Fanfic su artisti musicali > My Chemical Romance
Segui la storia  |       
Autore: MissNothing    29/09/2013    4 recensioni
"Gerard continuò a fissare le luci dei lampioni stradali fuori dal finestrino della macchina in cui si trovava in quel momento, pensando al fatto che non aveva idea di dove si sarebbe riparato dall'alluvione che era da poco cominciata. Fissò le luci che si appannavano nelle tante piccole goccioline colorate di cui era tempestato il vetro che lo separava di qualche centimetro dalla pioggia battente, e ci poggiò una mano sopra nel tentativo di bilanciare il suo peso prima di trovarsi col volto schiacciato contro la fredda superficie trasparente. Sospirò, il calore della sua bocca che si condensava in vapore contro il finestrino e formava un piccolo cerchio."
[In cui Gerard fa il "mestiere più antico del mondo" e Frank ha una casa discografica e troppi soldi da sprecare. Oppure, volendo, "motivi per cui non avrei mai dovuto vedere Pretty Woman" o "La fiera del cliché" uwu]
!!INTERROTTA A TEMPO INDETERMINATO!!
Genere: Angst, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Frank Iero, Gerard Way, Mikey Way | Coppie: Frank/Gerard
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

When The Sun Goes Down

-III, parallele-

 

Era passata una settimana e il fatidico lunedì era arrivato.

Gerard poteva dire con orgoglio che ormai aveva acquisito le buone maniere di un gentleman pur avendo la solita, banale vita da poveraccio.

Conosceva un ammasso ridicolo di regole tratte direttamente dal galateo sulla disposizione dei posti a tavola, ma poi a casa sua non aveva nemmeno un tavolo intorno al quale farli (ipoteticamente) sedere.

Sapeva che non bisognava dire “piacere” quando si conosce una persona, e sapeva anche che non avrebbe dovuto in nessunissima circostanza masticare la gomma, nonostante fosse esattamente ciò che in quello stesso momento stava facendo.

Tutto questo contornato da altre asserzioni completamente inutili che, probabilmente, nel giro di quella settimana il suo cervello avrebbe gradualmente rimosso. Aveva anche comprato dei vestiti decenti, quindi, insomma... anche in caso di fallimento nessuno poteva negare l'evidente impegno che ci aveva messo.

Comunque, mentre volava nel cielo in una scatoletta di metallo sospesa a non-voleva-nemmeno-pensare-quanti metri di altezza, non gli importava.

Gli importava solo di arrivare a destinazione, e quando finalmente lo fece si rese conto che non sapeva proprio cosa dire: non ebbe nemmeno il tempo di mettere piede in California, che subito Gerard pensò che fosse un posto divertentissimo.

Non per chissà quale particolare motivo, ma perché sembrava che lì avessero tutti qualcosa da fare: dal momento in cui aveva raccolto la valigia dal nastro trasportatore a quello in cui era uscito dall'aeroporto e si era guardato attorno, consapevole che la situazione non sarebbe affatto cambiata e che probabilmente glielo si leggeva in faccia che arrivava da una realtà così diversa da avercela ormai cucita addosso.

Rise.

Rise davvero, a bassa voce- non quella sarcastica e cinica risata mentale che molto spesso esprimeva sbuffando o sospirando, ma una di quelle a pieni polmoni. Rise perché pensò che forse ormai aveva una specie di marchio invisibile e gli pareva assurdo che da un giorno all'altro qualcuno potesse pretendere toglierglielo di dosso, anche con tutta la buona volontà del mondo. Rise perché semplicemente tutto quello che stava facendo non aveva senso.

Ma che ci faceva lui in mezzo a tutti i ragazzini in viaggio con le famiglie, gli uomini d'affari che stanno per concludere davvero qualcosa nella vita, tutte le vecchiette piene di botox con il toy-boy al guinzaglio? Si chiese se sarebbe riuscito a ritagliarsi un posto in tutto quello schifo sintetico e magari a renderlo un minimo suo.

Ancora più divertente, poi, era il fatto che adesso avesse uno chauffeur. Incredibile.

A quel punto gli stava venendo praticamente da sbellicarsi, perché mai e poi mai nella sua vita avrebbe pensato di trovare un signorotto della stessa taglia dell'armadio che si era venduto qualche mese prima per pagare l'affitto che lo aspettava fuori l'aeroporto con un cartello sul quale c'erano scritti il suo nome e cognome a caratteri cubitali. Un signorotto che quel cartello lo teneva bello in vista, come se fosse fiero di aspettare una persona del “suo calibro” e fosse felice di poterla scortare. Questa volta però non rise, e fu uno sforzo così forte che sentì il sangue fargli pressione nelle tempie.

C'era da dire che comunque era a dir poco impressionante e forse anche ironico (ma ironico nel senso brutto e amaro, torbido e antiomologato) che ci fosse talmente tanta gente che in quel momento stava traendo vantaggio da una farsa.

Gerard pensò che forse alla fine la verità non esiste davvero, che non siamo tenuti a conoscerla e che semplicemente scegliamo la nostra bugia preferita e ce la viviamo così come viene.

Pensò che ci poniamo in un certo modo perché è quello che vogliamo essere, è così che vorremmo apparire.

Pensò che forse non siamo mai veramente contenti con noi stessi finché non decidiamo di incarnare un qualche ideale che non ci appartiene e di essere qualcosa che non siamo, che fosse tutto un po' un'illusione per dare un senso a qualcosa che molto spesso gli sembrava solo una qualche allucinazione di brutto tipo.

Che forse anche lui era molto più contento così, perché un po' si amava, in quel momento.

Si amava perché credeva di starselo ritagliando davvero quel pezzo di individualità di cui parlava prima, e senza fare nulla di particolare poteva essere qualcun altro per una settimana.

Qualcuno che il Gerard di tutti i giorni avrebbe amato, appunto.

 

**

 

«Frank? Frank, credo di essermi perso.» Disse Gerard con voce abbastanza impanicata, senza nemmeno aspettare una conferma del fatto che l'interlocutore dall'altro lato del telefono fosse lui. Rimase immobile e imbambolato nel centro di una stanza che, a furia di girare per il corridoio avanti e indietro, ormai gli pareva di aver visto altre cinquanta volte. Si chiese se fosse effettivamente normale perdersi in una casa se inizialmente voleva solo andare al bagno, quando la risata dell'altro interruppe qualsiasi tipo di filo logico ci fosse nella sua testa. Si guardò da capo a piedi nello specchio che aveva di fronte, imbarazzato non solo per il suo senso dell'orientamento ma anche per come era stato obbligato a conciarsi.

«Dove sei?» Chiese, e Gerard riuscì a sentire chiaramente tramite la cornetta il momento in cui Frank si alzò dal letto e cominciò a cercarlo, ma non per questo si sentì più a suo agio. Il ragazzo si guardò intorno.

«Umh... c'è un pianoforte?» Provò, e capendo che probabilmente non era abbastanza, si girò a destra, a sinistra, a destra di nuovo, ma effettivamente sarebbe stato impossibile essere preciso come voleva perché il pianoforte era proprio l'unica cosa che c'era. Pareva così antico che Gerard aveva paura di romperlo anche solo a guardarlo, e insieme ad esso non c'era altro se non lo stesso specchio che poco prima aveva usato per autocommiserarsi per il suo aspetto. Sbuffò. «C'è anche uno specchio... una finestra!» Continuò, come se fosse veramente un dettaglio determinante, convinto che probabilmente era finito in una qualche dimensione parallela o qualcosa di ugualmente fantascientifico.

«Che pianoforte è? Petrof o Schimmel?» E in quel momento, mondi alternativi e altre stronzate a parte, il ragazzo pensò che forse era anche normale perdersi in una casa con più di un pianoforte e un'intera stanza dedicata ad ognuno di questi. (“E chi cazzo ha bisogno di più di un pianoforte?”, una parte del suo cervello gli suggerì di dire, ma fu abbastanza furbo e pronto a trattenere l'impulso giusto per un soffio.)

Camminò lentamente intorno allo strumento nel tentativo di capire a cosa si stesse riferendo Frank, e notò una scritta in oro sulla cassa. Per qualche strano motivo sentì il bisogno di sfiorarla con la punta delle dita, e così lo fece, in maniera quasi impercettibile. Sospirò.

«Kampiiller? Ti prego, dimmi di sì.» Domandò Gerard, ancora preso dai tasti perfettamente lucidi e il color nero pece del pianoforte di fronte a lui. Prima che potesse finire la frase si sentì rimbombare più e più volte nell'orecchio destro un rumore registrato, e fu solo dopo aver capito che forse l'altro aveva attaccato il telefono che si girò di scatto per trovare Frank appoggiato all'uscio della porta, sorrisetto tra il malefico e l'infantile e telefono ancora vicino all'orecchio.

«Cercavi il bagno?» Chiese, come se non lo sapesse già perfettamente. L'altro annuì. «Era sulla sinistra. Hai presente che ogni volta che sali al piano successivo c'è un salone, no? Ecco, da lì ci sono un corridoio che va sulla destra e uno che va sulla sinistra. Hai sbagliato lato.» Frank disse, gesticolando talmente tanto che per il ragazzo fu un po' difficile seguire le indicazioni, preso com'era dai movimenti che stava facendo con le mani.

«Sul serio, ma chi cazzo vive in un posto così?» Rispose Gerard, prendendosi qualche momento per cercare -anche solo minimamente- di mettere a fuoco nella sua mente l'immagine che si era trovato davanti quando qualche minuto prima era arrivato a casa dei genitori del ragazzo, a Santa Barbara.

Dal suo punto di vista, era piuttosto ridicolo che la gente spendesse così tanti soldi per delle case.

Certo, lui viveva in un qualcosa che poteva essere a malapena considerato bilocale, ma non stava esattamente male. Stava un po' stretto, e soprattutto i topi non erano la compagnia più piacevole di sempre, ma c'era da dire che nemmeno avere una villa a tre piani, un numero indefinito e indefinibile di saloni, una piscina, un esercito di camerieri che popolano la casa come fossero ospiti in un albergo, cinque o sei bagni e svariate collezioni di ancor più svariati (e, Gerard avrebbe aggiunto, inutili) oggetti si poteva considerare proprio nella norma.

D'altra parte, cazzo, era in California, mica in New Jersey o nei sobborghi di Manchester.

Era in California, e anche se Gerard la California l'aveva vista solo nelle puntate di 90210, una cosa la sapeva: era un posto di plastica. Di frasi fatte e sentimenti preconfezionati. Di apparenze e di tette al silicone, di sorrisi sbiancati. E che gli piacesse o meno, anche di ville sfarzose e saloni lussuosi, quindi avrebbe dovuto fare in fretta ad abituarsi all'idea per viverci anche solo una settimana.

Frank intanto se la rideva beatamente.

«Non vivono qui, ci vengono in vacanza. Forse avrei dovuto dirtelo?» Disse, e Gerard rimase talmente attonito nel pensare che no, quella che sembravano curare in maniera così maniacale non era nemmeno la loro casa, che onestamente preferì buttarsi sull'ironia.

«Già, magari.» Disse, avvicinandosi all'altro e seguendolo per il corridoio. Frank si girò giusto per sorridergli, voltandosi nuovamente per continuare a camminare. Fu una cosa quasi carina.

«Caffè?» Gli chiese, e se c'era una cosa che la vita gli aveva insegnato era non rifiutare mai un caffè gratis.

 

**

 

Diciamo che Gerard era convinto che da lì in poi la situazione sarebbe migliorata, no?

Per qualche strano motivo, il suo cervello riusciva a formulare frasi e trovare argomenti di conversazione in maniera molto più disinvolta davanti ad un caffè piuttosto che in altre situazioni, eppure in quel momento si sentiva così a disagio che nemmeno quello aiutava.

Erano seduti in un salone enorme e anche solo il minimo rumore produceva un eco degno di una caverna.

C'era una collezione di gufi di cristallo sparsa sull'enorme libreria di fronte a loro e quei migliaia di occhietti nero pece lo facevano sentire terribilmente osservato.

Le cameriere giravano a destra e a manca chiedendo ai due se avessero bisogno di qualcosa ogni due o tre frazioni di secondo, e Gerard non ne poteva più di quei tipici pantaloni pruriginosi e teneva le gambe accavallate in maniera particolarmente disagiata.

In sintesi, tutto stava scivolando pian piano in un baratro di imbarazzo e vergogna, prima che Frank -in maniera completamente inaspettata-, prendesse in mano la situazione.

«Cristo Santo, non ce la faccio più, scendiamo.» Disse, alzandosi e afferrando la tazzina di caffè di Gerard con la mano che non era occupata dalla propria. Si avviò verso un lato della casa in cui l'altro pensava di non essere mai stato. Lo seguì, ad ogni modo, e solo dopo un po' si rese conto che stava praticamente correndo.

«Puoi- puoi fermarti un secondo? I- i miei cazzo di polmoni.» Gerard disse, affannato. Frank, che intanto si apprestava a scendere di corsa quella che era almeno la terza rampa di scale, si fermò e gli sorrise, destreggiandosi manco fosse un circense di professione con le due tazzine ancora quasi piene e con ottime probabilità bollenti. Salì cinque o sei scalini, giusto per avvicinarsi un minimo all'altro, e si appoggiò contro il corrimano in attesa che riprendesse fiato. «Si può sapere che stiamo facendo?»

«Andiamo giù in cucina. Già questa situazione non è delle più gestibili di sempre, figuriamoci se poi dobbiamo fare finta di essere abituati a vivere una vita che nessuno di noi due vive.» Frank alzò gli occhi al cielo, e ricominciò a scendere scalino dopo scalino. Questa volta, però, il ritmo era sopportabile per entrambi, e qualche secondo dopo erano seduti a un tavolo di legno che sicuramente s'addiceva più ad entrambi.

«Perché la cucina qui giù?» Chiese Gerard, notando la totale assenza di finestre che indicava che si trovavano in un seminterrato. Frank, intanto, stava preparando un'intera caraffa di caffè dopo che entrambi avevano mandato già un po' troppo velocemente la misera quantità che la tazzina poteva contenere. Il ragazzo rise, come se anche lui che doveva essere abituato alle stranezze di quel posto non riuscisse ad accettarle completamente.

«Non ne ho la più pallida idea. E' come se avessero vergogna di ammettere che anche loro mangiano.» Disse, spegnendo il fornello e portando a tavola la brocca. Versò una tazza a entrambi e ricambiò il sorriso che Gerard gli stava facendo.

Poi il silenzio.

Era divertente, in un certo senso, perché entrambi erano imbarazzati e sapevano di esserlo, ma erano arrivati ad un punto in cui avevano imparato a conviverci.

Anzi, forse più che divertente forse era un po' squallido, e per fortuna Frank ci arrivò molto in fretta a quella conclusione.

«Senti, sai una cosa? E' tutto così imbarazzante! E' ridicolo, quasi. Quindi adesso ti racconto una cosa ancora più ridicola su di me e magari ridiamo un po'-» Cominciò, parlando un po' troppo veloce perché l'altro potesse effettivamente assimilare il ragionamento che doveva aver fatto Frank. «Quando avevo cinque anni, credo, mi sono incastrato la testa nella sedia. A scuola. E nessuno riusciva a togliermela da lì, e hanno dovuto tagliarla in due con uno di quegli aggeggi strani. Ho avuto una paura assurda, non hai idea, e hanno cominciato tutti a chiamarmi testa d'uovo ed è stata una cosa che mi ha perseguitato per metà della mia vita, capisci? Me lo porterò fino alla tomba.» Gerard rise, e questa volta davvero. E Frank era felice che magari per almeno cinque minuti avrebbero potuto smetterla di sentirsi obbligati a parlarsi e lo avrebbero fatto di loro spontanea volontà.

«Al secondo anno di liceo dei ragazzi mi hanno chiuso a chiave in un bagno per ragazze, e quando le ragazze hanno cominciato ad accorgersi che la porta di quello scompartimento era sempre chiusa e che da sotto la porta spuntavano delle scarpe da maschio hanno chiamato il preside, e il preside ha sfondato la porta, e ha cominciato a farmi due palle così su come si deve rispettare la privacy delle ragazze e tutto il resto, no? E mi volevano sospendere, non hai idea, finché ad un certo punto non gli ho detto: “Senta, signor Thurmer, io vorrei solo dirle che comunque a me piacciono i ragazzi e che se ero in quel bagno è solo perché suo nipote e i suoi amici mi ci hanno chiuso dentro”. E' stato così divertente, non hai la minima idea. E' sbiancato. Lo rifarei cento volte.»

«Parlando di sessualità e liceo, una volta mi è venuta un'erezione in palestra e il mio professore di educazione fisica mi ha chiamato in disparte e mi ha detto che era completamente normale, finché non era per colpa sua. Mi ero ripromesso che non lo avrei mai detto a nessuno.» Disse invece Frank, andando contro il suo stesso giuramento pur di continuare il loro botta e risposta. Sì coprì il volto per non far notare all'altro il colorito rossastro che avevano assunto le sue guance, e si rese conto che forse non era così terribile come storia ora che da “adulto” aveva avuto il tempo per metabolizzarla. Gerard cominciò a ridere così tanto che probabilmente gli sarebbero saltate le costole: era una vicenda così imbarazzante che cominciò a sentire un'ondata di vergogna nonostante non fosse lui ad averla vissuta.

«Possibile che abbiamo avuto due adolescenze così piene di disagio?» Domandò, cercando di riprendersi fra una risata e l'altra. E anche l'altro rise, e continuarono a parlarne per almeno un'ora.

Per un po' si dimenticarono del vero motivo per cui Gerard era lì.

 

**

 

Frank sospirò davanti allo specchio, aggiustandosi in maniera quasi compulsiva la cravatta che era comunque perfettamente a posto. Gerard intanto stava avendo dei seri problemi con la sua, di cravatta, e cominciò veramente a chiedersi se fosse necessario indossarla. Tanto verso metà cena avrebbe semplicemente voluto toglierla e, probabilmente, una volta usciti dal ristorante lo avrebbe fatto.

Frank, ad ogni modo, notò la lotta che era in corso fra lui e quel singolare accessorio, e gli si avvicinò per dargli una mano.

«Lascia.» Disse, e in pochi secondi riuscì a fare il nodo che l'altro aspirava a fare da più o meno dieci minuti.

«La vita è una scalata.» Sbuffò Gerard, sarcastico.

«Non hai idea.» Disse Frank, riuscendo a mantenere un tono tremendamente serio ma lasciandosi prendere da un sorriso rivolto all'ignoto, e non all'uomo di fronte a lui.

Sembrava tutto nuovo, sconfinato e senza orizzonti ai suoi occhi, perché un po' si sentiva felice e magari questa felicità di cui tutti parlavano non era una cosa così stupida come di tanto in tanto si ripeteva. Magari era normale che vedesse tutto in maniera così distorta perché era felice, ed era così cretino che sperava sarebbe durato per sempre.

Era felice perché mentre aspettavano che i suoi genitori arrivassero aveva raccontato a Gerard di tutto e di più, e Gerard aveva riso davvero, in un modo così genuino che Frank si era chiesto se non lo avesse fatto per altri motivi che lui evidentemente non coglieva.

E poi Gerard gli aveva raccontato che una volta era rimasto chiuso in un bar per una notte intera perché al momento di chiusura era in bagno, e tanti altri dei suoi aneddoti di vita di strada che forse lo avrebbero dovuto far rattristare o qualcosa del genere, ma che raccontati da lui prendevano un certo tono di ilarità.

E così si erano fatte le sette e mezza e almeno Frank non si sentiva più a disagio a stare con l'altro.

Semplicemente perché adesso vedeva la parte di lui che era una persona e basta, con i suoi ricordi imbarazzanti e tutti quegli episodi di una vita che fino a quel momento non aveva mai incoricato la sua, ed era bellissimo riuscire ad umanizzarlo.

Era felice e non riusciva a capire perché.

 

**

 

«Dev'essere fantastico! E che tipo di quadri dipingi?» Linda Iero -la direttrice generale di una rivista di abiti da sposa che Gerard non aveva mai sentito nominare- gli chiese. Ma Gerard purtroppo era un po' troppo preso dall'enorme crostaceo che aveva nel piatto, e rispose con le prime -e sicuramente poco adatte- parole che gli vennero in mente.

«Oh, un po' di tutto. Arte moderna con un tocco di barocco, alle volte semplicemente quadri astratti. Mi prendo molte libertà come artista.» Gli venne un sacco da ridere, perché era lì che parlava di tutte quelle stronzate che aveva studiato alla scuola d'arte e si rendeva conto che durante quei cinque anni nessuno lo aveva preparato all'idea che prima o poi avrebbe dovuto mangiare un'aragosta davanti a della gente di altro calibro. Nessuno si era preso due secondi per insegnargli come cazzo fare a staccare le chele, cosa doveva mangiare e cosa no, nessuno gli aveva detto proprio niente e adesso era lì che parlava di tocchi di barocco davanti a due chili di pesce.

«Adorabile. Dove si trova la galleria? Frank non ci ha detto proprio niente di te.» Il suo cervello andò per un secondo in sovraccarico, e cercò di non fissare quella cosa stranissima che aveva nel piatto. Si concentrò piuttosto sul trovare una risposta, e si rese conto che erano cinque minuti che li avevano serviti e che non poteva semplicemente non mangiare. Allora si diede una regolata e rimediò ad entrambe le situazioni.

«E' ancora in fase di costruzione, quindi non risulta né sugli elenchi telefonici né su internet. Ad ogni modo è nel centro di New York, ci servono ancora alcuni fondi ma la raccolta dei volontari sta andando bene, quindi chi può dirlo. Potrebbe essere aperta domani oppure l'anno prossimo.» Si strinse nelle spalle, lanciando di sfuggita uno sguardo a Frank. Quest'ultimo sembrò approvare il mucchio di balle che stava raccontando, e gli mimò cosa fare per smembrare quello schifo che gli avevano già ordinato quando era arrivato.

D'altra parte però era una cosa fighissima, perché quando mai gli sarebbe capitato di mangiare un'aragosta?

Preso quello strano aggeggio che aveva accanto alla forchetta e incise le chele, notando qualcosa di commestibile che emergeva pian piano. Decise di assaggiarlo mentre nessuno lo guardava per confermare questa sua ipotesi, e capì di aver fatto proprio bingo. Da lì in poi non fu difficile, una volta capito il meccanismo.

«Dov'è che hai studiato?» Gli chiese in maniera molto più intimidatoria il padre di Frank, che faceva un altro lavoro piuttosto complicato che Gerard non aveva ben capito. Ad ogni modo gli dava un tono autoritario, e gli si addiceva.

«Alla School Of Visual Arts. Ho fatto storia dell'arte, pratica in vari campi e storia della cinematografia per puro vezzo.» Sorrise, anticipando quella che probabilmente sarebbe stata la prossima domanda colma di diffidenza. Anthony si girò verso il figlio, sorridendogli.

«Abbiamo degli amici che insegnano lì, giusto Frank?»

«Mh-mh.» Annuì il ragazzo, che intanto era in procinto di buttar giù il quinto bicchiere di vino rosso della serata. Gerard non aveva nemmeno avuto il coraggio di toccare il suo, e quando Linda glielo fece notare per poco non gli si raggelò il sangue nelle vene.

«Oh, io non bevo.» Rispose, sorridendo aggiustandosi una ciocca di capelli dietro l'orecchio.

«Vuoi che ti faccia portare dell'acqua? Dovresti proprio insegnare a mio figlio.» Disse, lanciando un'occhiataccia a “suo figlio”. Quest'ultimo intanto sembrava entrato in una dimensione tutta sua, e Gerard era effettivamente tentato da quel vino perché un po' gli sarebbe servito calmare i nervi come aveva fatto Frank.

«Se non è un problema, ovviamente. Grazie mille.» Sorrise, e Frank fece la stessa cosa prima di fargli l'occhiolino e scambiare il suo bicchiere vuoto con quello ancora colmo di vino che il ragazzo aveva davanti. Linda lo fulminò con lo sguardo, e Gerard pensò che forse avrebbe dovuto appoggiarla in quella sua crociata anti-etilica, giusto per entrare un po' nelle sue grazie.

«Frank...» Lo riprese, stesso tono di una moglie esasperata al settimo anno di matrimonio.

«Gerard.» Replicò l'altro con un cenno del capo, come se lo stesse giusto salutando. Gerard notò che era veramente entrato in quella fase in cui non lo poteva più definire un po' brillo, perché era proprio partito: aveva questo sorrisone stampato in faccia che il ragazzo pensò sarebbe rimasto lì per sempre, se ne stava seduto in maniera scomposta persino per i suoi standard e si guardava intorno come se cercasse qualcosa.

«Frank!» La madre lo riprese, tono completamente diverso da quello che aveva usato il ragazzo poco prima. Gli diede una leggera gomitata contro il braccio, così subdola che sembrò quasi casuale, e Frank si rimise a sedere dritto. Strizzò gli occhi, probabilmente per il mal di testa, e con le dita cercò di massaggiarsi le tempie. Gerard si stupì dell'impassibilità del padre, che in realtà gli era parso un tiranno, e decise di fare qualcosa prima che tutto prendesse una brutta piega.

«Se vuole lo riporto a casa.» Si offrì.

Venti minuti dopo stava aiutando Frank a salire su una limousine.

 

**

 

…............Non so veramente cosa dirvi.

Potrei mettermi a dire che sono stata impegnatissima, che ho vissuto a pieno l'estate, che ne so, potrei dirvi veramente un milione di cose.

Ma prendere per il culo la gente non mi piace, quindi in tutta onestà vi dirò che non ho avuto proprio niente se non un blocco assurdo.

Ho riscritto questo capitolo almeno tre volte. L'ho iniziato in un centinaio di modi e non me ne piaceva uno, non sapevo veramente che fare... quindi ad un certo punto ho deciso di lasciar perdere per un pochino e vedere cosa succedeva. E' saltato fuori che in realtà questo “pochino” si è rivelato essere tre mesi (credo, non ho avuto il coraggio di controllare), e adesso sono qui che aggiorno.

Eheh.

Ciao <33333333333

Devo dire che dopo averci buttato sangue, sudore e metaforiche lacrime sono abbastanza soddisfatta.

Il titolo del capitolo è “parallele” per via della doppia vita di cui parla.

Ci sono dei riferimenti a frasi dette da Marilyn Manson da qualche parte, Thurmer è il nome del direttore del Pencey Prep ne “Il Giovane Holden” e la storiella della sedia è un triste e traumatico aneddoto riciclato dalla vita della sottoscritta. L'asilo è stato un periodo buio.

Non ho risposto prima alle recensioni perché era come se già sapessi che mi ci sarebbe voluto più tempo, quindi ho pensato di avvisarvi dell'aggiornamento tramite risposta! :)

Se qualcuno è disposto ancora a leggere, un commento sarebbe più che apprezzato <333

Grazie mille per la pazienza, se siete arrivati fin qui o se avete anche solo aperto il link al capitolo, vi prometto che questa volta proverò a rientrare in dei tempi più accettabili!

XO <3

 

 

   
 
Leggi le 4 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > My Chemical Romance / Vai alla pagina dell'autore: MissNothing