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Autore: Katie Who    02/10/2013    1 recensioni
"In quegli occhi c’era l’universo, e proprio come in esso, un enorme buco nero al centro, ad inghiottire tutto. Perché lei finiva sempre lì? Perché nonostante i suoi sforzi, non riusciva ad emergere da quella macchia nera? Poteva vederci il mondo in quegli occhi in cui ora si specchiavano i suoi. Chissà come appariva lei vista da lì. " - dal secondo capitolo.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: John Watson , Molly Hooper, Sherlock Holmes , Sig.ra Hudson
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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“Sai di essere stata veramente molto imprudente con quella trasfusione?” – tuonò all’improvviso lui, facendola gelare sul posto. Realizzò subito che doveva aver sentito ogni sillaba di quello che lei e Watson si erano detti, e come se fosse la peggiore dei criminali cercò di riportare alla mente qualunque cosa di sbagliato potesse aver detto. Non riuscendo a formulare alcuna risposta,,il silenzio che si creò fu presto fuori luogo, e portò Sherlock a girarsi di scatto verso di lei. Per fortuna gli stava dando le spalle, o era certa che quel singolo sguardo l’avrebbe demolita. Riusciva a sentirne il peso e l’intensità sulle spalle, la stava rimproverando.
“Non solo non hai risolto la mia carenza di emoglobina, ma hai pregiudicato al tua salute, rischiando gravi conseguenze.” – continuò lui risoluto. – “Ho sempre pensato che fossi una professionista, non un’irresponsabile.” – Perché un semplice, grazie, non poteva uscire da quella bocca sottile e velenosa. No, Sherlock Holmes doveva sempre metterla in ridicolo, ricoprire ogni frase di spine così che per lei fosse sempre un dolore sentirlo parlare. Forse voleva infrangere il suo limite di sopportazione, perché altrimenti non c’era altra spiegazione. Distruggerla e poi ricostruirla a suo piacimento, senza nemmeno rendersene veramente conto, dato che di sentimenti ed affetto, lui, non capiva veramente nulla. Tortura, infinita tortura.
“Lo vedo dal ritmo del tuo respiro, dalla rigidità dei muscoli e dalla posizione che non stai dormendo.” – rincominciò lui, probabilmente infastidito dal suo silenzio – “Considerando l’attenzione che hai messo nel mantenerti ad una distanza eccessiva da me, non avresti mai assunto una posizione  del genere, con il rischio di rotolarmi addosso. Infine, quei tuoi…  s e n t i m e n t i, ti staranno sicuramente disturbando, impedendoti di rilassarti.” – concluse, nuovamente lui. E come al solito la sua analisi era perfetta. Odiosa, ma perfetta.
Molly tirò un sospiro, sentiva di volersi arrabbiare, ma non riusciva a farlo con la violenza desiderata, per la spossatezza - “Hai ragione Sherlock… non sto dormendo.” – ma doveva rispondergli. Sentiva ancora il sangue pulsarle prepotentemente nel lobo frontale, e le mancava completamente la forza nelle gambe, ma poteva parlare, e lo avrebbe fatto. “Se proprio devo essere sincera, hai ragione veramente su tutto.” – continuò, girandosi verso di lui in modo da poterlo guardare. - “Sono stata imprudente, ho fatto una scelta rischiosa. Ma sai una cosa? Tu sei vivo, e stai bene, e questa è l’unica cosa, che inspiegabilmente, ha importanza per me!” – il suo interlocutore rimaneva impermeabile, non aveva avuto alcuna reazione. – “Avrei dovuto medicarti e fermarmi a quello, mettermi a pregare che Dio ti salvasse, sperare di non vederti morto, ancora, di non doverti seppellire, ancora. Questa era la scelta più logica, non aveva senso rischiare di compromettere la mia salute per te, e vuoi sapere il perché? Perché forse questo è quello che avresti pensato tu, trovandoti al mio posto. Ma per me è diverso, per me tu verrai sempre prima, la tua esistenza è unica, quello che fai è unico, io sono una Molly Hooper come altre milioni, ma ho avuto l’occasione di salvare l’unico Sherlock Holmes, e non potevo rischiare di perderti, solo perché la scelta che volevo fare non era quella più logica, lo capisci? Probabilmente no. Perché anche se si è trattato di un solo punto percentuale, ma con il mio rischio ho aumentato le possibilità di una tua ripresa, beh, ecco Sherlock, quella per me è, e sarà sempre la scelta da compiere.” - Quando si accorse di star veramente dicendo quelle cose a voce alta, e proprio a lui, era ormai troppo tardi. Un blackout le aveva sconnesso il cervello dall’asse cuore-bocca, e aveva lasciato solo questi ultimi in comunicazione. La verità le era scivolata fuori, non solo dalla bocca, ma anche dagli occhi, inzuppandole completamente il cuscino, e le tremavano le mani. Avrebbe sempre fatto tutto quello che era in suo potere per aiutare Sherlock, che fosse fingere nel suo lavoro, fare gli straordinari, o rischiare la vita, e poteva continuare a sopportare la sua indelicatezza, ancora ed ancora, perché questo significava che ce l’aveva fatta, che non lo aveva perso che era stata all’altezza di ciò che lui si aspettava da lei. Probabilmente, il più grande fra i problemi che c’erano nel loro rapporto, era proprio questo.
Era a corto di fiato, e si ritrovò ad annaspare come se avesse corso la maratona. Stava ancora lì immersa nel letto, dove Sherlock era in convalescenza. Lo aveva fissato per tutto il tempo, senza veramente guardarlo, ma non le sembrava minimamente colpito o sorpreso da quello che aveva appena detto. Sicuramente lui sapeva già che la sua risposta sarebbe stata quella, non era poi una cosa così originale. In quegli occhi c’era l’universo, e proprio come in esso, un enorme buco nero al centro, ad inghiottire tutto. Perché lei finiva sempre lì? Perché nonostante i suoi sforzi, non riusciva ad emergere da quella macchia nera? Poteva vederci il mondo in quegli occhi in cui ora si specchiavano i suoi. Chissà come appariva lei vista da lì. Piccola, insignificante e prevedibile molto probabilmente. Sarà stato più o meno tardo pomeriggio, di quello che doveva essere il suo primo weekend di riposo da una vita, e lei era stanca come mai nella vita. Si era rigirata a guardare il soffitto della camera, mentre Sherlock era rimasto immobile con il viso rivolto verso di lei, non parlava, a stento poteva sentirlo respirare, ma non c’era altro che avesse da aggiungere. Lo avrebbe lasciato nel suo mondo di riflessioni, e lei avrebbe colto l’occasione per cercare di recuperare qualche ora di sonno. Notò che sul comodino di sinistra, solitamente vuoto, qualcuno aveva sistemato le cose che lei aveva rovesciato a terra nella frenesia dell’operazione. “Watson” pensò. Vide il libro che aveva cominciato a leggere mesi prima, e mai concluso: “L’incontro terapeutico con il paziente psicotico.” Era stata una scelta profetica, chi più di lei viveva quella realtà. Lo riprese accorgendosi che il segnalibro era andato perso, e ricominciò la lettura da un punto a caso che ricordava.
“Molly?” – Sherlock parlò, dopo circa, tre quarti d’ora di silenzio.
Lei piegò l’angolo in alto a sinistra del libro per segnare il punto, e si girò verso di lui per ascoltarlo. – “Che c’è Sherlock?”
“Perché credi che la tua vita abbia meno valore della mia?” – i suoi occhi erano diventati di un azzurro chiaro come quello del cielo, erano limpidi e sinceramente dubbiosi. Lei si stupì di quella domanda, ma non si sottrasse alla risposta.
“Perché tu sei unico Sherlock.” – se tutto questo avesse dovuto dirlo due anni prima, probabilmente sarebbe morta prima di riuscire a pronunciare la prima sillaba. Ma averlo perso per un anno, le aveva fatto assaggiare un pizzico di vita senza di lui. E si, era stata più calma, serena, e regolare che mai, era stata una vita ordinaria. Ma lei si era innamorata di un uomo straordinario, e da questo non si torna mai indietro, lui l’aveva cambiata. E dato che sapeva sempre tutto, non era più necessario che fingesse di non provare quello che provava. Lo ammirava, lo idolatrava e lo stimava, e se lui glielo chiedeva lei glielo avrebbe ripetuto fino a fargli sanguinare le orecchie.
“E perché credi che io non avrei fatto la tua stessa scelta?” – chiese ancora lui. In quella situazione sembravano una madre con un figlio petulante che ha bisogno di sapere il perché di ogni cosa. Adesso era lei che si trovava a pensare a quanto fosse ovvia la risposta.
“Perché è quello che hai detto. E’ stata una scelta imprudente che non ha risolto nulla.” – disse appoggiando definitivamente il libro sul comodino e aiutando lui a sedersi più comodo sul letto. – “Devo cambiarti di nuovo la medicazione.”
“Aspetta.” – la interruppe lui, fermandola dall’andarsene dal letto – “Ho detto che è stata una scelta imprudente, non che io non l’avrei fatta. La conclusione, che a parti invertite, io avrei preferito preservare la mia salute piuttosto che dare a te una speranza in più, è stata una tua deduzione. Se vogliamo sintetizzare, mi hai appena dato dello spregevole egoista, e se io fossi un sentimentale, a questo punto dovrei aspettarmi delle scuse, giusto?”
Ad ogni parola che Sherlock lasciava uscire, Molly diventava sempre più confusa. Com’era possibile che stesse rigirando in quel modo la frittata? Lei era sicura di avere ragione, eppure ora, sentiva di dovergli davvero delle scuse. – “Ho detto così perché so di non contare per te, tanto quanto tu conti per me.” - si affrettò a concludere sperando che la cosa mettesse un taglio a quel dibattito.
“Credevo di averlo già detto una volta, Molly…” – sospirò evidentemente scocciato – “Tu conti.”
Lei deglutì rumorosamente. Era vero, glielo aveva già detto. E sarebbe stato il giorno più bello della sua vita, se poi lui non le avesse esposto l’ingegnoso piano per simulare la sua morte. Scivolò via dal letto prima che il rossore le invadesse completamente il viso. Lo stava facendo di nuovo, stava leggendo in quell’affermazione qualcosa che non c’era, la stava interpretando nella direzione che più le sarebbe piaciuta, aveva fatto lo stesso errore un anno prima, sperando che qualcosa sarebbe cambiato. Il fatto che, adesso, avesse nuovamente ribadito quel concetto, facendo anche riferimento al passato, scatenava in lei un’emotività incontrollata. Prese delle garze pulite per sostituire la fasciatura, ma esitò qualche istante in più per recuperare del tutto la calma. Sapeva che Sherlock spesso usava dei stratagemmi, come la misurazione del battito, per svelare l’agitazione del suo interlocutore, e se avesse preso la sua in quel momento, le avrebbe diagnosticato un imminente infarto. Tornò in camera accendendo la luce, per smorzare quell’atmosfera soffusa ed ombreggiata che si era andata a creare man mano che l’illuminazione proveniente dalla finestra diminuiva. Lanciò una rapida occhiata verso la strada prima di accostare le tende e notò che stavano iniziando ad accendersi i lampioni. Quando si voltò, trovò Sherlock perfettamente in piedi, con le braccia aperte, pronto a ricevere la medicazione. Avrebbe voluto fotografarlo. Se gli avessero appeso al collo un cartello con su scritto “FREE HUGS”, probabilmente quella scena sarebbe rimasta nella storia dell’Inghilterra. Lei sicuramente non avrebbe mai dimenticato quello spettacolo, era così buffo che non trattenne una risata.
Cosa c’è? Sto collaborando. Watson ha detto di non essere me.” – intervenne subito l’uomo.
“Si, si va benissimo, rimani fermo così!” – disse lei, ancora divertita. – “Devo prima disinfettare la ferita, e poi ti metterò la garza.”
Per il momento non sembravano essersi formate infezioni in prossimità dei punti, e la pelle presentava solo dei leggeri rossori nei punti di frizione, ma non era irritata dal continuo contatto con la garza. Il suo colore chiarissimo, le aveva suggerito l’idea che fosse anche molto delicata, ma invece constatò che si trattava di un tessuto molto più resistente ai traumi di quel che avesse mai potuto immaginare. Ormai aveva preso dimestichezza con il cambio della medicazione e svolgeva l’operazione con sicurezza e velocità, tutte cose che, data l’imbarazzante situazione, tornarono molto utili per finire in un battito di ciglia. Quando ebbe finito, Sherlock le chiese dove Watson avesse messo i suoi cambi. E, dopo essersi raccomandata più volte, sul prestare attenzione ai movimenti ed il non bagnare la ferita, lo vide scomparire in bagno con la borsa. Iniziò ad avvertire una leggera fame, e dirigendosi verso la cucina iniziò a pensare a cosa poter cucinare per cena. Anche Sherlock doveva essere affamato, ma non ne aveva fatto parola. Quando finalmente uscì dal bagno, poté ammirare il suo look da casa, e ne apprezzò la banalità. Una maglietta a maniche corte e dei pantaloni della tuta, avevano il potere di rendere anonimo perfino il grande Sherlock Holmes. Lo vide rifare il letto su cui aveva passato la giornata e poi infilare i pantaloni nel borsone ed appoggiarlo al lato della porta.
“Che fai?” – le chiese sedendosi con attenzione sulla poltrona del salotto.
“Cucino.” – rispose criptica – “Li darai a Watson da lavare?” – chiese indicando con un leggero movimento della testa, la borsa che aveva appena appoggiato.
“Gli dirò di portarli in lavanderia. Cosa cucini?” – era strano che non avesse interrotto la loro conversazione, ma le avesse rivolto una ulteriore domanda. Probabilmente stava cercando di seguire il più precisamente possibile l’indicazione di Watson sul non essere se stesso, ma era davvero strana la normalità su di lui.
“Dadini di pollo al limone, con contorno di patate bollite.” – la dieta del malato continuava e tanto valeva che la seguisse anche lei. L’uomo non le rispose, e dal quel silenzio dedusse che almeno non stava per fargli mangiare qualcosa che potesse ucciderlo.
“Hai fatto la spesa da sola stamattina?” – chiese dopo qualche minuto di silenzio.
“Si, sono uscita solo pochi minuti, mentre eri ancora incosciente.” – mentì, era stata fuori abbastanza a lungo, e aveva decisamente camminato a vuoto per parecchi minuti.
“Avrebbe potuto venirti un mancamento in strada.” – ecco dove voleva andare a parare con tutto quel discorso, voleva di nuovo discutere della sua imprudenza, incapacità, e sventatezza.
“Perché non torni a letto, mentre io finisco di cucinare? Dovresti rimanere steso.” – non aveva alcuna possibilità di evitare quell’argomento, ma provare non le costava nulla. Era un tentativo talmente goffo e smaccato che sicuramente Sherlock l’avrebbe incastrata, nuovamente, in una discussione. Per questo quando non sentì alcuna risposta, e si girò a controllarlo. Era ancora lì sulla poltrona, guardava fuori dalla finestra, di nuovo assorto nei suoi pensieri. “Per fortuna” pensò rilassandosi all’istante. In qualche modo era riuscita a cavarsela. Quando ebbe finito di pulire il pollo e farlo in piccoli pezzi, cominciò a sistemare la tavola, realizzando che avrebbe cenato con Sherlock, per la prima volta in vita sua. Una vera cena, non stuzzichini presi alle macchinette in laboratorio. Non che non le piacessero le loro abitudini, ma mangiare insieme senza essere circondati da residui organici di ogni tipo, era bello. Posizionò con cura tutto il necessario e continuò a preparare la cena, decidendo anche di aggiungere dei fagiolini come contorno. Non condì quasi nulla per paura di farlo troppo o troppo poco, e scoraggiare l’uomo dal mangiare.
“Sherlock?” – lo chiamò una prima volta. – “Sherlock, se hai fame… beh la cena è pronta.” – disse aggiustandosi la coda di cavallo. Erano le ventuno passate, il tempo stava volando, e lui era stato in silenzio per quasi un’ora e mezza. La testa le dava ancora dei problemi, e si sentiva nel complesso molto debole, non vedeva l’ora di potersi addormentare. Anche per quello quando Sherlock si voltò verso di lei, ribadì l’invito a sedersi in fretta al tavolo, con una smorfia del viso.
Non si dissero molto durante la cena. Giusto qualche domanda sul cibo. Erano due adulti, impacciati come dei bambini. Al momento di sparecchiare, Sherlock la invitò a lasciar fare a lui, e in pochi minuti non solo ripulì la tavola, ma lavò anche tutti i piatti. Non sapeva che fra i suoi talenti ci fosse anche quello del casalingo modello. Tornarono entrambi verso la camera e dopo una veloce alternanza nell’uso del bagno, Molly prese una coperta ed il cuscino dirigendosi verso il salone.
“Dove vai?” – la bloccò Sherlock.
“A dormire.” – rispose lei.
Per tutta risposta l’uomo si parò fra lei e la porta della camera, accennando anche una leggera corsa. – “Devi dormire con me.” – disse risoluto, causando in lei un brivido. – “Se John scoprisse che ti ho lasciato dormire sul divano, non avrei più un giorno di pace. Quindi prendi posizione.”
“Non dirò niente a Watson non preoccuparti.” – lo rassicurò lei avanzando e cercando di passare fra lui e lo stipite. Operazione che le costò solo una sonora testata a quest’ultimo, perché Sherlock si spostò immediatamente.
“Mi sembra che tu abbia delle difficoltà nell’immagazzinare alcuni concetti. Eppure non sono difficili: Io, te, letto.” – le faceva male la testa, ed era sfinita, letteralmente, ma l’uomo di cui era innamorata aveva appena detto ciò che lei aveva sentito? La totale assenza di malizia nelle parole di Sherlock, in teoria, avrebbe dovuto impedirle di fantasticare, ma la sua mente viaggiò più svelta della sua razionalità. Tra l’altro dirle una cosa simile, a pochi centimetri dal viso sparandole quegli occhi magnetici dritti sul volto, era davvero una tortura. Se non fosse stato scientificamente impossibile, avrebbe giurato che tutti gli organi del suo corpo si fossero liquefatti. Come se non bastasse lui operò una leggera pressione sulle sue spalle, spingendola in direzione del letto, azione che lei non contrastò minimamente, troppo intenta a cerare di recuperare l’autocontrollo.
“Avanti dormiamo” - disse lui sistemandosi nel suo lato e spegnendo la grande luce della stanza, lasciando solo la piccola abat jour del comodino.
“Certo, dormiamo!” pensò Molly. Doveva averla presa per una specie di animale di peluches, priva di alcun vero istinto. O forse sapeva benissimo cosa faceva, ma era talmente repellente per lui l’idea di considerarla una donna, che non gli importava creare situazioni, quantomeno equivoche. Tenendo ancora il cuscino fra le braccia si stese a letto. Lei era raggomitolata, e completamente aggrappata al cuscino che teneva fra le braccia, lui era perfettamente disteso con le mani appoggiate sullo sterno. Sembrava un cadavere. 
La mattina dopo fu lo scampanellare di Watson a svegliarli.
“Buongiorno Molly!” – le disse il Dottore, appena entrato in casa – “Dormito bene? Mi sembra riposata.”
Realizzò di aver davvero dormito con Sherlock, e di aver preso sonno praticamente l’istante dopo aver toccato il letto – “Si ho dormito bene.” – concluse.
“Non le ha dato problemi vero?” – chiese Watson mentre appoggiava sul tavolo quella che aveva tutta l’aria di essere una scatola di cioccolatini.
“No nessun problema, ha mangiato, gli ho rimedicato la ferita, e… non ho controllato i parametri prima di andare a dormire, ma sembrava stare bene.” – disse Molly ancora completamente assonnata. – “Metto su un caffè, le va una tazza?”
“Volentieri.” – rispose Watson.
“Due, grazie.” – aggiunse Sherlock uscendo dalla camera completamente tirato a lucido.
Quando Molly lo vide, sentì il distacco fra l’arcata superiore e quella inferiore della sua dentatura. Riuscì ad evitare che lo stupore finisse, veramente, col farla finire a bocca aperta, solo perché venne arpionata dallo sguardo di lui. Completamente lucido, brillante ed interrogativo. Dormire lo aveva rimesso a nuovo.
“Non se ne parla è meglio se ti limiti ad un tè.” – sentenziò Watson senza alcuna possibilità di replica. – “Le dispiace signorina Hooper?”- disse modellando attentamente il cambio di tono da rivolgere a lei e quello precedentemente dedicato al suo amico.
“Se continua a non chiamarmi per nome, si, ne sarò davvero dispiaciuta.” -  lo riprese Molly sorridendo.
Uno schiocco, proveniente ad occhio e croce, dalla bocca di Sherlock, interruppe quello scambio di battute – “Davvero originali, dovreste uscire insieme.” – disse – “La cosa funzionerebbe perfettamente. Entrambi alla disperata ricerca di un compagno.” – eccolo di nuovo: Sherlock Holmes.
“Sherlock!” – provò inutilmente Watson.
“Che ne dici Molly? Potrebbe andare bene?” – continuò incurante lui – “Stando alle tue precedenti relazioni è chiaro che hai un debole per gli uomini carismatici e con una posizione. Purtroppo al laboratorio i migliori partiti sono tutti sposati, e tu non sei il genere di donna che funzionerebbe come amante…” – disse sedendosi sulla poltrona ed intrecciò le mani, all’altezza della ferita – “D’altra parte John, non ha grandi aspettative, sceglie sempre dei tipi piuttosto banali.”
“Oh andiamo Sherlock adesso stai diventando ridicolo!” – intervenne ancora Watson.
“Perché mai? Sto cercando di dare una mano a due amici in difficoltà!” – ribatté prontamente, e con una nota di sarcasmo, il consulente detective.
“Grazie del consiglio.” – proferì atona Molly, spegnendo il gas sotto la macchinetta del caffè. – “Se hai finito, e non ti è di troppo disturbo, controllati il tè, io vado a sistemarmi.” – disse passando fra i due uomini e dirigendosi in bagno.
Watson sospirò profondamente. - “Sai a volte mi chiedo se tu non lo faccia di proposito.” – disse sedendosi su una delle sedie in cucina.
“Ci sono molte cose che faccio intenzionalmente, ma nel dettaglio non so a cosa tu ti riferisca.” – rispose placido l’altro.
“Ferirla.” – concluse il Dottore.
Sherlock si avvicinò al piano cottura, osservando il piccolo pentolino di acqua che si scaldava. – “No, non lo faccio di proposito. Almeno credo.” – rispose mentre delle piccole bollicine iniziavano a formarsi sul fondo del pentolino increspando l’acqua in superficie. A rompere il silenzio in cui quella casa era immersa, c’era solo il fruscio dell’acqua proveniente dal bagno, ed il leggero sibilo del gas.
“Allora non dovresti dirle certe cose.” – Ma ancora prima che John finisse di parlare, lui era già volato nel suo mondo. Lo sapeva che non faceva altro che ferirla. Lo sapeva che non riusciva ad avere con lei una conversazione che superasse i tre minuti, senza che dicesse qualcosa di sbagliato. E lo sapeva, perché Molly Hooper era di un’ovvietà sconvolgente. Ogni suo errore si traduceva in qualche movimento nel corpo di lei. Aveva quasi sempre gli occhi lucidi alla fine dei loro scambi, e delle volte, molte, l’aveva vista piangere. I rapporti umani non erano la sua specialità, in principio perché non gli interessava averne, ma poi l’arrivo di John lo aveva fatto ricredere. Gli aveva aperto gli occhi su quante persone tenessero a lui, e quanto fosse bello avere qualcosa per cui sacrificarsi. Gli amici potevano fare la differenza, e anzi l’avevano fatta, fra l’essere Sherlock Holmes o Jim Moriarty. Il tè era in infusione, e Molly ancora sotto la doccia. Ci avrebbe impiegato molto tempo prima di tornare da loro, quasi sicuramente sotto i getti della doccia stava cercando di ritrovare la serenità che lui, non aveva fatto altro che turbare per tutti quei giorni. Lui e John continuarono la colazione per la maggior parte, nel più completo silenzio, tranne alcuni brevi informazioni utili per il suo prossimo ritorno a casa.
Quando Molly ebbe finito la doccia, restò ancora a lungo nella stanza, proprio come Sherlock aveva supposto. Sistemò il letto, aprì la finestra, e accumulò tutto ciò che apparteneva all’uomo sulla sedia. Si prese del tempo per fare la piega ai capelli, dopotutto era domenica, la sua domenica, quella che avrebbe dovuto passare nella più totale serenità. Probabilmente se non fosse successo nulla a quest’ora si troverebbe a guardare programmi su prodotti di bellezza. Avrebbe messo la maschera per la pulizia del viso, e magari anche passato lo smalto. Tutte cose a cui non aveva mai il tempo di dedicarsi. Non cercò di ascoltare cosa stessero dicendo i due uomini nell’altra stanza, le veniva la nausea solo all’idea di sentire nuovamente quel tono irriverente e saccente. Come se non bastasse il siparietto di Sherlock l’aveva anche messa in imbarazzo nei confronti di Watson. Legò i capelli in una coda laterale, e notò con un pizzico di soddisfazione che ormai li aveva davvero lunghi. Indossò  un abito di maglia color bordeaux e dei jeans marroni acquistati mesi e mesi prima con sua mamma, e tornò con tutta calma nell’arena. In salotto, trovò Sherlock intento nella lettura di alcuni fascicoli che doveva avergli portato Watson, e quest’ultimo alle prese con il suo celebre blog.
“Ci sono speranze di leggere della vostra ultima avventura entro la settimana?” – chiese, cercando di superare l’imbarazzo che le aveva lasciato addosso la discussione precedente.
“Appena avremo risolto il caso… Ho già in mente come strutturare l’articolo.” – le rispose lui.
“Allora non mi resta che aspettare per riuscire finalmente a capire chi ha rovinato i miei piani per il weekend!” – ribatté lei, lanciando un’occhiata ricolma di rabbia verso Sherlock, che, come se la questione non lo riguardasse nemmeno lontanamente, continuò a leggere.
“Non ha idea di quanti appuntamenti ho rovinato per la stessa ragione…” – continuò il Dottor Watson, rivolgendo anche lui un’occhiata accusatoria verso l’impassibile Sherlock.
“Quanto ancora-” – azzardò a chiedere venendo preceduta.
“Dovrà restare Sherlock qui?” – finì per lei Watson. – “Fisicamente si sta riprendendo molto bene e potrebbe tornare a casa. Ma non sono ancora sicuro che la situazione lo permetta, che ne dice se rimandiamo almeno fino a domani?” – le chiese, in realtà senza veramente lasciarle una scelta. Il caso non era risolto e Sherlock non poteva ancora andarsene.
“Dovrebbe almeno andare in ospedale per degli accertamenti, è stato pur sempre pugnalato.” – suggerì pur essendo scettica sulla risposta.
“Come le ho detto la situazione non ci permette ancora di poterci muovere liberamente, una visita all’ospedale sarebbe poco prudente.” – Watson era stato chiaro, Sherlock non doveva muoversi da lì. E lei si rassegnò realizzando che, a quanto pare, casa sua era molto più sicura di quel che aveva mai immaginato. Sicuramente se avessero chiesto aiuto al fratello di Sherlock questo gli avrebbe procurato tutta la protezione di cui necessitavano, ma l’avversità a ricorrere al suo aiuto era una delle caratteristiche del genio, e da quando era tornato era divenuta ancor più feroce. Improvvisamente Sherlock si alzò dalla poltrona e scrisse velocemente alcune frasi su un foglio che passò a Watson. L’ex militare sembrò davvero felice di quello che si trovò per le mani, ed iniziò subito a raccogliere le sue cose, farfugliando un - “Vado subito.” - Nel frattempo.
“Molly grazie dell’ospitalità e di tutto.” – continuò trafelato mentre si infilava il cappotto. – “Cercherò di tornare il prima possibile!” – disse uscendo dalla porta che Sherlock gli richiuse con poca delicatezza alle spalle. Probabilmente avevano fatto dei progressi nel loro caso. Ma non aveva intenzione di chiedere nulla a riguardo, tanto sicuramente sarebbe stata liquidata con una risposta inutile. Preferì abbandonare immediatamente la stanza andando a prendere il cappotto per uscire.
“Vai da qualche parte?” – le chiese Sherlock.
“Ho bisogno di prendere un po’ d’aria.” – rispose lei continuando a dargli le spalle, ed evitando attentamente di lasciar trasparire la minima emozione dalle sue parole. – “Vado a fare una passeggiata. Se ti venisse fame, il frigo è pieno.”
“Vengo anch’io.” – sentenziò lui, spiazzandola.
“Come scusa?” – chiese, stavolta volutamente alla ricerca di un contatto visivo.
“Voglio passeggiare anche io.” – ammise candidamente l’altro infilandosi il cappotto.
“Non è affatto una buona idea. I punti sono freschi, dovresti rimanere steso ed immobile il più possibile.” – spiegò lei avvolgendosi in una grande sciarpa di lana.
“Tienimi d’occhio se la cosa ti preoccupa.” – concluse aprendo la porta, e facendole segno di uscire.
Non le avrebbe lasciato nemmeno cinque minuti di tregua. Non c’era speranza. Stava andando in overdose da Sherlock, ed i risultati non sarebbero affatto stati piacevoli. E’ vero che si era ormai rassegnata all’idea che non l’avrebbe mai ricambiata, ma passare con lui tutto quel tempo, rimaneva comunque una tortura. Uscirono dal palazzo uno affianco all’altra ed una ventata d’aria fredda e secca,li investì immediatamente, facendo si che la testa di Molly sprofondasse dentro la sciarpa. Sherlock sembrava non aver avvertito l’improvviso gelo, possibile che, oltre ai sentimenti, fosse impermeabile anche ai cambi di temperatura? La cosa non l’avrebbe stupita affatto, solo la normalità stonava nella figura di quell’uomo. Iniziò a camminare in direzione di un piccolo parco che si trovava a pochi isolati da casa. Ci passava vicino tutte le volte che tornava dal lavoro, ma non aveva mai avuto l’occasione di entrarvi. Non si trattava di uno spazio verde particolarmente grande, ma era ben attrezzato, c’erano delle panchine, l’area gioco per i bambini ed anche uno spazio per tenere liberi i cani. Al centro una grande fontana circolare sulla quale piccioni ed altri uccelli si fermavano a bere. Camminarono spalla a spalla lungo i viali che percorrevano il parco, senza pronunciare una parola, entrambi troppo presi nel godersi quel momento di relax. Molly era concentrata nell’ammirare le migliaia di sfumature assunte dalle foglie che in quel periodo stavano mutando verso il classico marrone autunnale. Sherlock invece notava tutto, i suoi occhi viaggiavano come saette da un capo all’altro del suo campo visivo, non lasciando che nulla gli sfuggisse. Molly lo guardava con la coda dell’occhio e non riusciva a non chiedersi come dovesse essere quel parco per lui. Ai suoi occhi era un luogo calmo, quasi immobile, seppur pieno di vita, ma sicuramente Sherlock avrebbe potuto raccontarle e farle notare milioni di particolari a lei sfuggiti. Impercettibilmente quando si trovava con lui, tendeva a fare più attenzione alle cose, come se istintivamente si sentisse in competizione. Una competizione che non aveva luogo d’esistere, data la disparità di forze in campo, ma lo faceva, stava attenta, ascoltava e si sforzava di essere di più. Si fermarono a riposare su una panchina, la cui vista frontale era oscurata da una montagnetta verde, ma che invece garantiva una vista sgombra del cielo. Entrambi con il naso all’in su, con il grigio del cielo macchiato da qualche sporadica nuvola bianca a pitturare i loro occhi della stessa fantasia. In quelli azzurro e verdi, ibridi, di lui, il cielo si immergeva nell’incastro magnetico di quelle iridi, e ne veniva intrappolato e sconvolto, in quelli caldi e castani di lei, scivolava illuminandoli. Non guardò in alto a lungo, perché il suo sguardo era sempre più attratto da ciò che aveva affianco più che da tutto il resto, e tornò a controllare lui. Era voluto uscire e l’aveva seguita in silenzio, senza mai obiettare, nemmeno quando per tre volte aveva girato intorno alla fontana, seguendo un piccolo passerotto. Sicuramente la ferita andava pulita e disinfettata, e forse gli stava anche dando fastidio, eppure se ne stava lì, seduto accanto a lei in silenzio, con gli occhi puntati al cielo. Era bellissimo. E lei non avrebbe dovuto pensarlo, non dopo quanto l’aveva fatta arrabbiare prima, ma non poteva fermare i suoi pensieri. Inspirò profondamente alla ricerca del profumo di Sherlock nell’aria, lo sentì mischiarsi a quello degli alberi e delle piante circostanti, e se ne riempì i polmoni. Il cielo si stava scurendo sempre di più, segno evidente che sarebbe presto iniziato a piovere. Lei aveva l’abitudine di portare sempre con sé un ombrello, Londra era una città magica, ma dal tempo imprevedibile.
“Avviamoci verso casa.” – gli disse alzandosi dalla panchina e cominciando a camminare. Lui la seguì, e in quell’attimo notò sotto il cappotto lasciato aperto, che la camicia si era tinta di rosso, proprio in prossimità della ferita. – “Sherlock!” - esclamò aprendogli del tutto il cappotto. – “Non ti sei accorto che stavi sanguinando?” 
 L’uomo abbassò lo sguardo verso il suo addome, e liberò il suo cappotto dalla presa di Molly, cominciando ad abbottonarsi. – “La garza mi ha macchiato, dovrò dire a John di portarmi un’altra camicia.” – disse accennando un passo. Fortunatamente in casa era rimasta quella che gli aveva lavato il giorno che era arrivato, ma la allibì la superficialità con cui considerava le sue condizioni. Lungo il tragitto di ritorno Molly incontrò il Signor Price, il proprietario dell’appartamento in cui viveva. L’uomo sulla sessantina, era in pensione da un paio di anni, e spesso regalava a sé e alla consorte dei lunghi viaggi in Francia, paese del quali erano entrambi innamorati. Aveva una parlantina contagiosa, e la tendenza ad essere troppo amichevole. Non mancò di fare un paio di allusioni sulla relazione che intercorresse fra lei ed il suo accompagnatore, facendole temere fino all’ultimo una reazione di Sherlock, che invece non solo sorvolò sulle allusioni, ma intrattenne una breve e veloce conversazione con il signore. Quando si svincolarono dalla curiosità del Signor Price, Molly accelerò il passo in direzioni della casa, volendo al più presto sistemare la ferita.
“Vuoi che prenda qualcosa da mangiare alla tavola calda qui vicino?” – chiese lei, guardando l’orologio.
“Vorrei di nuovo la cosa che mi hai fatto ieri.” – le rispose lui.
Nonostante l’iniziale diffidenza alla fine il suo porridge aveva fatto centro. Annuì ed aprì il portone del palazzo. Entrati, Sherlock andò subito nella stanza a prendere l’occorrente per la medicazione, tornando nel salotto con la camicia, insanguinata e completamente aperta. Non si rendeva conto dello spettacolo che le stava offrendo, e Molly non glielo avrebbe fatto notare, lo prese come il pagamento per tutta quella situazione. Fatta la medicazione, lo avvolse nuovamente con la garza, cercando di non stringerla troppo, poi gli portò la camicia pulita, ma non stirata. Sherlock fu abbastanza riluttante nel mettersela, ma alla fine acconsentì. Lei andò a cambiarsi e quando ebbe finito iniziò ad organizzare gli ingredienti per cucinare il pranzo. Vedendo che Sherlock le restava accanto gli chiese cosa stesse facendo e perché non andasse, magari a leggersi un libro.
“Voglio vedere come si prepara.” – le rispose lui – “Non ti darò fastidio.” – disse allontanandosi di qualche centimetro, ma continuando ad osservare ogni suo movimento.
“C’è qualcosa che devi dirmi?” – gli chiese lei, insospettita dal comportamento che stava avendo.
“No, c’è qualcosa che dovrei dirti?” – le rispose lui, rigirandole contro la domanda. Lo liquidò con un incerto no, preferendo concentrarsi sulla cucina, anche se averlo così vicino la metteva notevolmente sotto pressione.  
“Se vuoi puoi tagliare le zucchine.” – disse appoggiando sul tavolo le verdure e dotandolo di un coltello. Fu la scusa migliore che riuscì ad elaborare per allontanarlo un po’ e liberarsi dalla presa asfissiante dei suoi occhi. Lo osservò di nascosto mentre con notevole difficoltà affettava la verdura, in piccole rondelle. Non ebbe il coraggio di riprenderlo e dirgli di farle a striscioline, lo lasciò fare. Lo fece solo quando l’uomo si tagliò, gocciolando sangue su tutta la superficie del tavolo. Gli prese subito la mano per controllare che non fosse un taglio profondo, e per fortuna non lo era. Un cerotto bastò a risolvere la situazione. Ripulì velocemente il tavolo, e si ritrovò di nuovo a veder del sangue scorrere giù per lo scarico del lavandino, proprio come era accaduto qualche sera prima. Se avesse dovuto scegliere un colore per quel weekend, sarebbe sicuramente stato il rosso; il rosso sangue.
“Appena potrai tornare a casa, chiedi a John di portarti in ospedale, non vorrei che la ferita si stesse infettando.” – gli disse mentre apparecchiavano la tavola.
“Dovresti andarci anche tu e farti controllare i livelli del sangue.” – esattamente non saprebbe spiegare il perché, ma le sembrò che con quella risposta le stesse dicendo, che non si sarebbe fatto fare alcun tipo di controllo. Forse perché nemmeno lei ne aveva intenzione, si sentiva ancora diffusamente debole, ma non aveva più i mal di testa forti del giorno precedente. Pranzarono abbastanza in fretta, e anche se nessuno dei due aveva veramente fame, finirono tutto il porridge preparato, trascorrendo il seguente pomeriggio a fare zapping in tv. Ogni tanto Sherlock commentava sagacemente quello che vedeva, e la incitava a cambiare canale, stufo di tanta mediocrità. Lei lo assecondava divertita, e le ore che avanzavano sull’orologio, non le sembrarono mai veramente passate. Riacquisirono entrambi la percezione del tempo quando squillò il telefono.
“Pronto?” – rispose Molly, quasi certa che si trattasse di sua madre.
“Molly? Sono Watson.” – disse il Dottore – “Sherlock ha il cellulare spento, puoi passarmelo?”
Si girò verso Sherlock, che era intento a guardare un documentario sulla rana pomodoro, - “Sherlock è Watson.” – gli disse porgendogli il cordless. L’uomo si alzò dalla poltrona e andò a parlare nell’altra stanza, si fidava di lei al punto da affidarle la sua vita per ben due volte, ma non tanto da farle ascoltare una telefonata. Una delle tante stranezze su cui aveva smesso di interrogarsi. Pochi minuti dopo ricomparve nella stanza, prendendo nuovamente posto sulla poltrona.
“Watson ha terminato il lavoro, domani mattina tornerò a casa.” – le disse.
Lei annuì con la testa, senza voltarsi. Rimase imperturbabile a guardare la tv, dove quell’animale dal colore rosso acceso, liberava il suo potente veleno permettendogli di sopravvivere. Dissimulò l’improvvisa morsa allo stomaco chele mozzo il fiato per diversi minuti, come se fosse solo un’allucinazione. Era ovvio che Sherlock se ne sarebbe andato prima o poi, e la cosa in realtà nemmeno le dispiaceva più di tanto. Aveva avuto l’occasione di passare con lui un intero weekend, ed era stato molto vicino ad un incubo. Non cera speranza che fra di loro potesse esservi un rapporto diverso, da quello di semplici colleghi che si stimano a vicenda. Lo aveva capito bene. Eppure, come al solito, le emozioni viaggiano su binari che la logica e la razionalità non possono intercettare. Il giorno dopo sarebbe dovuta tornare al lavoro ricominciando la normale routine, Sherlock sarebbe scomparso per chissà quanto tempo, come al solito. Non poteva giurarci, ma anche lui sembrava più spento, oggi era stato immensamente accondiscendente con lei, probabilmente come tentativo per rimediare all’errore fatto in precedenza. Entrambi rimasero in silenzio continuando a guardare la tv, fino a quando Molly non si addormentò. Sherlock la lasciò dormire, spense il televisore e si dedicò alla lettura. Lesse per ore ed ore, sorvegliando il sonno della donna. La guardò dormire profondamente, avvolta nella coperta del divano, probabilmente anche la sera che le era piombato in casa si trovava lì, perché sembrava del tutto a suo agio. Avvicinò la poltrona,temendo che con un movimento brusco, potesse rotolare al suolo, e riprese a leggere. Decise di svegliarla solo quando ormai era notte inoltrata, e non c’erano più libri ad interessarlo. Le si avvicinò, ma rimase in silenzio per minuti interi ad osservarla, aveva un viso ordinario, dai colori banali, ma nella sua banalità aveva una compostezza disarmante. Le linee perfette che le delineavano il viso e la bocca pennellata con precisione millimetrica, creavano un contrasto incredibile con i capelli che la invadevano disordinatamente. La svegliò il più delicatamente possibile e la aiutò ad arrivare fino alla stanza. Non appena la face appoggiare sul letto la vide nuovamente sprofondare nel sonno. Non gli diede nemmeno il tempo di darle la buonanotte che pronunciò comunque sussurrandola nell’orecchio. Si divertì a vederla reagire istintivamente a quel suono, girando la testa nella direzione opposta. Il suo corpo gli rispondeva sempre, qualunque cosa lui dicesse.  
 
Il mattino seguente fu lei la prima a svegliarsi, addirittura precedendo la sveglia impostata di default per suonare alle 6:00. La deselezionò subito per impedire che svegliasse anche Sherlock, che sembrava dormire veramente di gusto. Glielo avrebbe sicuramente rinfacciato la prossima volta che avrebbe ripreso Watson per le immense perdite di tempo a cui lo costringeva, per i suoi sonni ristoratori. Rimase un po’ nel letto a guardarlo dormire, cercando di imprimere a fuoco nella sua mente più dettagli che poteva. Notò che aveva le ciglia aggrottate, come se qualcosa turbasse il suo sonno, e lentamente cercando di non fare alcun rumore posò l’indice proprio al centro della sua fronte, lì dove si accentrava la tensione dei muscoli. All’immediato contatto, il viso di lui si distese, riacquistando un’espressione serena. Abbandonò il letto iniziando a prepararsi, Watson sarebbe arrivato a breve, portandosi via tutto quello che l’aveva investita in quel weekend. Preparò del caffè, l’unica sostanza che ingeriva prima di iniziare la giornata lavorativa, e forse l’aroma, o il borbottio della macchinetta, svegliarono Sherlock. Le si presentò in cucina ancora completamente assonnato, trascinandosi fino alla sedia.
“Potevi restare ancora un po’ a letto, Watson non è ancora arrivato.” – gli disse lei. – “E hai già preparato quello che devi portare via.”
“Voglio prendere il caffè prima che John tenti di impedirmelo.” – biascicò lui.
“Te ne do solo un po’.” – gli disse versando un po’ della bevanda calda in una tazza di ceramica blu. E mentre lui sorseggiava il caffè, lei sistemò la borsa da portare al lavoro e prese dal frigo alcune delle fiale che vi aveva messo giorni prima. Quando lo squillo del campanello risuonò per tutta la casa, facendo sobbalzare entrambi, fu Sherlock ad andare ad aprire.
“Ancora così sei?” – Disse Watson dalle scale, prima di mettere piede dentro l’appartamento. – “Buongiorno Molly.”
“Che fretta c’è… Non abbiamo nessun caso di cui occuparci. Dovrei sbrigarmi ad annoiarmi?” – rispose Sherlock riprendendo posto sulla sedia.
“Molly deve andare a lavoro… e poi, chi ha detto che non abbiamo un caso? Io non sono stato in vacanza questo weekend, ho lavorato!” – inveì con una certa enfasi Watson. – “Guarda qui.” – disse appoggiando dei giornali sul tavolo.
Dopo qualche istante di lettura, Sherlock, si alzò di scatto dalla sedia e agguantò il cambio che John gli aveva portato. Nel giro di pochi minuti fu pronto ad andare. Completamente rivitalizzato. Sherlock Holmes stava per mettersi al lavoro, tutto era esattamente come doveva essere, riccioli neri vellutati e perfettamente definiti, occhi accesi e brillanti, cappotto e sciarpa coordinati, tutto in quella figura gridava, lavoro. Molly lo osservò compiaciuta, era inutile ripetergli ancora che avrebbe dovuto fare attenzione ai punti, ormai sapeva che l’unica cosa che lo interessava era il suo nuovissimo caso. Watson approfittò del cambio di Sherlock per infilare tutte le sue cose in un borsone, quando lo vide ricomparire, approfittò per ringraziarla nuovamente – “Molly, davvero grazie dell’ospitalità e per tutto. Noi leviamo il disturbo! E prima o poi ti offriremo una cena!” – disse incamminandosi giù per la rampa di scale.
Sherlock lo seguì, esitando solo un lieve istante sulla porta. – “Hai dimenticato qualcosa?” – chiese istintivamente Molly.
Lui le rispose da dietro il colletto alzato del cappotto – “Ti sembro tipo da dimenticare qualcosa?” – disse uscendo dalla porta.
Era uscito, andato. Quel fine settimana si era concluso. Restò per qualche istante con la mano sulla maniglia della porta poi tornò a sistemare nella borsa le fiale facendo attenzione a non rovesciarne nessuna. Bussarono. “Lo sapevo” pensò. Aprì, avendo stampato in faccia un sorriso compiaciuto, perché era certa che si fosse dimenticato qualcosa, tutti dimenticano sempre qualcosa quando devono andar via, Sherlock Holmens compreso.
“Visto? Lo sapevo che avresti diment-” – Sherlock le arpionò il fianco tirandola verso di lui. Quando i loro bacini si scontrarono, un fremito le corse lungo tutta la spina dorsale stringendole i polmoni e non lasciandola respirare. Lo aveva vicino, dannatamente vicino, troppo vicino. E lui la fissava. Non sapeva se stesse venendo risucchiata dal buco nero dei suoi occhi o annegando nel circostante mari di colori, tutto ciò che sapeva era che non riusciva a distogliere lo sguardo. Le mise l’altra mano sotto il mento sollevandole il viso, fino a quando non lasciò che le loro labbra si toccassero. Le pozze marroni di Molly si dilatarono ancora di più, sentiva la bocca carnosa e morbida di Sherlock assaporare e degustare la sua, avida. La tensione che la irrigidiva sparì velocemente dopo quel contatto, e liberandosene lasciò che lui la assaggiasse ancora più a fondo. Una, due, tre, perse il conto delle volte che le loro lingue si incrociarono e scontrarono, perse la cognizione del tempo e di ogni altra cosa. Si aggrappò al suo cappotto per non rischiare che il suo bisogno d’aria la costringesse ad interrompere precocemente quel contatto. Le uniche cose che sentiva, erano il profumo di lui e le sue mani su di lei, ed era tutto ciò che le bastava. Quando una di esse si appoggiò delicatamente sulla sua guancia invitandola ad interrompere quell’umida unione, ebbe paura di quello che vide. Sapeva di essere paonazza, e con gli occhi languidi, e si aspettava che qualcosa di analogo ci fosse anche sul viso dell’altro. Sul viso di lui c’era stampato un sorriso malizioso, e una luce ad illuminargli lo sguardo, come se avesse appena svelato il più grande mistero della storia.
“In questo modo dovresti riuscire a ricordarti, quanto conti per me.” – le disse a pochi centimetri dal viso prima di girarle le spalle ed iniziare a scendere le scale. –“Vedi di non dimenticarlo questa volta, perché non ho l’abitudine di ripetermi.” – concluse sorridendole e scomparendo dal suo campo visivo.

Molly aveva la sensazione di stare per svenire. Sarebbe crollata esattamente dove aveva ritrovato lui due giorni prima. Si appoggiò al muro alla ricerca di un sostegno sia fisico che psicologico. Voleva pensare e riflettere, ma allo stesso tempo ne aveva paura. La cosa più sensata che le venne in mente era quella d’aver sognato, ma un sapore ferroso in bocca la costrinse a toccarsi le labbra scoprendo che quel contatto così inaspettato le aveva lasciato un segno ben visibile. Non aveva sognato, tutto era realmente accaduto. Come avrebbe dovuto interpretarlo? Come avrebbe dovuto comportarsi? Cosa avrebbe dovuto fare?
Da qualche parte dentro di sé sapeva che quelle domande non avrebbero trovato risposta nell’uomo che le aveva suscitate. Lo sapeva perché con Sherlock era sempre così, a lui non piaceva ripetersi, e ancor di più doversi spiegare dopo essersi già ripetuto. Una strana eccezione mista ad un pizzico di incoerenza per qualcuno come lui. L’orologio in cucina segnava 7:30, realizzò subito che avrebbe fatto tardi al lavoro. Prese la borsa ed uscì di corsa, lungo il tragitto avrebbe anche pensato a cosa rispondere ai colleghi, quando le avrebbero chiesto del suo weekend. Confessare di averlo passato immersa fino alle ginocchia nel sangue di Sherlock Holmes, perfino a lei, non sembrò una buona idea. 

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Ecco fatto.... Ieri ero troppo stanca per postare anche la seconda parte ^____^ Spero che la storia vi piaccia, e ringrazio tutti coloro che hanno deciso di darle un'opportunità <3
Davvero, grazie! Per me è già un risultato vedere il numero delle visualizzazioni che sale, ma se vorrete commentare, magari dandomi dei suggerimenti, sappiate che ne sarò più che contenta!
Un saluto!

 
   
 
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