglietta grigia. La perfetta incarnazione dell’istruttore sportivo.
«Stavo per venirti a prendere» sorride Diego.
Mi avvicino guardinga, come aspettandomi un agguato.
Diego indica la macchina dietro di lui.
«Prima devi fare riscaldamento».
Se possibile, il mio entusiasmo diminuisce ancora. La mia voglia di fare sport è scesa a temperature polari.
Salgo sul tapis roulant aggrappandomi ai sostegni laterali. La bassa risata di Diego mi fa sollevare gli occhi. La sua espressione è così diversa dalla solita neutralità che resto per un attimo interdetta.
«Perché ridi?».
«Sembra che tu voglia dargli fuoco».
Magari…
«Se solo ne fossi capace».
La risata di Diego si fa di nuovo sentire mentre comincia a schiacciare i pulsanti per farmi partire.
«Venti minuti di riscaldamento. Poi addominali e braccia» mi annuncia.
«Credevo dovessi insegnarmi delle mosse di arti marziali, o autodifesa, qualsiasi cosa che includa pestare a sangue qualcuno».
«Ma prima devi fare riscaldamento».
Mi sento truffata. Alla fine si tratta comunque di fare un sacco di esercizi.
Il tapis roulant parte con uno scossone e mi trovo quasi a correre.
«Non potresti farlo rallentare?» chiedo tenendomi saldamente ai sostegni.
«Ce la puoi fare» ribatte Diego salendo sulla macchina a fianco e facendo partire anche quella.
«Non è meglio se resti qui vicino? Sai, nel caso perdessi la presa e finissi a terra».
«Alice, risparmia il fiato e corri. Non morirai».
Questo è ancora tutto da vedere.
«Ti resterò sulla coscienza, preparati» borbotto con l’ultimo soffio d’aria nei polmoni, poi decido che è meglio seguire il suo consiglio e risparmiare fiato.
Diego comincia a correre al doppio della mia velocità senza apparente sforzo fisico.
«Sbruffone» gli sibilo.
Non sono sicura che mi abbia sentito, ma sul suo viso compare un rapido sorriso.
Dopo cinque minuti e quindici secondi non sento più le gambe e respirare è diventato molto doloroso. Ansimo e sbuffo come una vecchia locomotiva a vapore.
A dieci minuti ho compilato mentalmente il mio testamento, con le lettere di accompagnamento per tutti i famigliari. Molto belle e piene di sentimento, peccato che non farò in tempo a scriverle. Mi chiedo come si regoleranno i miei per la paghetta. Una volta morta daranno la mia parte a mia sorella? Se così, non posso mollare. È una questione di principio.
Mi viene in mente che mia sorella frequenta la palestra da quasi tre anni. Venti minuti di corsa non la spettinano nemmeno. Io invece sento ciocche umide di capelli attorcigliarsi intorno al collo dopo essere fuggite dall’elastico. Non oso staccare le mani dai sostegni per rifarmi la coda. Potrebbe essere l’ultima cosa che faccio.
Immersa in queste riflessioni non mi sono accorta che ho appena raggiunto la quota dei quindici minuti.
«Come va?» chiede Diego, nessuna traccia di affaticamento nella voce.
L’unica risposta che riesco a dare è uno sbuffo appena più forte degli altri.
Quattro minuti.
Se sopravvivo a questo, non lascerò più dire a Serena che sono una pappamolle.
«Riesco a correre per venti minuti, che ti credi!» sarà la mia risposta.
Stringo i denti. E continuo col conto alla rovescia. Fisso i numeri come se potessi farli andare più veloci con la forza del pensiero.
Due minuti.
Sto per mollare. La mancanza di ossigeno comincerà a farmi delirare. Più del solito.
Se solo ricordassi qual è il pulsante per fermare tutto. Cerco di leggere le scritte in piccolo, ma col sudore che mi cola sulla fronte riesco appena a distinguere i contorni.
All’improvviso la macchina rallenta e mi ritrovo a camminare a passo di lumaca. Un lieve bip e poi si ferma del tutto. Resto immobile, ancora aggrappata ai supporti laterali.
Non riesco a credere di avercela fatta.
Faccio per scendere ma mi gira la testa e per poco non finisco sdraiata sul parquet. Diego è già lì a sostenermi. Devo avere l’aria di una moribonda, perché è così che mi sento.
«Respira» dice.
Mi fa spostare al centro della stanza.
«Alza le braccia e inspira, poi espira lentamente».
Ci provo, ma è difficile. Il primo impulso è cercare di incamerare più aria il più in fretta possibile.
«Lentamente» ripete Diego.
Poco a poco riesco a tornare a respirare normalmente. Mi lascio cadere a terra.
«Volevi farmi fuori, almeno ammettilo» esclamo non appena riesco a parlare.
Diego si siede a gambe incrociate di fianco a me.
«Come ti senti?».
«Come se mi avessero investito, e poi avessero fatto retromarcia».
«Intendevo dire: come ti senti per avercela fatta?».
Ci devo pensare un attimo.
«Bene» devo ammettere.
«Ma ne avrei fatto anche a meno».
Diego si rialza in piedi e mi costringe a fare lo stesso tirandomi da un braccio. Mi rimette in posizione eretta come se fossi un pupazzo senza spina dorsale.
«Ti sbagli».
«Come?». Non capisco cosa intende.
«L’autostima. Non è una cosa di cui si può fare a meno».
Mi fa cenno di seguirlo nella stanza coi tappetini e i sacchi da boxe.
«L’autostima» ripeto come un pappagallo, senza capire ancora. «La mia autostima non aumenterà perché sono riuscita a correre per venti minuti e non ho subito danni permanenti».
«Invece è proprio quello che succederà» ribatte Diego, incrociando le braccia davanti al petto, sornione.
«Che vuoi dire?».
«Sei stata cresciuta nella convinzione di non valere niente. Ti guardi allo specchio e pensi che sarebbe meglio non essere mai nata. Pensi di essere una persona priva di interesse».
Sì, beh, non l’avrei detta proprio così.
Sentirlo parlare mi provoca una fitta al petto.
«Tu che ne puoi sapere?» gli urlo contro.
Non mi ero accorta di stringere i pugni per la rabbia.
«Perché è esattamente quello che abbiamo provato tutti. Perché è quello che provo io, da sempre».
Mi giro per poter nascondere gli occhi lucidi. Quando sono sicura di aver ricacciato indietro le lacrime chiedo: «E correre aiuta?».
«Non sai quanto».


 

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Al link qui sotto potrete leggere le prime 50 pagine di una mia storia e votarla. Le cinque storie più votate potrebbero essere pubblicate, perciò fateci un pensierino e aiutate questa povera anima in pena (sì, sto parlando di me!).
La mia storia si intitola "Io sono Vera" e spero che, anche se non vorrete votarla, mi direte cosa ne pensate ;)


http://www.concorsogiuntishift.it/vota-la-storia/

 

  
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