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Autore: Camelia013    07/10/2013    0 recensioni
Credo che stare ad aspettare sia davvero un magro affare: mi sento schiacciata dai tuoi occhi di ghiaccio, ma sento che nel tuo cuore ci sono ferite che il tempo non potrà guarire; sento il respiro di qualcuno che si sforza di trasalire e le catene che mi stringono i polsi. Sai cosa intendo. Merito la felicità che augurai in quella dannata lettera a mio padre, in una notte di forte desiderio e tenacia? Riuscirò a spezzare ... quelle catene?
Genere: Drammatico, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Ragionevolezza
San Diego era senza alcun dubbio meravigliosa ed esotica, ma in mezzo a quei palazzi non riuscivo ad esalare la magia che si poteva respirare, in quella scintillante città che si affacciava sull’Oceano Pacifico, a causa della mia insormontabile inabilità nel scalare la salita delle mie preoccupazioni.
Continuavo ad immaginare un pubblico insoddisfatto e pronto a sputare veleno sul palco dove tentavo di danzare, con le corde vocali, sulla pista del pentagramma, nonostante il convincimento che si manifestò tre giorni addietro, durante quella esibizione.
 
Ricordo che a quindici anni, in un pomeriggio di Novembre, fui spedita in ospedale a causa di un attacco di panico insostenibile: mio padre non sapeva cosa fare e così chiamò un Taxi che mi inviò in quel palazzo bianco, popolato da omini in camice color latteo e puzza di disinfettante.
Mi fecero una flebo e, sbuffanti, mi mandarono a casa la sera stessa: dissero che l’ansia non era un sintomo abbastanza gravoso per essere mandati in clinica. Io invece, dissi loro che non ebbero capito proprio niente.
Presi la lametta che usava mio papà per tagliarsi la barba argentata e, dopo un sussulto indisponente, incominciai a percuoterla verso l’avambraccio interno, poco distante dal polso sinistro. Patii un dolore paragonabile al trafitto di mille lame taglienti, ma saggiai il sapore del sollievo.
Dopo qualche secondo ripresi conoscenza e, piangente, presi una benda e me la strinsi sulla ferita.
Mi ero punita e sfogai la mia depressione su quel povero arto superiore.
 
Iniziai a immaginare la gente che mi guardava durante i miei spettacoli barbugliare cose disgustanti nei miei confronti e la loro espressione comparabile a quella di un diavolo.
Non potevo sopportare tutta quella attenzione, tutta quella responsabilità. Non ci riuscivo: non era scritto nel mio DNA essere una persona piena di certezze e intrepidezza e me lo garantivo ogni qual volta mi osservavo, attraverso uno specchio.
L’ansia che si esibì cinque anni prima ritornò, come un colpo di scena, a causa dell’assenza temporanea: dovevo punirmi.
Era sera e la mia camera di hotel ospitava le tenebre notturne: non riuscivo a dormire. Dovevo farmi del male. Mi alzai ma inciampai, generando un tonfo chiassoso. Mi rialzai, mordendomi le labbra e, con affanno insaziabile mi guardai attorno, alla ricerca di qualcosa, qualsiasi cosa.
Non ricordo cosa mi frullò per la testa in quel momento e mi faccio una grande paura nel ripensarci.
Sul bancone della piccola cucina trovai un coltello: nell’istante in cui mi avvicinai, sentii una dolce brezza entrare dalla finestra, ma essa non riuscì ad arrestare il mio intento azzardato.
Presi l’arnese e lo osservai per qualche secondo: la mano tremava, come una foglia autunnale che tenta inutilmente di tenersi stretta al suo albero sebbene il vento scrosciante, mentre reggeva il manico del pugnale. Rivolsi la punta verso di me e iniziai a gemere e a sudare.
Ma finalmente, dopo pensieri assolutamente disumani e desideri contro natura, riafferrai la ragione.
Scoppiai a piangere senza pudore e mi lasciai scivolare sulla parete del bancone, finendo per accasciarmi vicino al tappeto.
Avvertii una vigorosa stretta circondarmi la vita, finché mi ritrovai in braccio a Mitch che, forse avendo sentito i rumori, mi sopraggiunse. 
Non proferì alcun che e mi poggiò sul letto, rimboccandomi le coperte, poi mi baciò la fronte e si sedette sulla branda. Lo guardavo come uno zombie: ero come intontita, ma fui felice di vederlo. A dire il vero, non aspettavo altro.
Le mie labbra, traballanti a causa del freddo della tarda serata, provarono a balbettare qualcosa, ma si limitarono a vacillare tutto il tempo, senza proferire alcun che.
“Tu sei pazza.” Ruppe il silenzio improvvisamente Mitch, posato sulle sue proprie gambe.
“Non capisci quello che ho ottenuto.” Mi feci coraggio a rispondere.
Mitch, ad occhi spalancati, si voltò verso di me, guardandomi con stupore, o forse con sbigottimento.
Inteso il suo torpore, continuai: “Ho ottenuto la tua attenzione.”
Finalmente riuscii a dirglielo: arrivai a sradicare ciò che mi tenni per giorni nel mio povero stomaco, vittima di squartamenti e nodi continui.
La silenziosità sembrava l’unica protagonista della scena, lasciando l’occhiata di Mitch che, con occhi azzurri, mi fissava con assoluto choc, susseguito da me che sostenevo in alto la testa, con orgoglio.
Un suono acuto piombò d’improvviso: Mitch mi tirò uno schiaffo.
Guardai il basso, massaggiandomi la guancia.
“Non devi fare la bambina per ricevere delle attenzioni. Ma ti rendi minimamente conto di quello che stavi per fare!? Sei una mocciosa viziata, ecco cosa!” sbraitò e se ne uscì dal vano, con passo violento.
 
E’ orrendo quando la gente non crede ad un tuo vero stato d’animo: è come se stessi affogando e la gente, invece che gettarti il salvagente, ti ridesse dietro, criticando la tua dote d’attore, lasciandoti sprofondare nell’Abisso della disperazione.
Dovevo riafferrare la mia ragionevolezza e continuare a camminare su quel percorso, anche senza di lui. Anche senza Mitch.
Mitch mi considerava una “mocciosa viziata” e mi riflesse tale anche prima di quella sera, ne ero pienamente certa.
 
Uno spicco di bagliore penetrò i miei occhi dormienti, finché essi si aprirono, irritati dal fulgore.
Mi alzai, notando la mia gatta che mi osservava e stiracchiai verso l’alto le braccia.
Infilai un grande pullover e dei pantaloni di jeans, quel che capitò. Il mio chiodo fisso era un altro.
San Diego mi aspettava. Che c’era di male nell’uscire e conoscerla?
Il sole prosperava sopra la grande città, ma il freddo invernale non ne voleva sapere di andarsene; camminai tra i palazzi, ammirando le bellezze di quella metropoli, sorridendo. Quella mattina ritrovai un po’ di pace.
Cominciai a studiare le persone che passavano per quella carreggiata: nessuno trovava il tempo di alzar il capo e guardare il cielo limpido e meraviglioso che voleva essere solo squadrato; erano troppo presi dalla vita.
Notando un uomo in giacca e cravatta, il volto di Mitch mi ricomparve nella mente, come un lampo a ciel sereno: rammentai il veleno che sputò quando mi diede della mocciosa viziata e di quello scappellotto doloroso e umiliante. Scossi la testa nella speranza di non pensarvi più.
“Tu sei Jamie Gilles, giusto?” sentii, inaspettatamente, una voce rauca e maschile.
Mi voltai, vedendo un giovane: egli mi sorrise e mi strinse la mano.
“Piacere, io sono Carter.”

Angolo scrittrice!
Salve lettori. Volevo precisare che la scena del taglio è molto generica, perché non ho mai provato una cosa simile, però so per quale motivo lo si fa, poiché ho la mamma che soffre di questo problema.
Non siate troppo critici! Grazie.

 
  
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