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Autore: BlackEyedSheeps    18/09/2013    5 recensioni
Clint Barton e Natasha Romanoff hanno appena portato a termine la loro prima missione insieme. Una raccolta di one-shot, legate l'una all'altra da un sottile filo conduttore, vedrà mutare e crescere il loro rapporto attraverso nove città e due punti di vista, fino agli eventi di The Avengers. [Clint/Natasha]
Genere: Angst, Azione, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Clint Barton/Occhio di Falco, Natasha Romanoff/Vedova Nera
Note: Movieverse, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Compromised'
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Disclaimer: Occhio di Falco, La Vedova Nera e tutti gli altri personaggi non ci appartengono, ma sono proprietà Disney e Marvel.
Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro.


*

Buonasera! Come (minacciato) promesso, siamo tornate.

Di nuovo con una storia che vede come protagonisti i nostri due agenti dello SHIELD preferiti.

Come da riassunto, stavolta si tratta di una serie di One-shot… tutte legate fra loro, in ordine cronologico. Le frasi che concludono il capitolo, saranno l’introduzione a quello successivo, diversi scenari, diversi punti di vista.

Da quello che dovrebbe essere solo l’inizio della loro collaborazione, fino ad arrivare alle porte di quella che sarà la loro avventura con gli Avengers.

La storia parte da un episodio accennato nell’ultimo capitolo della prima fanfiction che abbiamo scritto. La naturale prosecuzione di “A Plague I Call a Heartbeat”. Non è necessario averla letta per capirci qualcosa, comunque.

Inutile dare ulteriori spiegazioni… allonz-y!
 

 

 

CAPITOLO 1

New York City

 

 

New York è una città che non dorme mai, dicono.

Eppure la mattina è un’amante assonnata che raccatta i vestiti della sera precedente, si trascina per le strade, vittima di postumi segreti.

Clint amava il risveglio cittadino. Non che fosse un soggetto particolarmente mattiniero – spesso il sole era già alto nel cielo quando si decideva a scalciare via le lenzuola - ma sovente gli capitava di veder spuntare l’alba, accoglierla rinfrancato, lontano da quelle notti insonni dove lo sguardo si perdeva fra le tenebre. Cercava, fra le luci artificiali, quel bagliore che ritrovava solo molte ore dopo. Tornava a vederci chiaro.

Per le strade si aggiravano fantasmi affrettati, avventurosi sportivi e traffico pigro di taxi disoccupati. Clint però conosceva la sua meta come delineata su un percorso prestabilito.

Sapeva dove trovare la fauna locale, sapeva dove si nascondeva, sapeva come stanarla.

Varcava la soglia di una tavola calda, mentre profumo di caffè e zuccherose ciambelle lo investiva benevolo. Si metteva a sedere in un angolo, a scrutare porzioni di mondo dalla vetrata, sorseggiava il suo caffè con doppia – a volte tripla – dose di panna e si concedeva l’attimo di beatitudine che una città può celebrare solo a quell’ora.

Qualcosa però lo aveva portato a cambiare piani, per quella mattina. Era entrato sì nel locale, aveva chiesto il solito caffè (Da portar via, per favore), ci aveva aggiunto un sacchetto di ciambelle e quello che - si vergognò a ordinare - per lui non era altro che acqua calda aromatizzata (Comunemente detta: tè).

Era uscito così come era entrato, abbandonando il calore rassicurante del locale, le sommesse chiacchiere mattutine, il rumore della macchinetta del caffè e la musica di una stazione radio che mandava brani di vecchie glorie, ed era tornato per le strade, a confondersi con il popolo di fantasmi affrettati che iniziavano la loro giornata.

Pochi minuti dopo era di fronte al portone di un vecchio palazzo a chiedersi se fosse stata una buona idea. Interrogandosi più o meno coscientemente se premere o meno il tasto di quel citofono.

 

Non era nemmeno certo di sapere per quale motivo avesse pensato a lei. Perché si fosse trascinato fuori dal suo appartamento con la strampalata idea di farle visita, senza un solo ripensamento. Forse perché le ultime settimane erano state significative per delineare una sottospecie di rapporto che, sebbene prettamente lavorativo, aveva lanciato le basi per qualcosa che sembrava funzionare. E funzionare bene.

Nemmeno le più rosee aspettative di Fury avrebbero potuto ipotizzare la sorprendente riuscita dell’ultima missione. La prima vera missione che si fossero trovati a condividere dopo il reintegro della Vedova Nera fra le file dello SHIELD.

Clint aveva trovato in Natasha una partner abile e intuitiva. Poche parole per delineare un piano d’attacco, rapidità e empatia immediata. Eppure a guardarli così sembravano vivere su due livelli differenti: l’uno con le sue ossessioni sulla distanza e la pazienza, l’altra sull’immediatezza e il contatto.

L’equilibrio sembrava stare alla base.

Natasha sembrava tollerarlo più di quanto si fosse aspettato. Sembrava tanto colpita dalla sua competenza e abilità sul campo, quanto non dalle sue carenti battute di spirito che, puntualmente, venivano sedate da sguardi affilati.

Lui, di contro, ne apprezzava la schiettezza, lo spirito d’iniziativa ma nondimeno la capacità di accettare consigli - e di raddrizzarne il tiro, ove necessario - nonostante lo spirito indipendente.

Funzionavano. Ed era tutto ciò che veniva richiesto.

Eppure adesso era lì, fuori da qualsiasi schema, a domandarsi se fosse corretto o appropriato cercare un contatto al di fuori delle solide mura dello SHIELD. In quell’universo dove non c’erano agenti o trame segrete a muoverli.

 

La mano però trovò il citofono. Spinto da quell’istinto inappropriato che proprio non voleva saperne di essere messo a tacere.

A rispondergli, l’istante successivo, una voce ovattata da metri di cavi, vagamente esitante, vulnerabile come non si sarebbe atteso.

“Ahm… Romanoff? Sono Clint. Clint Barton.”

Un unico fastidioso ronzio fu tutto ciò che seguì per un’interminabile manciata di secondi.

“Lo so. Ti ho visto arrivare.” La sentì infine ribattere, non meno perplessa, non meno sospetta.

Clint non riuscì ad impedirsi di alzare la testa alle finestre dei piani superiori, vagando dietro ogni tenda, cercandola stupidamente con lo sguardo.

Tentò di recuperare l’attimo di incerto stupore, prima di tornare a fronteggiare la sua invisibile interlocutrice.

“Che ci fai qui?” si sentì domandare freddamente.

Non uno degli approcci migliori della giornata.

Lanciò uno sguardo ai bicchieri e la busta colma di ciambelle e improvvisamente trovò l’espediente veramente stupido. Cercò però di non perdersi d’animo.

“La lavatrice.” Fu la prima cosa che gli venne in mente. Ma non si sentì, stavolta, di complimentarsi per la trovata.

“Scusa?”

“La lavatrice. Mi avevi chiesto consulenza. Ebbene eccomi qui.”

Di nuovo silenzio a sottolineare la singolarità della situazione.

“Sono le sette del mattino.”

E Natasha ci mise il carico da cento.

“Già… ma tu sei sveglia. Ed io, caso vuole, fossi di strada.”

“Caso vuole…” la sentì ripetere “Credevo fossi di Brooklyn.”

“Già…”, temporeggiò “mi piace cambiare tavola calda, di tanto in tanto. Una variazione sul tema, sai.”

Di nuovo solo quel ronzio fastidioso, esitante.

“Ti ho portato la colazione. Ciambelle e .” L’ultima parola pronunciata con vaga avversione. “Non vorrai farmi sprecare il cibo. Cibo che ho pagato, pagato di tasca mia. Pagato di buon cuore, per…”

“Hai intenzione di continuare per molto?” la porta scattò “Sali. Terzo piano, appartamento 7C.”

E Clint si trovò a percorrere un lungo corridoio, senza avere la minima idea di quello che sarebbe successo dopo. Senza avere la minima idea sul perché avesse deciso di avventurarsi in quell’universo sconosciuto, inesplorato fatto di… scale scrostate e odore di muffa?

Che diavolo di posto era mai quello? Si sentì quasi protettivo nei confronti del proprio stabile, del proprio appartamento. A confronto casa sua era ospitale quanto una reggia.

L’ascensore nemmeno sembrava incline a lasciarlo passare. Malevolo come le tristi pareti giallognole e i pavimenti rovinati da troppe scarpe. Decise di optare per le scale.

 

Natasha aprì la porta nell’istante in cui metteva piede sull’improvvisato zerbino.
Si chiese se non avesse occhi ovunque.

“Ehi!” si trovò impacciato, impreparato a risponderle, e lei ricambiò con un cenno del capo.

La donna indossava un paio di shorts che mettevano in mostra le gambe - snelle e muscolose - e una canotta sformata, bianca, anonima. Doveva essersi appena alzata a giudicare dalla piega che avevano assunto i suoi capelli. Sul suo viso, però, nemmeno un segno di stanchezza. Questo poteva significare uno spirito mattiniero o una notte insonne. Era comunque ancora troppo giovane per sfoggiare occhiaie troppo evidenti. E l’impressione generica che ne risultò fu proprio quella di avere di fronte una ragazzina, una giovane donna dall’aria ostile e forse un po’ impacciata, in un ambiente che non le era congeniale.

Si scostò per lasciarlo passare, senza levargli un istante gli occhi di dosso, come ad accettare l’intrusione sì, ma con circospezione.

Clint si sorprese di trovare un netto, mostruoso contrasto con l’anticamera disastrata al di fuori di quel posto. L’appartamento era essenziale ma pulito, imbiancato di fresco. Un indistinto profumo d’agrumi a rinfrescare l’aria. Ebbe l’impressione di trovarsi in uno spazio utile e lineare. Nessun guizzo d’inventiva nell’arredamento. Solo lo stretto necessario.

Un divano. Una piccola televisione. Un lampadario. Nessun quadro alle pareti. Delle tende bianche, a velare la luce del giorno. Solo su una parete trovò qualcosa che potesse dare un accenno di personalità all’insieme: una libreria dagli scaffali essenziali, stracolma di libri.

Libri che, anche ad un’occhiata distratta, risultavano parecchio vissuti.

Non ci aveva messo che pochi secondi ad inquadrare i dintorni. Forse per istinto, forse difetto professionale. La cosa però non sfuggì a Natasha.

“Non deve essere confortevole. Solo pratico.” Disse, come a giustificare l’assenza di tutti quei gingilli che sicuro sapeva dimorare nelle case di giovani donne della sua età. O almeno pretendendo di saperlo.

Clint scrollò le spalle, mitigando lo stupore per la sua uscita.

“Devi ancora finire di sistemarti, dopotutto.”

“Non c’è altro, veramente.”

Ci fu un momento di confuso imbarazzo che zittì entrambi.

“Bè… sicuro così è più pratico del mio appartamento.” Alluse lui, forzando divertimento, rammentandosi piuttosto chiaramente lo stato in cui vertevano le condizioni del suo salotto, camera e cucina. Lo stato di abbandono e disordine era quasi fastidioso a confronto di quell’ambiente sterile.

Tornò a guardarla e si chiese perché fosse così difficile stabilire un contatto al di fuori di quelle che erano le loro mansioni lavorative. Si scoprì a trovarsi tutt’altro che a suo agio e forse comprese di esserlo nel momento in cui aveva intuito che non lo era lei per prima. Fuori da un contesto al quale di solito sapevano come reagire. Carente dal punto di vista sociale.

“Sei venuto qui solo per parlare del mio appartamento o vuoi davvero aiutarmi con quella lavatrice?”

Clint le scoccò uno sguardo perplesso. La nervosa aggressività di chi sente minacciata la propria privacy. Capì che se qualcuno doveva rompere quel muro di imbarazzo, quella persona doveva essere lui. Non perché particolarmente portato per i rapporti sociali, ma di sicuro più incline alla socializzazione. E più vecchio per poter assorbire qualsiasi stoccata.

“Sei una che va dritta al punto tu.” Sospirò forzando sconforto “Vuoi far freddare la tua colazione?” sollevò le mani come a sottolineare la portata dell’evento.

Natasha non nascose il suo disappunto, intrecciando le braccia al petto, perfettamente consapevole di aver in qualche modo sgarrato sulle regole dell’ospitalità. Non che Clint si aspettasse che gliene importasse davvero.

Però ricordava esattamente cosa volesse dire voler dimostrare a chiunque di essere cambiato e cercare di correggere un errore di facciata. E forse Natasha stava solo assimilando, imparando. Infastidita, ma attenta.

“Ciambelle”, le illustrò allora, raggiungendo il tavolo accanto al cucinino. “Ce ne sono di tutti i tipi. Cioccolato, vaniglia, crema. Ce n’è un paio semplici ma francamente non te le consiglierei. Il peccato deve essere consumato a piene mani…”

Si servì da solo, avvicinando un piatto sul lavabo per rovesciarci dentro i dolci dall’aria colorata e invitante.

Le scoccò un’occhiata d’incoraggiamento e, solo dopo un’attenta valutazione, Natasha sembrò scegliere quella al cioccolato.

“Ah, un classico.” Concordò con lei. “Compensa la tua riluttanza per il caffè.”

“Cosa ti fa pensare di essere nel giusto riguardo al caffè?” la guardò sedersi sul bordo del tavolo, rigirandosi la ciambella fra le mani.

“Bè, non è ovvio?”

“No, non lo è. Prova a chiederlo a un inglese.”

“Tu non sei inglese.”

“No, però non ho la presunzione di credermi nel giusto.”

Stoccata finale, il dibattito si era concluso e la vincitrice era Natasha. Di nuovo.

“Prima o poi riuscirò a vincerne uno…”

“Di cosa?”

“Niente, lascia perdere ragazzina.”

Le gambe di Natasha di mossero nervose.

“Non sono una ragazzina. E la prossima volta che te lo sentirò dire ti troverai con un paio di ciambelle in meno…” l’allusione, sebbene piuttosto fantasiosa, risultò chiara e minacciosa.

“Con te non si può mai scherzare, sei terribile.” Dichiarò con un’alzata di mani.

“Magari sono le tue battute ad essere pessime.”

“In giro mi trovano un tipo divertente.”

“In giro dove? Fra i ghiacci dell’Artico?”

Clint le rifilò in mano il bicchiere con il thè bollente.

“Forse avremmo dovuto cominciare davvero con la lavatrice.”

Natasha si strinse nelle spalle con aria semi-innocente.

 

***

 

Non era proprio sicuro di come fosse potuto succedere, ma un’ora dopo, al momento della centrifuga, la lavatrice di Natasha, nel bagno sterile di Natasha, nell’appartamento asettico di Natasha, aveva preso a vomitare schiuma come se non ci fosse un domani.

A nulla erano valsi i tentativi di bloccare quell’ammasso non richiesto di allegre, candide bolle. Fra le quattro pareti rivestite di piastrelle color ghiaccio, regnava il caos.

“Avevi detto di saperla usare!” strillò la ragazza, a coprire il rumore innaturale dell’elettrodomestico, schiuma fra le dita dei piedi, sulle gambe, i gomiti, in viso, fra i capelli.

Clint, a quattro zampe, stava cercando a tentoni la presa della corrente per staccare almeno la spina.

“Non mi avevi detto di avere fra le mani un oggetto d’antiquariato!” protestò palesemente insterichito dalla situazione.

Si illuminò solamente quando individuò un cavo. Prese coraggio e fiato e tirò con tutta la forza che aveva. La lavatrice esalò un ultimo, strozzato grido d’aiuto e si spense con un sussulto.

La stanza tornò silenziosa, solo gli scoppiettii della schiuma a scandire l’assurdo.

Natasha si accasciò sul bordo della vasca da bagno, Clint in ginocchio, stringeva ancora in mano il suo stendardo di vittoria.

“Bè, adesso non puoi dire di non avere un bagno con della personalità.” Dichiarò guardandosi attorno ingobbito, mentre una bava di schiuma gli pendeva dal mento come una barba posticcia. Più che un solenne arciere high-tech dello SHIELD assomigliava a una rivisitazione invecchiata di Robin Hood.

Lui non sembrò accorgersene ma quando tornò a guardare Natasha si sorprese di vederla scossa da sussulti che non riusciva a frenare.

Per un attimo ebbe paura di aver fatto qualcosa di assurdamente sbagliato, poi, il pizzicore al viso, gli suggerì di essere visivamente diventato qualcosa di ridicolo.

Sentì qualcosa di indefinito aggrovigliargli lo stomaco, quando si rese conto di quello che stava accadendo. Qualcosa che, lo sapeva, aveva distrutto, abbattuto, bombardato a gran forza e in un istante quel muro che separava così nettamente la loro comunicazione sul piano personale.

Nient’altro avrebbe potuto migliorare ulteriormente quella giornata.

 

Natasha stava ridendo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  
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