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Autore: Belarus    27/09/2013    1 recensioni
Erano mercenari il cui nome era ignoto all’INTERPOL, alcuni erano schedati nei gruppi speciali degli eserciti delle rispettive nazioni, altri avevano un passato da cittadini onesti e rispettabili, alcuni avevano lavorato nei modi più disparati, ma tutti avevano una qualche dote peculiare capace di isolarli dalla massa.
«Oh…» mormorò fioco e disturbato l’auricolare.
«Oh cosa Francis?» domandò preoccupato temendo già la risposta dell’amico.
«Mi sono dimenticato di dirvi che questi collegamenti sono a tempo… pardon!»
«Pardon un cazzo!»

[Storia partecipante al contest “Pas a Pas” indetto da Fanny_rimes sul forum di EFP]
{FrUk-Spamano- accenni AmePan}[Attenzione: Linguaggio volgare!]
Baci Belarus.
Genere: Azione, Romantico, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: America/Alfred F. Jones, Francia/Francis Bonnefoy, Inghilterra/Arthur Kirkland, Spagna/Antonio Fernandez Carriedo, Sud Italia/Lovino Vargas
Note: AU, Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Titolo: Casino Royal – Slow Down The Heist
Note: Secondo capitolo di questa mini-long. Questa volta ho deciso di sforzarmi un po’ e spiegare le relazioni che intercorrono tra i protagonisti. Non mi convince del tutto, forse proprio per quell’accenno sentimentale che ci vaga in mezzo, ma è venuta fuori così e l’amerò per quello che è. Detto ciò preciso che i luoghi citati sono realmente a Monaco, esistono e mi sono basata sulle loro strutture per creare il background. La citazione posta nel secondo POV si riferisce alla relazione tra Arthur e Francis, chi volesse intenderla anche per Romano e Antonio… non vi freno certo io. Traduzioni a piè di pagina.
NoteII: Pour Hope, perché mi ha fermata dallo scrivere cose che non dovrei…
NoteIII: La storia partecipa al contest “Pas a Pas” indetto da Fanny_rimes sul forum di EFP.
Prompt: Domenic Marte – Señora.



Casino Royal – Slow Down The Heist





La Rascasse, ore 01:38.




Lasciò la presa della porticina nera del bagno, prestando attenzione affinché non battesse contro qualche povero malcapitato e che il portatile che reggeva tra le braccia non scivolasse andando in pezzi.
Avrebbe preferito lavorare nella tranquillità della camera, ma una permanenza eccessiva all’interno dell’albergo avrebbe potuto destare sospetti qualora fosse stata aperta un’indagine da parte della polizia del Principato e lui in fondo era abituato a lavorare in luoghi affollati, nonostante negli uffici giapponesi non vi fosse tanto frastuono. Fortunatamente le operazioni di hackeraggio erano andate a buon fine: i sistemi di controllo delle slot del casinò lungo il circuito erano stati resettati solo in due casi e le vincite non avrebbero superato qualche migliaio di euro. Per sicurezza avevano convenuto nel applicare lo stesso metodo ad altre due sale da gioco con vincite appena superiori per qualche decina e il quadro complessivo stilato in quel momento non mostrava nulla che potesse destare sospetti. Le vincite per quella serata, priva di qualsiasi evento di spicco, sarebbero state di qualche migliaio sopra la soglia consueta. Fatto che avrebbe aiutato loro nello sbancare i tavoli senza che i sistemi di monitoraggio comunitari ai casinò potessero rintracciare picchi in quella successiva. Romano-san inoltre si era esibito in una mirabile partita a baccarà nel tavolo da gioco del locale, ma il giapponese non aveva idea del dove fosse finito con i settecento euro vinti tre ore prima. In realtà non era neanche molto certo di dove fossero andati almeno altri due membri del gruppo, eppure Alfred-san e Arthur-san parevano non curarsene più di tanto. Perlomeno il primo.
«Ci voglio più cola dentro! Ancora di più! Di più! Suvvia abbonda con quella cola! Ahahah!» lo raggiunse al bancone del bar, mentre il barista continuava a versare inquietato.
«Gli porti una cola in un bicchiere da cocktail e la facciamo finita, please…» ordinò con tono esasperato l’inglese, accomodato nello sgabello accanto.
Il barista rimase per qualche istante immobile, poi scappò ad armeggiare tra sportelli e lattine accatastate cogliendo al volo lo spunto. Kiku si arrampicò in silenzio sullo sgabello sin troppo alto, luci psichedeliche s’infransero sulle bottiglie perfettamente esposte, mentre un noto Dj intratteneva la massa di giovani giunti sin lì per divertirsi.
«Toshi! Finalmente! Ahahah cominciavo a pensare che fossi rimasto chiuso nel bagno!» la mano s’infranse contro le spalle esili e la schiena di Kiku parve piegarsi pericolosamente sul bancone.
Il barista di ritorno gli rivolse un’ennesima occhiata preoccupata, prima di poggiare il pesante bicchiere in cui aveva versato la cola e dileguarsi tra la marea di clienti con sguardo allucinato.
«Tutto bene?» domandò Arthur, improvvisamente vigile.
«Nessun problema, Arthur-san.» lo rassicurò, sporgendosi appena oltre la figura di Alfred.
Un mezzo ghigno gli si dipinse sulle labbra, prima di rigirare con aria taciturna ciò che restava del quarto Mint Julep ordinato in quella serata. Rimase a fissarlo per qualche minuto chiedendosi se fosse opportuno o no, domandargli perché non stesse prestando realmente attenzione a nulla, ignorando persino le piccole stranezze dello statunitense, per cui lo aveva ascoltato lamentarsi quotidianamente dal suo arrivo nell’organizzazione.
Aveva sempre prediletto un certo riserbo per le proprie questioni personali e nella sua vita non gli era capitato molto spesso d’intrufolarsi in quella di altri. Da quando faceva parte dell’Across però, aveva sviluppato quello che Ludwig-san denominava “Fenomeno Feliciano” tale da spingerlo a prendere a cuore qualsiasi questione – o quasi – che minasse il quieto vivere generale. Arthur-san gli era stato di grande aiuto nei primi giorni nell’organizzazione, lo aveva accolto, guidato e aiutato, si era persino messo a sua disposizione per qualsivoglia problema e Kiku non poteva certo negare di esserglisi affezionato. Non era ancora pronto a vedere in quel gruppo di uomini una famiglia capace di sostituire il vuoto che portava nel petto, ma sentiva di potersi, se non anche doversi, preoccupare se qualcuno di loro pareva torturarsi l’anima come stava accadendo all’inglese.
Strinse il portatile al petto, decidendo di potersi permettere almeno una domanda indiscreta. Si sporse sull’americano che fungeva da barriera nello stesso istante in cui Arthur scivolò giù dal proprio sgabello con passo pesante.
«Io ritorno in hotel, state attenti alla polizia e fate in modo da non dare nell’occhio. Capito Alfred?» borbottò atono, poggiando una ventina di euro sotto il bicchiere ormai vuoto.
Alfred lo fissò per qualche istante indispettito, prese poco dopo a succhiare dalle proprie tre cannucce decidendo forse che ignorarlo sarebbe stata una soluzione adeguata. Kiku si drizzò maggiormente sul proprio sgabello, quando il britannico ebbe preso il giaccone e non si esibì in altre raccomandazioni o rimproveri. Aprì bocca pronto a porre la fatidica domanda, ma la mano dello statunitense poggiata sul suo ginocchio lo distrasse per abbastanza tempo da consentire ad Arthur di raggiungere l’uscita e sparire tra le strade umidicce di Montecarlo.
«Michael-san-» cominciò, deciso a non abbandonare il proprio intento.
«Lascia stare Toshi… liti tra vecchiacci, hanno la pressione troppo alta.»
Kiku si concesse il beneficio del dubbio riguardo quella presunta teoria scientifica, ma non era ancora sicuro di dover rimanere lì e non raggiungere il compagno di missione.
«Non sarebbe comunque meglio chiedere a Henry-san se vuole parlarne?» chiese incerto.
«Si metterebbe solo a strillare e ti direbbe che non c’è niente di cui parlare o scapperebbe nel primo bar a ubriacarsi per la vergogna… ha un’età, domani gli passerà.»
Anche su quell’ultima affermazione il giapponese reputò di non avere le adeguate conoscenze per stabilire se quella fosse la verità o no.
Chinò lievemente il caschetto color pece, lasciando vagare lo sguardo sul bancone lucido, accettando la consapevolezza di non essere ancora in grado di potersi immischiare nella vita di quegli uomini che lo avevano accolto con una tale apertura da spiazzarlo. Probabilmente il “Fenomeno Feliciano” si sarebbe completamente attuato tra qualche mese o magari anno, semmai fosse stato capace di sopravvivere alle missioni e stabilire un rapporto di fiducia con ognuno di loro. Per il momento però, era costretto a rimanere in disparte, assistendo suo malgrado a quella scena a lui tanto incomprensibile.
Abbassò le braccia che istintivamente aveva serrato al petto durante la tentata conversazione, cercando di poggiare il portatile che ancora reggevano sulle proprie gambe. Si accorse della mano di Alfred ancora piantata saldamente sul suo ginocchio solo allora. La osservò con sguardo allucinato, mentre quella pudicizia ancora radicata nella sua natura balzava fuori di colpo facendolo arrossire. Si trattenne per qualche secondo attendendo che quel contatto prolungato e intimo terminasse di lì a poco, ma solo quando ebbe sentito lo statunitense ordinare un’altra coca come se nulla stesse accadendo, capì che quel contatto disonorevole non avrebbe avuto termine.
«M-Michael-san!» tonò con voce malferma.
«Uhm? Che c’è?» bofonchiò tra un salatino e l’altro, agguantati chissà dove.
«Certi atteggiamenti non sono opportuni, vi prego di evitare o questa gente potrebbe farsi un’idea sbagliata della nostra moralità!» si agitò, drizzandosi nuovamente sullo sgabello.
Alfred lo fissò per qualche istante interdetto continuando a fagocitare alla cieca qualsiasi cosa beccasse all’interno della ciotolina da snack. Kiku si premurò di indicargli con un veloce cenno del capo le proprie gambe, affinché fosse chiara la gravità della situazione, ma a dispetto di quanto grave apparisse il tutto ai suoi occhi, l’americano scoppiò nell’ennesima risata. Il giapponese rimase in silenzio a osservarlo, mentre riprendeva a succhiare convulsamente il proprio drink alternando con qualche patatina. Seriamente preoccupato per il proprio onore e per quello del collega, si chiese se l’altro avesse almeno intuito di cosa stesse parlando o se semplicemente se ne stesse infischiando.
«Michael-san… la mano.» tentò laconico, cercando di non apparire irriverente.
Alfred parve finalmente focalizzare quale fosse il punto in questione e abbandonò per qualche secondo i propri stuzzichini.
«Ah! Questa?» chiese sorridente, sventolandogliela innanzi al viso «Così non scappi da quel brontolone, stai con l’eroe stasera! Ahahah!» spiegò schiantandola contro le sue spalle e attirandolo più vicino.
Kiku abbassò il viso, un po’ per il colpo subito, un po’ per la vergogna, lasciando che i propri occhi affondassero oltre il pavimento lercio del pub sino ai meandri più bui di Montecarlo ove pareva essere sprofondato l’onore della famiglia Honda.


Boulevard Louis II, Quai, ore 02:09.



«Despues de tanto sexo
no me pida que la olvide...»



Tra la massa di ragazzi ubriachi intenti a lanciarsi battute nelle lingue più disparate, tra lo sciabordio degli yacht ancorati alle banchise su cui brindavano grassi uomini dall’accento sovietico, distinse chiaramente il suono annacquato delle suole sui gradini alle proprie spalle. Calcolò istantaneamente il tempo d’attesa che intercorreva tra una falcata e l’altra, velocità, direzione e riconobbe a chi apparteneva quella fastidiosissima camminata senza neanche doversi voltare a dare una sbirciatina. Rimase in attesa, fissando le rondini d’acqua illuminarsi alla luce del Principato per poi infrangersi irreparabilmente sul cemento degli attracchi. Sperò per qualche secondo che uno schizzo lo avvisasse di un tuffo imprevisto, ma certe entrate in scena riuscivano perennemente a quella schifosa rana. Sarebbe stato di gran lunga più facile convincere una guardia di Buckingham Palace a sorridere, piuttosto che vedere quell’idiota scivolare su una pozzanghera e volare in acqua.
«Se alzassi il tuo adorabile sederino da terra, mon chéri, potrei offrirti un sex on the “beasch”…» propose fermandosi in piedi alle sue spalle.
«Ficcatelo dove sai tu il tuo sex on the beach!» sbottò prontamente, ripromettendosi di prenderlo a calci.
Francis si abbandonò per qualche istante a una risata, lasciandola perire lentamente con un lieve soffiò nasale. Si avvicinò ancora di qualche passo e Arthur serrò la presa attorno alla bottiglia di scotch – tra l’altro di pessima qualità, a contro prova di quanto orribile fosse quella settimana – pronto a sfruttarla a proprio vantaggio. Percepì la figura del francese accovacciarsi a pochi centimetri dalla sua schiena, un mormorio tra l’intenerito e l’irrisorio gli giunse alle orecchie facendolo irrigidire.
«Come siamo nervosi sta sera… quanto abbiamo bevuto?» cantilenò, accarezzando con finta distrazione la curva lombare della colonna da sopra il trench.
«Fuck you! Fuck you, dirty french bastard!» ringhiò, voltandosi e afferrandolo malamente per il bavero della giacca, pronto a strozzarlo.
Francis si esibì nuovamente in una risata, facendo sussultare il petto sotto la camicia sapientemente sbottonata per un terzo.
«Oh trés bien! Siamo al livello rosso! Questo vuol dire che al prossimo sorso di quella tua orrida bevanda mi chiederai di fare l’amour per tutta la notte!» gioì, piegando con ingenua malizia il capo biondo su una spalla.
«O ti pianterò nell’occhio quell’ombrellino da cocktail che porti nel taschino.» avvertì gelido, mentre un ghigno gli deformava per qualche secondo le labbra.
L’altro parve considerare seriamente un’eventualità del genere, indeciso sulla gravità della situazione decise di non rischiare limitandosi a un lieve broncio.
«Preferisco la mia versione, se permetti…» borbottò contrariato.
L’inglese mollò la presa esasperato, un sospiro incredibilmente simile a un ringhio lo accompagnò, mentre afferrava lo scotch e si alzava dalla banchina. Francis lo imitò poco dopo, decidendo di seguirlo verso l’hotel in cui alloggiavano.
Risalirono la breve scalinata che separava il boulevard dal camminamento portuale, flotte di turisti asiatici armati di macchine fotografiche continuavano a far scattare gli obiettivi immortalando le luci riflesse della capitale. Camminarono in silenzio, districandosi tra visitatori occasionali e gruppi di ricchi impresari bofonchianti squallide conversazione prive d’anima, nella mera speranza di costruire siparietti più miseri e lerci di quanto non fossero loro stessi. Grattacieli dalle altezze modeste s’issarono lenti lungo le pareti, mentre scogli facevano capolino oltre le balconate e auto correvano su per le vie. Il suono dei motori li avvolse completamente quando la galleria si chiuse sopra le loro teste, si accostarono con finta casualità, mentre le luci di Montecarlo filtravano tra gli archi a strapiombo sul golfo.
«A quanto ammonta il contentino che ti passa la tua nuova amica?» chiese con disinteresse, ma la voce venne fuori raschiante e il tono parve incrinarsi greve sull’ultima parola.
Si diede mentalmente dello stupido per aver pronunciato una frase simile.
Non era una sua prerogativa nascondersi in certi giochetti, solitamente preferiva una condotta misurata, priva di sotterfugi. Quelle sciocche allusioni non gli appartenevano e aveva tutta l’intenzione di seguire pienamente il suggerimento, supplica, di Ludwig riguardo all’evitare inutili scontri o battibecchi che potessero nuocere all’andamento del colpo, ma il bisogno di una risposta gli stava divorando il fegato e di stare a guardare ne aveva piene le scatole da troppi mesi ormai.
«Abbastanza da farne un’assicurazione per tutti…» il cielo del Principato tornò a far capolino sopra le loro teste «… e non è una mia amica, ma una gentile conoscente.» precisò con nonchalance.
L’urlo furioso che si propagò nella mente del britannico gli fece rimpiangere di non aver tenuto come arma contundente quella bottiglia di scotch gettata una decina di minuti prima. Avrebbe potuto usare la pistola a canna lunga nascosta sotto il trench, magari usufruire del silenziatore, ma il cadavere avrebbe destato comunque l’attenzione di qualcuno e non aveva alcuna intenzione di allarmare la polizia con un omicidio inspiegabile in pieno centro.
«Una delle tante con cui approfondisci i rapporti, suppongo.» sibilò velenoso.
L’idea di sparargli diveniva ogni minuto sempre più allettante.
«Arthùr se continui di questo passo finirò per pensare che ti sono mancato!»
L’inglese gli riservò una delle sue peggiori occhiatacce, mentre l’altro si abbandonava a una risata talmente divertita da costringerlo per un istante a trattenere una mano sul fianco.
Provò l’inspiegabile desiderio di comprendere come avessero fatto i suoi genitori biologici a concentrare in un simile essere tutte le più deprecabili caratteristiche del genere umano. Era incredibile come riuscisse a fargli perdere i nervi con qualsiasi frase gli uscisse dalla bocca, incomprensibile come avesse potuto tollerarlo sin dagli anni dell’orfanotrofio, persino più oscuro come avesse fatto ad andarci a letto per altrettanto tempo.
Si morse il labbro inferiore prendendo coscienza dei suoi stessi pensieri e avvampando pericolosamente.
Quella reminiscenza non avrebbe neanche dovuto sfiorare la sua mente, non dopo tutte le considerazioni fatte in quei sette mesi, non dopo le decisioni che aveva preso. Quelli erano stati eventi occasionali, dettati dall’alcool a volte, dalla stanza che condividevano in altri, dalle mani di quell’idiota decerebrato, incapaci di non palpare qualsiasi cosa o persona gli capitasse a tiro.
Allungò improvvisamente il passo ritrovandosi quasi a marciare su per il viale, irritato. Francis lo seguì con calma, in un silenzio di cui il britannico si accorse troppo tardi e che gli provocò una spiacevole fitta allo stomaco.
Sapeva che da quell’incontro non sarebbe venuto fuori nulla di buono, nulla che quantomeno giovasse al suo stato psicologico, perché su quello fisico avrebbe potuto tenere persino una conferenza internazionale sui pro e contro. Aveva sperato che dopo tanto tempo quell’intollerabile macigno che fluttuava nel suo torace fosse sparito. Per un paio di settimane, grazie al lavoro, si era persino dimenticato di maledirlo prima di dormire, ma alla fine le cose non erano andate come sperava e la consapevolezza di non sapere quale sciocchezza stesse compiendo in chissà quale parte del mondo, lo aveva sfiancato sotto ogni punto di vista. Non che gliene importasse qualcosa se quel francese maniaco e incapace ci rimetteva la testa da qualche parte, semplicemente voleva ritrovarselo davanti per prenderlo a pugni e rinfacciargli quanto fosse uno stupido ciarlatano capace solo di gracidare parole vuote. Giusto per quello.
Continuarono a camminare distanziati per parecchi minuti, alle luci dei ristoranti e locali sul lungomare si aggiunsero ben presto quelle della lieve collina su cui sorgeva Place du Casino. Auto lussuose presero a sfrecciare su per la strada, scarrozzando in giro proprietari dagli abiti sartoriali di fatture pregiate e donne dai collier abbaglianti. La sfera d’acciaio posta al centro della piazza pareva fungere da riflettore per il complesso che la sera seguente avrebbero dovuto rapinare, una gran folla di gente ai suoi piedi continuava a scattare photo bloccata dall’accesso riservato del casinò.
Nuovamente trovò equilibrio pensando al reale motivo per cui si ritrovava a gironzolare per Montecarlo, ignorando quella fastidiosa camminata alle proprie spalle. Diede una veloce occhiata al Grand Casino, osservando con attenzione gli addetti alla sicurezza posti subito dopo le porte d’ingresso e la volante della polizia sapientemente acquattata sul lato ovest della struttura.
«Passato una bella serata Mr. Baskerville? » chiese il concierge dell’hotel premurandosi di aprirgli la porta.
Accennò un veloce gesto del capo con il sorriso più falso che riuscisse a stampare sul proprio viso, prima di risalire l’ultimo gradino, inoltrarsi nella hall e inforcare immediatamente l’ascensore appena giunto. Premette da sé il pulsante del proprio piano, il ragazzino sbarbato che vi stava perennemente chiuso all’interno si rannicchiò in un angolino riconoscendolo. Le grate dorate si chiusero con un movimento assopito, mentre la figura del francese imboccava con disinvoltura le scale con un sorrisetto inquietante. L’ansia lo colse di sorpresa, mandando in fumo anche l’aplomb di cui sempre si era vantato onorando la sua amata madrepatria.
Prese a battere la suola del mocassino con ineducata insistenza, i bottoni luminosi, indicatori dei piani, si susseguirono a ritmo sostenuto accompagnando l’ascensore nella propria ascesa. Quando anche quello del quarto piano si fu illuminato, le grate si aprirono fiacche sul lungo corridoio rivelando una sequela infinita di camere dalle porte della medesima fattura. Uscì dopo l’ennesimo cenno del capo e si precipitò verso la porta su cui a caratteri dorati era impresso il numero 143, passi lontani giunsero dalla parte opposta ove sorgevano le grandi scale della hall. Sentì la mente annebbiarsi pericolosamente e il nervosismo montare senza alcun controllo quando la serratura scattò lasciandolo passare. Chiuse la porta alle proprie spalle con un sonoro tonfo, dopo una fugace occhiata a quella attigua, un sospiro più simile a un ringhio si liberò dal suo petto non appena l’oscurità della camera lo ebbe accolto. Si volse a guardare rissoso il passaggio per la 144, rimase a fissarlo con i pugni serrati per quelli che ad Arthur parvero decenni, poi si staccò dalla parete e si avvicinò all’armadio lì accanto. Ebbe l’impressione di avere il viso in fiamme quando richiuse le ante e lo specchio rifletté la sua immagine nuda per un misero istante. L’ennesimo ringhio frustrato lo accompagnò sino al bagno e fin dentro il box doccia. L’acqua bollente in altre occasioni probabilmente lo avrebbe rilassato, aiutato a superare lo stress intrinseco al lavoro che doveva compiere ogni giorno, in quel momento però, non faceva che innervosirlo più di quanto non fosse già. Passò più volte la mano bagnata sul viso, scostando le ciocche flosce dagli occhi, si morse il labbro con tale forza da farlo sanguinare quando la porta del bagno si aprì lasciando defluire un po’ del vapore accumulato nella stanza.
Quel maniaco, depravato, viscido e imbecille era capace solo di quello: strusciarsi, ciarlare a vuoto di amore e amore, strusciarsi e blaterare ancora d’amore. Per carità, aveva una mira invidiabile se gli si dava in mano un fucile da franco tiratore, ma era comunque paragonabile a uno di quegli animaletti limitati, dal cervello sottosviluppato, capaci di compiere bene solo poche azioni. Quella era solo l’ennesima prova alle sue teorie, un altro motivo per dar credito alla rabbia di quei mesi passati senza averlo tra i piedi a infastidire e raccontare fandonie sull’amore.
Rimase ad ascoltare il ticchettare soporoso dell’acqua sulle piastrelle finché il francese non lo accarezzò sulla schiena fradicia, lì ove venti minuti prima lo aveva toccato sulla banchina del porto. Con un ringhio inappagato Arthur lo costrinse contro la parete scivolosa, Francis si aggrappò in fretta al box, mentre una mano dell’inglese gli conficcava le unghie nel petto e l’altra lo arpionava per la nuca imponendogli un bacio sin troppo simile a un morso.
«Arthùr…» biascicò.
«Shut up or… i kill you…»

«Su amor es una bala perdida.»



Camera 144, ore 09:24.




Scese dal letto titubante, guardando le lenzuola disfatte accanto a sé con preoccupazione.
Non ricordava neanche quando fosse riuscito ad addormentarsi dopo che quel lurido spagnolo gli aveva messo le mani addosso. Perché lo aveva fatto, di nuovo! Cominciava persino a pensare che fosse peggio di quel bacucco francese, molto peggio, notevolmente peggio. Francis almeno era spudorato, si vedeva lontano chilometri quando qualcosa di malsano gli bazzicava in testa, Antonio invece fingeva continuamente di non star facendo nulla di male e questo a Romano faceva saltare i nervi. Si era incaponito nel volerlo accanto ad ogni costo, la sera precedente aveva persino avuto l’ardire di chiedere scusa dopo averlo toccato a quel modo e solo perché lui aveva badato a mollargli una testata nascondendosi sotto le coperte per la vergogna. Ne provava così tanta al solo pensiero di essersi arreso a quelle attenzioni da fargli fiorire sulla lingua una quantità spropositata di simpatici epiteti diffamatori da fare invidia a uno scaricatore di Trastevere. Non trovava giusto che quelle cose dovessero accadere a lui, che si era sempre tenuto lontano da tipi del genere, che aveva costruito la propria vita sul fregarsene di chiunque non fosse suo fratello. Aveva commesso un errore così adesso si ritrovava tormentato da quello spagnolo e dal suo odioso modo di baciarlo, senza parlare di quelle mani che s’insinuavano nel suo pigiama sino ad afferrargli i fianchi con una tale naturalezza da disarmare chiunque…
«Bastardo!» strillò con un misto di terrore e vergogna, mentre dalla porta della camera attigua faceva capolino la zazzera castana di Antonio.
«Romano!» cantilenò con la consueta pronuncia sillabata.
«Oh Bonjour mon mignon! Abbiamo dormito bene oui?» chiese lezioso Francis, passando di sfuggita con un vassoio tra le mani.
Romano osservò per qualche istante il vuoto creatosi oltre le spalle dello spagnolo, il respiro si regolarizzò con non poche difficoltà e solo quando altre voci si aggiunsero concitate dalla parte opposta si decise a muoversi e oltrepassare Antonio – che non mancò di dargli un buffetto sulla testa –.
«Ahahah! L’eroe ha vinto un’altra partita!» osservò il ragazzone americano dondolare sulla poltrona sotto lo sguardo quasi intenerito del francese.
«Era ora che ti svegliassi, aspettavamo solo te per cominciare...»
Romano scoccò un’occhiataccia al giornale dietro di cui aveva brontolato l’inglese, sperò che la tazzina che reggeva tra le dita si sfracellasse facendogli beccare un’ustione, anche se sarebbe andato bene anche vederlo piangere per il suo preziosissimo “tea” perduto.
Odiava essere ripreso di primo mattino, non lo tollerava durante il resto del giorno figurarsi appena alzato, senza contare poi che i rimproveri di quel regale isterico aveva sempre un ché di particolarmente fastidioso.
Afferrò malamente la tazzina che gli veniva porta dal giapponese con garbo, caffè schifoso giusto per migliorare il suo già precario umore e si accasciò sullo schienale del letto singolo accanto alla finestra.
«Alfred spegni quella roba e ascolta, Carriedo stappati le orecchie e tu…» cominciò con tono imperioso Arthur, prima di scoccare la consueta occhiataccia a Francis «… tu, siediti e sta zitto.»
Romano finse di non udire la sequela apparentemente interminabile di opposizioni che seguirono quel primo ordine, tra chi si ribellava per altri cinque minuti di pc, chi strisciava su per il letto sino a Kirkland e chi si limitava a sorridere minacciando morte.
Le risse mattutine non facevano per lui, preferiva restarsene per conto proprio senza nessuno che rompesse. Senza contare poi che una sua eventuale entrata in “guerra” avrebbe scatenato Antonio e Romano non era mai stato molto certo di voler assistere a uno scontro tra lui e l’inglese. Tra quei due non era mai corso buon sangue da quanto sapeva, perché si odiassero tanto poi era un mistero e non aveva mai voluto indagare. Specie dopo aver scoperto, parecchi anni addietro, di cosa fosse capace quello spagnolo anche senza il bisogno di una pistola in mano.
«Adesso che avete finito con questo teatrino tutti quanti…» berciò velenoso Arthur, schiantando il giornale sul letto lì ove la mano del francese zampettava minacciando attacchi al suo didietro.
«La polizia non dovrebbe insospettirsi troppo data l’occasione e le precauzioni che abbiamo preso, ma è sempre bene prevenire e credo sia il caso di procedere in sequenze di singoli, tralasciando ovviamente Kiku che monitorerà i sistemi di sicurezza, i condotti e le posizioni GPS.» annunciò autorevole.
Romano gli scoccò l’ennesima occhiataccia funerea.
Quell’inglese aveva un modo di ragionare tutto suo, non che i suoi piani non andassero a buon fine, ma spesso e volentieri ruotavano su due poli opposti fatti o da fughe rocambolesche o da pallosissime attese dettate dalle eccessive precauzioni. A giudicare dall’idea delle sequenze, quella sarebbe stata con molta probabilità e con una buona dose di culo, una delle missioni che rientravano nel primo caso.
«Per primo entra l’eroe! Ahahah!» sghignazzò entusiasta accanto a lui, Alfred.
«Non se ne parla neanche. Per primo entrerà Carriedo, poi andrà Romano con Francis, quando loro si saranno liberati, andrai tu e per ultimo andrò io.» il sorriso dell’americano mutò in una smorfia.
«Tu sei troppo vecchio per far tardi.» borbottò inespressivo, in un moto d’infantile vendetta.
Romano osservò compiaciuto il viso del britannico e le svariate tonalità cromatiche che si susseguirono su di esso a una velocità inconcepibile. Sperò di vederlo esibire in una delle sue scenate più epocali, ma l’intervento di Francis lo bloccò appena in tempo perché non si commettesse una strage familiare.
«… per il caveau, Arthur-san?» la voce preoccupata del nipponico troncò definitivamente il litigio.
Romano ripensò alla tipologia di caveau e una fitta allo stomaco gli mandò di traverso persino il pranzo del giorno precedente, oltre che quell’orrido caffè che gli avevano rifilato per colazione.
Alfred e Kiku erano riusciti a infiltrarsi nella banca dati del sistema di sicurezza dell’unità di controllo del Principato, avevano scaricato qualsiasi genere di protocollo che recasse indicazioni sugli scompartimenti aurei del complesso, ma l’unico canale d’accesso alla zona restava la porta del caveau e i vari condotti aerei ed elettrici. Inizialmente avevano pensato di poterli sfruttare secondo un cliché abusato nei furti, ma si trattava di fori in cui era stato innestato un solo bocchettone di dimensioni inferiori a quelle di un topo e il piano era sfumato. Non vi avevano confidato molto neanche dapprincipio, ma scassinare un caveau e calarsi da un condotto comportavano rischi con disparità non esigue.
«Posso pensarci io se riuscite a darmi un minuto di stacco totale... » propose Francis, mentre Arthur cominciava già a scuotere la testa.
«No, tu servi sul terrazzo dell’hotel con strada e camere sotto controllo, deve farlo qualcun altro al tuo posto.»
«Posso fare entrambe le cose, se-»
«Ho detto di no! Ognuno di noi deve procedere per fasi, niente di raffazzonato o dovremmo trovare i soldi da qualche altra parte e potrebbe andarci anche peggio!» concluse.
«Allora chi lo buca quel caveau?!» sbottò Romano esasperato.
L’idea di derubare un casinò non era particolarmente pericolosa, ammesso che non si facessero beccare, ma quella di aprire una camera blindata con quel genere di allarmi non gli piaceva per nulla. Era più per le corse in auto, le sparatorie, magari anche i traffici internazionali, ma quelle operazioni proprio no. Gli davano l’impressione di trappole per topi, topi che non facevano mai delle belle fini.
Arthur Kirkland lo fissò con quanta più convinzione riuscisse a imprimere alle sue abominevoli sopracciglia.
«Tu e Carriedo.» sputò fuori quasi con un velo di rammarico.
«Io dovrei bucare quel coso?! Che cazzo ti sei messo nel tè, marijuana?!» scoppiò sconvolto, mentre Antonio s’incupiva sulla sedia lì accanto.
«I caveau non si bucano, mon mignon.» sospirò stanco il francese, passandosi una mano tra i capelli.
«Ciò non toglie comunque che Romano ed io non abbiamo idea di dove mettere le mani, amigo...»
Gli occhi dell’italiano balzarono dal viso dispiaciuto e preoccupato dello spagnolo a quello del francese, sino a quello convinto dell’isterico cui il crucco aveva affidato la missione.
«Francis vi spiegherà come fare con il minor rischio possibile, comunque per il resto ognuno di noi giocherà a un tavolo, i professionisti saranno a quelli da poker e roulette europea, quindi l’unico che ci avrà a che fare sarai tu Alfred.»
«Ahahah! Filerà tutto liscio, quanto è vero che sono un eroe!»
Romano ancora sconvolto continuò a fissarli come nel peggiore dei propri incubi.
Non riusciva a credere di essere capitato in una banda di tali idioti, non se ne capacitava, non era scientificamente possibile che nella sua vita avesse una tale sfiga. Prima quel bastardo che gli metteva le mani addosso, poi quella notizia, la prossima lo avrebbe steso, se lo sentiva.
«Io andrò a quello di Blackjack, Francis allo Chemin e Carriedo alla prima slot che Kiku riuscirà a sbloccare dalla camera. Intanto Alfred provvederà alla sicurezza del caveau e in modo che non appena la vincita alle slot sia scattata, Romano e Carriedo andranno sotto senza alcun intoppo.»
«E se l’intoppo ci dovesse essere?! Se qualcuno volesse farmi il culo, a quello hai pensato?!» ringhiò con le lacrime che premevano sugli occhi a causa del nervosismo.
«Se qualcosa dovesse andar male, ci sarà l’auto che abbiamo preso in prestito posizionata lungo la strada e Francis a tenervi sotto tiro dal terrazzo dell’hotel. Non ce ne sarà bisogno se ognuno di voi farà un buon lavoro, ma non c’è comunque da temere.»
Romano ingoiò una delle peggiori imprecazioni di cui fosse capace, solo nell’udire quel “voi” gettato lì con tale naturalezza. Continuò a guardarlo in cagnesco anche quando la discussione ebbe termine e il vociare chiassoso riprese come sempre.
Non era contrario all’accettare direttive di quel genere, sapeva di potercela fare. A volte aveva paura, forse anche troppa, ma aveva svolto ogni missione che gli era stata affidata, con intoppi, guai, imprevisti, fughe e sparatorie, ma c’era riuscito. Quella volta però, continuava a chiedersi come fosse possibile per lui imparare ad aprire un caveau nel giro di poche ore, senza una dovuta esperienza o le qualità adatte a farlo. Francis era tendenzialmente un’idiota, ma aveva il braccio più fermo che Romano avesse mai visto. Antonio e lui invece erano chiassosi per natura persino durante le missioni, forse lo spagnolo un po’ meno, ma quell’operazione non faceva proprio al caso loro. Ci sarebbe scappato l’imprevisto e gli toccava solo sperare che Kirkland avesse calcolato anche quello.
«Andrà bene, tranquillo!» lo rassicurò la voce di Antonio, un po’ troppo vicina.
Romano si ritrovò a rimpicciolire accaldato contro la testiera del letto, mentre la mano dello spagnolo si poggiava sulla sua guancia in una carezza confortante, lasciando che il pollice si soffermasse quasi per errore sulle sue labbra.
Ecco, l’aveva detto che la prossima lo avrebbe steso.








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Note dell’autrice:
- “Mint Julep”: drink associato ad Arthur, in realtà prende spunto dal cocktail che James Bond beve nel film Goldfinger… con poco zucchero.
- “Quoi”: Banchina del porto, su cui vengono legati gli ormeggi degli yacht. [fr.]
- “Beasch”: storpiatura francesizzata per l’inglese “Beach”. Si fa riferimento al noto cocktail “Sex on the Beach” e al significato del nome stesso.
- “Fuck you! Fuck you dirty french bastard!”: Fottiti, fottiti sporco bastardo francese! [eng.]
- “Oh trés bien!”: Oh molto bene! [fr.]
- “Shut up or i kill you”: Zitto o ti ammazzo. [eng.]
- “Mon mignon”: Piccolo mio [fr.]
- “Su amor es una bala perdida”: Il suo amore è una scheggia impazzita; “Despues de tanto sexo
no me pida que la olvide...”: Dopo tanto sesso non puoi chiedermi di dimenticare [esp.] – Domenic Marte, Señora.

  
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