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Autore: BlackEyedSheeps    20/09/2013    3 recensioni
Clint Barton e Natasha Romanoff hanno appena portato a termine la loro prima missione insieme. Una raccolta di one-shot, legate l'una all'altra da un sottile filo conduttore, vedrà mutare e crescere il loro rapporto attraverso nove città e due punti di vista, fino agli eventi di The Avengers. [Clint/Natasha]
Genere: Angst, Azione, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Clint Barton/Occhio di Falco, Natasha Romanoff/Vedova Nera
Note: Movieverse, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Compromised'
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CAPITOLO 2

Dubai

 

Natasha stava ridendo.

 

Un impercettibile, metallico gracchiare l'avvertì per l'ennesima volta che la ricetrasmittente, nascosta all'interno dell'orecchio, stava funzionando a meraviglia.

Si appoggiò leggermente al carrello che aveva bloccato a metà corridoio, ferma davanti all'entrata della lussuosa suite presidenziale, situata all'ultimo piano di un imponente albergo di Dubai.

I capelli, raccolti in una crocchia bassa, nascondevano le orecchie da sguardi indiscreti, mentre una castigata divisa da cameriera le fasciava il corpo. Non uno dei suoi travestimenti preferiti, ma sicuramente – come aveva avuto modo di constatare sul campo – uno di quelli che riscuoteva maggior successo.

L'uomo alto, massiccio ed elegante continuava a snocciolare battute deprimenti, alle quali Natasha non mancava di dimostrare il proprio apprezzamento in modo incredibilmente naturale e spontaneo... all'esterno. Se avesse potuto dar sfogo al suo reale stato d'animo, avrebbe afferrato il vassoio d'argento poggiato sul carrello, e gliel'avrebbe stampato in faccia con l'augurio di poter fare il maggior danno possibile.

Dall'altro capo della trasmittente, riusciva a sentire il respiro appena udibile dell'agente Barton. Non l'avrebbe mai ammesso ad alta voce, a malapena riusciva a confessarlo a se stessa, ma la costante presenza dell'uomo – sebbene a distanza – la rendeva più sicura di sé, impedendole di sentirsi abbandonata a se stessa, con tutto il peso del mondo sulle proprie spalle.

Abituarsi a quella presenza, il più delle volte impalpabile – Clint, infatti, manteneva di solito una certa distanza – non era stato semplice. Non avrebbe saputo dire se era arrivata al punto di fidarsi di lui, ma il non dover prendere necessariamente ogni decisione per portare a termine le missioni, aveva fatto miracoli per la salute dei suoi nervi. E di questo gli era grata, sebbene ad insaputa di lui.

Piegò il capo di lato, scoprendo la linea morbida del collo. Un gesto apparentemente del tutto casuale, un amo a cui il gorilla appostato di guardia alla suite non mancò di abboccare.

Arrivata a quel punto, non doveva far altro che attirare a sé la lenza.

 

***

 

Gli immobilizzò polsi e caviglie con due fascette stringicavo che aveva nascosto nel grembiule. L'uomo grugnì ma non riprese i sensi, restando accasciato sul ridotto pavimento dello sgabuzzino degli inservienti, nel quale si erano appartati. Natasha sperò che la botta in testa che gli aveva dato fosse sufficiente a fargli dimenticare la sua faccia... anche se era piuttosto sicura che si fosse concentrato su tutt'altro durante la loro breve, ma folgorante (per lui) conversazione.

“Spero che tu sia consapevole di aver irrimediabilmente compromesso la sua fiducia nel gentil sesso”, commentò Clint dall'altro capo del segnale che li teneva in contatto.

“Esiste un gentil sesso?” gli chiese nel suo solito tono asciutto.

“Non dovresti abbonarmela per non aver detto sesso debole?” ribatté, col chiaro intento di punzecchiarla.

“Spera che io faccia tardi al punto di ritrovo, o ti farò vedere esattamente quanto sono debole.”

Clint si mise a ridere. Lei si pentì di avergli dato corda. Sapeva che lo faceva apposta, eppure non riusciva a non replicare in qualche modo... o almeno, una volta le riusciva, adesso, trattenersi, era diventato sempre più complicato. Quasi ci fosse una sorta di tacito accordo per cui lo scambio dovesse andare avanti ad ogni costo. Il più delle volte, era così che interagivano.

“Datti una mossa”, l'avvertì. “Se non saranno questi bambocci armeni ad uccidere il dottor Takomoto, ci penserà un infarto.”

“Ricevuto”, gli fece eco, controllando di avere con sé tutto il necessario prima di uscire dal ripostiglio. Con naturalezza recuperò il carrello, spostando dei grossi vassoi coperti dal ripiano inferiore – nascosto da una lunga tovaglia bordeaux – a quello superiore.

I propri passi, soffocati dalla moquette, la condussero di nuovo alla doppia porta della suite presidenziale. Adesso, liberatisi del palo che le aveva impedito di farlo la prima volta, alzò una mano e bussò con discrezione, annunciando di avere con sé la cena.

Un viso scuro e ingrugnito dalla stanchezza fece capolino tra le due ante della porta, squadrandola dalla testa ai piedi.

“Dove diavolo è andato a cacciarsi?” chiese a nessuno in particolare, evidentemente sorpreso per l'assenza del cane da guardia.

Natasha si limitò a stringersi nelle spalle, sfoggiando la migliore delle sue espressioni confuse e innocenti al tempo stesso. L'uomo le lanciò un'occhiata poco convinta, voltandosi verso qualcuno all'interno della suite e abbaiando un paio di frasi in armeno (C'è una di quelle puttane dell'albergo, che faccio?) che Natasha non mancò di registrare, pur mantenendo una facciata di beata ignoranza.

“Uh-oh”, il sussurro di Clint la raggiunse, consapevole del guaio in cui lo sconosciuto si era appena andato a cacciare, a sua totale insaputa.

L'uomo tornò su di lei dopo una breve conversazione col compare riguardo l'attraenza della cameriera in questione, dopodiché – assicuratosi dell'appetibilità di Natasha, più che della cena – deliberarono di lasciarla entrare.

Si curò di sorridergli docilmente, ricevendo in cambio un'occhiata famelica. Aspettò che le aprisse la porta e la invitasse all'interno della suite, facendosi da parte per lasciarla passare, preceduta dal carrello. L'appartamento era enorme, arioso, rivestito di marmi e pannelli di vetro, con una straordinaria vista sul Golfo Persico. Individuò il secondo uomo presente nel salotto – a cui si rivolse con un saluto educato -, facendo vagare casualmente lo sguardo alla porta chiusa della camera da letto: se non altro, avrebbe avuto un minimo di privacy prima di dover affrontare il terzo livello di gioco.

L'uomo che le aveva aperto incombeva alle sue spalle, mentre Clint – nel suo orecchio – tratteneva inconsapevolmente il respiro.

Fu un attimo: si chinò per raccogliere qualcosa dal ripiano inferiore del carrello, distraendo i due con un movimento calibrato. Mentre prestavano attenzione al suo didietro, Natasha impugnò le automatiche provviste di silenziatore poggiate su un vassoio nascosto dal telo scarlatto. Si rimise in piedi, le braccia a centottanta gradi e fece fuoco, il rumore degli spari riecheggiò – strozzato – nell'aria. I corpi esanimi si accasciarono sul pavimento. Su ciascuna fronte, un foro rosso.

“Pensavo che l'avresti rimproverato su quel puttana”, commentò Clint, vagamente deluso. “Uno sta uscendo dalla camera da letto, gli altri due rimangono col dottore”, aggiunse in tutt'altro tono.

Natasha aveva appena avuto il tempo di nascondersi dietro lo schienale di un grosso divano di pelle nera, che la porta della stanza si aprì. Aspettò una manciata di secondi, quel tanto che le bastava per localizzarlo alla perfezione... ma il rumore del vetro infranto, il tonfo di un peso morto, la presero in contropiede.

Riemerse tentativamente dal suo nascondiglio, alzando gli occhi al soffitto con aria esasperata: l'uomo era stato colpito da una freccia-taser proprio all'altezza del petto.

“Prego”, la precedette Clint.

“Non ce n'era alcun bisogno”, bisbigliò lei, lanciando solo una rapida occhiata all'uomo che tremava grottescamente in preda alle scosse elettriche, prima di attraversare la stanza e schiacciarsi contro la parete opposta, proprio accanto allo stipite della porta della camera da letto.

“Lo prenderò come un ringraziamento”, la informò.

Avrebbe voluto biascicare un non lo era, ma optò per un'occhiata glaciale in direzione della finestra rotta, oltre la quale riusciva a scorgere l'alta torre – una banca – dalla quale Clint la stava osservando.

“Ne sta arrivando un altro. Tutto tuo.”

Si concentrò sul rumore dei passi e delle voci concitate che sentiva nella stanza subito adiacente.

Puntò l'arma alla sua destra e fece fuoco.

 

***

 

“Gli ho somministrato un leggero sedativo”, le annunciò, chiudendosi la porta alle spalle.

La casa sicura non poteva di certo competere con lusso sfrenato dell'albergo che avevano lasciato circa un paio d'ore prima, ma non era fatiscente come si era aspettata.

Clint la raggiunse al tavolo della cucina-soggiorno, sul quale Natasha aveva disposto le sue armi, intenzionata a trascorrere il tempo che li divideva dal recupero pulendole accuratamente.

“Non puoi aspettare di arrivare a New York per quello?” le chiese dopo una manciata di secondi in cui – Natasha lo intuì – aveva dibattuto con se stesso se parlare o meno.

“Abbiamo altro da fare?” gli ritorse, alludendo alla stanza semi-deserta con un cenno del capo. Di certo non c'era niente che avesse l'aria di un passatempo.

“Dormire? Rilassarci?”

“Se vuoi dormire, fa' pure... il divano è tutto tuo.”

“Nah... fa troppo caldo, e quel coso sembra contenere almeno tre generazioni di parassiti.”

Lo maledì mentalmente per aver menzionato l'afa che opprimeva la stanza: aveva cercato di relegare la consapevolezza in un remoto angolo della propria mente, ma il meccanismo si era appena inceppato. Si sentì soffocare.

“Vedrai, solo un paio d'ore e verranno a prenderci”, le disse, forse per consolarla, forse per convincere se stesso. “E' la terza volta che finiamo una missione con tutto quest'anticipo”, fece notare con una punta di malcelato orgoglio.

Natasha annuì, usando uno straccio per ripulire la canna di una delle sue armi.

Restarono in silenzio ancora per un po', prima che Clint si arrendesse al suo mutismo e annunciasse di aver bisogno di una doccia. Avrebbe voluto metterlo in guardia sulle pessime condizioni del bagno, ma finì per tacere.

Scrutò i suoi movimenti con la coda dell'occhio finché non lo vide sparire. Rimasta sola, rilassò di colpo le spalle, ammosciandosi sulla sedia.

Il senso di colpa arrivò, puntualmente, a farle compagnia.

 

***

 

“Cosa fai... p-per rilassarti?” Inorridì al modo in cui la voce risuonò alle sue stesse orecchie, tanto che per un istante si era quasi convinta della presenza di una quarta persona – oltre a loro due e al dottore – che sicuramente doveva aver pronunciato quella frase.

Ma no, era stata lei.

Clint rialzò lo sguardo dal depliant di un ristorante srilankese che – chissà come – aveva ripescato da una tasca dei pantaloni di ricambio che aveva portato con sé. Non aveva trovato asciugamani e aveva l'aria di essersi rivestito senza asciugarsi. Il tessuto della t-shirt nera gli si appiccicava alla pelle umida, lasciandone intravedere le linee in più punti. Cosa che, in tutta sincerità, la infastidiva.

Sembrava altrettanto sorpreso, e – proprio come lei – accennò a guardarsi attorno, giusto per accertarsi che fosse stata davvero lei a parlare. Dovette aggiungerci anche il carico da cento, indicandosi con aria volutamente confusa, rivolgendole un tacito Stai parlando con me?

Prontamente, Natasha si pentì d'aver parlato. Alzò gli occhi al soffitto e fece per dirgli di lasciar perdere, ma Clint fu più rapido di lei.

“Tiro con l'arco, guardo la tv...” rispose, facendo una breve pausa. “Osservo la città dall'alto... cose così.”

Se lo figurò seduto sul ciglio di un qualsiasi edificio di Brooklyn, con la stessa nonchalance con cui chiunque altro si sarebbe seduto su un muretto alto un metro.

Finì per annuire, come per prenderne atto, chiedendosi se avrebbe dovuto dire qualcos'altro, alimentare la conversazione o lasciarla morire lì. Una parte di lei avrebbe sostenuto che era stata lei a cominciarla e che sarebbe quindi stato compito di lui mandarla avanti; un'altra si sentiva ancora in colpa per tutte le conversazioni che lui aveva cominciato e che lei aveva lasciato sistematicamente morire.

“Tu cosa fai per rilassarti?” Clint la tolse dall'imbarazzo di dover decidere se star zitta o parlare. Poi assunse un cipiglio stranito. “Ammesso che tu sappia cosa voglia dire... rilassarsi.”

“Molto divertente, Barton, davvero.”

“E' un dubbio più che ragionevole”, ribatté lui, un principio di risata sulle labbra.

“Come qualunque altro essere umano, sì, mi rilasso.” dichiarò seccamente a sua volta.

Registrò le sue stesse parole con qualche secondo di ritardo. Davvero si era appena considerata come un qualunque altro essere umano? Valutò quasi ossessivamente la cosa, tanto che – dopo qualche attimo – le parve incredibilmente stupida.

“Allora... cos'è che fai per rilassarti?” Clint interruppe le sue divagazioni mentali, riportandola coi piedi per terra.

“Leggo. Cammino. Prendo la metropolitana.”

“Prendi la metropolitana per rilassarti?”

Natasha annuì, chiedendosi se non avrebbe fatto meglio a starsene zitta. Le piaceva davvero, però, scendere sottoterra, prendere un treno a caso, restarsene seduta per quantità di tempo indefinite, osservare la gente che arrivava e veniva, ognuno occupato con la propria vita e i propri impegni. Era anche un ottimo allenamento per ampliare il proprio repertorio di personaggi, gesti, atteggiamenti...

“Osservo la città, ma da vicino”, gli ritorse, come per mettere in chiaro che se la sua idea era stupida, allora doveva esserlo anche quella di lui.

Clint sorrise e alzò le mani a mo' di resa. La maglia nera sembrava stargli troppo piccola, e il movimento delle braccia fece arricciare il tessuto attorno alle ascelle, rendendo ancora più evidente la linea dei pettorali.

Natasha trattenne inspiegabilmente il respiro e guardò altrove, verso le sue armi diligentemente sistemate sul tavolo, ormai pulite e di nuovo pronte all'uso.

“Non esci mai?”

Rialzò lo sguardo su di lui, metabolizzando la domanda con un po' di ritardo.

“Certo che esco di casa”, rispose, sicura di essersi persa qualcosa di essenziale.

“No, intendo... non esci mai la sera? Per divertirti?”

Natasha si strinse nelle spalle. Uscire per far cosa, esattamente? Andare a ballare, bere, cenare... e con chi? Non si era fatta nessun amico a New York, e le sue conoscenze si limitavano a lui, al direttore Fury e all'agente Coulson. S'immaginò in discoteca in compagnia dei tre, senza riuscire a nascondere il sorriso che le affiorò sulle labbra.

“No...” finì col dire, mascherando in qualche modo il divertimento, anche se sapeva che – con ogni probabilità – Clint se ne doveva essere accorto. Gli rigirò la domanda con un leggero cenno del capo, al quale rispose scuotendo la testa. Movimento che interruppe un attimo dopo.

“Voglio dire... sì, esco, qualche volta... quando capita.”

Qualcosa le disse che non molte di quelle serate dovevano essersi rivelate un successo.

“Magari puoi consigliarmi qualche posto”, propose, cogliendo nuovamente impreparata persino se stessa. “Sei tu l'esperto”, aggiunse, come per mitigare la straordinarietà del momento.

“Sono io”, confermò lui, mostrando il buonsenso di non conferire troppa importanza all'evento.

Poi le sue sopracciglia si aggrottarono e la sua espressione cambiò, perplessa.

 

Ce li hai ventun anni?”

 

___________________________________

 

 

N.d.A: Buongiorno di nuovo! La fanfiction prosegue e ci sembrava doveroso fare (gatto permettendo - provate a scrivere sulla tastiera, con artigli felini che spuntano direttamente da dietro lo schermo del pc, pronti a staccarvi le dita) , in separata sede, i dovuti ringraziamenti, a chi ci sta leggendo per la prima volta e chi sta continuando a farlo e ai commenti carini ed entusiastici con cui avete accolto anche questa nuova storia.

Insomma, grazie, ecco. E arrivederci al prossimo capitolo :)

Frr, frr. Miau.

  
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