Capitolo
Cinque: Cuore
d’Inverno
Era
nato il giorno più freddo del mese più gelido sul
pianeta più artico.
Del
suo pianeta natale ricordava lo spesso tappeto di neve e
il pungente mantello dell’inverno perenne. Ivan Braginski
aveva visto la luce
su Siberia, uno dei mondi all’estrema periferia della
Confederazione, quindi
uno dei più lontani dalla calda luce del Palazzo di Quarzo.
Aveva
trascorso l’infanzia lavorando nelle steppe di
ghiaccio assieme alle due sorelle. Avrebbe dimenticato quel periodo, se
non
fosse stato per i calli scolpiti dal lavoro sulle sue dita. Avrebbe
scordato
anche le sorelle, se non gli avessero regalato la sciarpa che ancora
gli
riscaldava il collo. La maggiore l’aveva sferruzzata, e la
minore l’aveva
ricamata con un motivo a forma di cristalli di neve.
Tuttavia,
ad eccezione dei rari ricordi che spuntavano
fragili come i primi bucaneve dalla coltre dicembrina, il suo passato
era un
lago ghiacciato: freddo e cupo, senza possibilità di
scorgerne il fondo.
L’ultima
memoria che conservava della sua famiglia, era il
nonno che si chinava su di lui, porgendogli una mazza ferrata grande
quattro
volte il nipote ormai adolescente. Rammentava la mano ruvida che gli
premeva
uno strano marchingegno sul petto, e le ultime parole del nonno:
“Diventa di
ghiaccio, Ivan. E uccidi il tuo passato”.
Poi
la puntura di mille aghi che si infiggevano nel suo
cuore, e subito dopo un gelo doloroso gli aveva azzannato il petto con
la
brutalità di un orso delle montagne; aveva sentito il
muscolo cedere, spaccarsi
in un diluvio di sangue, e lo aveva sentito battere qualche secondo
dopo,
ottenebrato dal gelo incastrato nel suo petto.
Era
caduto in ginocchio, le mani tremanti appoggiate sulla
mazza ferrata. Aveva stretto le dita sull’impugnatura e, con
una forza che non
sapeva di possedere, l’aveva fatta roteare sulla testa.
Poi,
solo una sensazione viscosa sulle dita. Tra le onde
scure del lago che era la sua memoria, alcune erano sporcate di rosso.
Aveva
ucciso qualcuno, quel giorno. Era una sensazione indelebile nella sua
anima,
anche se non ricordava chi. Ma non aveva più visto
né il nonno e né le sorelle
da allora.
Era
salito sulla Fortezza Errante e aveva cominciato il suo
viaggio come Custode dei Cancelli. Forse glielo aveva detto il nonno,
forse era
predestinato a quella carica, ma, anche se non ricordava chi gli avesse
dato il
permesso di salire su quel palazzo sbuffante, sapeva di essere nel
giusto.
Conosceva l’esatta ubicazione delle stanze, anche se nessuno
gliela aveva mai
spiegata. E sapeva di essere solo. Non si era sorpreso
dell’eco tombale dei
suoi passi su quelle pareti di metallo in movimento. Si era recato in
bagno e
lì aveva aperto il cappotto, orrendamente macchiato di
sangue. E lo aveva
visto. Immobile, aggrappato al suo petto come un ragno di zaffiro e
ferro, il
misterioso marchingegno spandeva le sue zampette metalliche sulle sue
costole,
facendo riposare il suo ventre di vetro sullo sterno del giovane. Ivan
aveva
fissato quella pietra luminescente e l’aveva sfiorata,
ritraendo le dita subito
dopo: era così gelata da far male, e aveva sentito scorrere
sotto i suoi
polpastrelli l’ululato del vento di Siberia.
Aveva
battuto le palpebre, perplesso, e si era stupito del
colore dei suoi occhi. Fino a quella mattina erano azzurri,
eredità e vanto della
famiglia Braginski. Ma quelle che lo fissavano immote erano due iridi
violacee
come le punte terminali dell’aurora boreale.
Ivan
aveva lavato velocemente il cappotto e, con molta più
cura, la sciarpa: riusciva ancora a vedere le dita delle sorelle
graffiate dal
lungo lavoro di cucito e i loro volti incavati dalla gioia, ed erano
l’unico
barlume di calore in quella fortezza fredda come il cristallo sul suo
cuore.
Si
era gettato sulle spalle il cappotto ancora bagnato, e si
era avvolto il viso con la sciarpa per poi accomodarsi su una strana
poltrona
frutto del lavoro di un ingegnere e non di un arredatore.
Aveva
squadrato il soffitto alto, le finestre in movimento,
la porta chiusa e il camino spento.
Non
c’erano voci a riempire la stanza, non c’era
nessuno da
salutare dalla balaustra, e non vi era essere che potesse aprire la
porta e
chiedergli se era triste.
Si
era rintanato nei suoi stessi vestiti, fissando il camino
che non si sarebbe acceso da solo.
«Fa
freddo…» si era lamentato.
***
Lo
vide durante il suo terzo mese di viaggio.
Aveva
smesso di chiedersi perché certe azioni gli venissero
spontanee, o perché avesse sempre freddo nonostante il
vestiario pesante, o,
ancora, perché ogni giorno fosse sempre più
difficile ricordare i volti dei
suoi familiari.
Il
ragno che succhiava avido il tepore dal suo corpo aveva
tutte le risposte, ma non le avrebbe condivise con lui.
Dopo
qualche settimana, Ivan si era stancato di quello
stillicidio: il marchingegno non avrebbe parlato, e nessuno poteva
fornirgli le
risposte che cercava. Con il passare dei giorni, era diventato sempre
più
accondiscendente verso gli impulsi che improvvisamente muovevano il suo
corpo e
sempre più distaccato nei confronti del mondo esterno.
Perfino i banditi che
uccideva per impedire di portare scompiglio nella Confederazione non
gli
apparivano più come esseri umani. Ai suoi occhi, erano solo
bambole incapaci di
scalfirlo: non provava il minimo rimorso o pietà quando
calava la mazza ferrata
su di loro. Al contrario, avvertiva una punta di soddisfazione,
perché il
marchingegno sapeva che quello era il suo compito, per il bene della
Confederazione.
Accadde
il giorno in cui i serbatoi della fortezza si
svuotarono completamente, e costrinsero Ivan a fare scalo a Chugoku, il
pianeta
dominante del Sistema Asean. Era un mondo piuttosto florido, grazie
all’ottimo
clima e alle abbondanti risorse naturali, per cui non sarebbe stato un
problema
trovare del carburante.
Manovrò
la Fortezza in modo da attraccare a Beijin, la
capitale, dove sicuramente avrebbe trovato più fornitori.
Il
destino, o semplicemente la casualità, volle che in
quell’esatto momento per la via principale sfilasse la
processione imperiale.
Ivan non aveva mai visto nulla di simile, quindi non capì
perché la gente si
fosse improvvisamente divisa ai due lati della strada, o per quale
motivo tutti
i negozianti si fossero precipitati sui marciapiedi già
gremiti, ritardando la
sua partenza: non poteva chiedere rifornimenti a un negozio vuoto.
Si
abbassò dunque su un nativo e gli domandò cosa
stesse
succedendo. La sua notevole altezza e l’imponente mazza
ferrata appoggiata
sulla sua spalla sciolsero la lingua dell’uomo a una
velocità pazzesca.
«Il
Figlio del Cielo scende a fare visita alla città,
signore. Accade solo una volta all’anno»
farfugliò l’Asean.
Ivan
tamburellò le dita sull’impugnatura della mazza,
contrariato. Il marchingegno sapeva che il Figlio del Cielo
rappresentava per
il Sistema Asean ciò che l’Asse era per la
Confederazione: il portatore di
equilibrio, nonché la persona più dotata in
quanto a magia. Tuttavia, l’Asse si
limitava a pregare e vivere da eremita, mentre il Figlio del Cielo
svolgeva
anche le funzioni di un regnante, occupandosi del suo popolo e del suo
impero.
I
suoi occhi viola si dirottarono verso la volta celeste.
Non era del tutto impari: in fondo, il Figlio del Cielo doveva
occuparsi di una
rete di pianeti, mentre l’Asse era responsabile
dell’intera Confederazione. Era
giusto che il primo svolgesse qualche altro ruolo.
Riappoggiò
le sue iridi ametista sulla strada quando avvertì
la gente inchinarsi in tutta fretta come se la testa fosse diventata un
peso
troppo grande da sostenere.
Il
ragno sul suo petto inviò una seconda informazione al suo
cervello: il Figlio del Cielo era considerato il Sole del Sistema Asean
e, allo
stesso modo con cui un uomo non poteva fissare l’astro diurno
a occhi nudi,
così ai civili non era concesso ammirare il volto del Figlio
del Cielo. Ma lui
non era atterrato a Chugoku per inchinarsi: era venuto solo per
ottenere
benzina, e non aveva intenzione di umiliarsi per un regnante straniero.
Fu
così che vide da una prospettiva agevolata la portantina
di legno di ciliegio rosso avanzare maestosa lungo la via. Man mano che
la
processione avanzava, i dettagli della parata diventavano sempre
più nitidi: i
draghi scarlatti che si attorcigliavano in ricami preziosi sulle
tuniche dei
ragazzi che reggevano sulle spalle il peso esiguo del sovrano; le
insegne
militari sulla divisa del Samurai che marciava a lato della portantina,
e
l’occhio di rubino incastonato
sull’estremità dell’elsa della sua
spada; i
fiori amaranto sparsi sui cuscini vermigli che costituivano il
giaciglio del
sovrano.
Poi,
Ivan aveva alzato lo sguardo sull’uomo colpevole del
suo ritardo. Aveva immaginato un vecchio saggio ricurvo e nodoso,
piegato dagli
anni e deformato dal tempo. Invece la realtà gli aveva
regalato un viso privo
di rughe, appartenente a un ragazzo della sua stessa età. Un
giovane estremamente
bello, sebbene non avesse metri di paragone attendibili a causa della
sua
memoria inesistente.
La
stoffa rossa dell’elaborata veste imperiale sembrava nata
per fasciare quel corpo minuto, le cui forme erano distinguibili a
malapena nel
mare di tessuto vermiglio, e per arrampicarsi sulla gola snella nella
forma
rigida dei vestiti cerimoniali di Asean. Perfino quel buffo copricapo,
che
avrebbe ridicolizzato qualunque altra persona, non riusciva a sminuire
il viso
ben modellato del Figlio del Cielo. Ma non era solo la bellezza delle
forme a
incantarlo: il sovrano era permeato da un’aura ancestrale,
come se migliaia di
anni di storia giudicassero il presente guardandolo attraverso quegli
occhi
scuri. Di nuovo, il marchingegno lo soccorse: il corpo del regnante
aveva più o
meno la sua stessa età, ma la sua anima era millenaria.
Quando il futuro
sovrano nasceva, nel suo corpo veniva impiantata la cosiddetta
“anima
generazionale”, costituita dai ricordi dei precedenti Figli
del Cielo, in modo
che il fanciullo possedesse una saggezza e una padronanza dei sistemi
di
governo ineccepibile nonostante la giovane età. Avrebbe
potuto raccontare
avvenimenti di secoli addietro vedendoli scorrere davanti ai propri
occhi.
L’esatto opposto di lui, che faticava a ricordare il nome
delle sorelle.
Non
prestò attenzione al primo richiamo delle guardie, e
nemmeno al secondo, finché non furono tanto rumorose da
destare lo sconcerto
del Figlio del Cielo. I loro sguardi si incrociarono a metà
di quella strada
affollata, e, per un attimo, Ivan non sentì freddo.
Avvertì
in lontananza una guardia che gli intimava di
inchinarsi, e vide il Samurai poggiare la mano sull’elsa
della spada, ma un
gesto del Figlio del Cielo bloccò tutti. Un secondo cenno
convinse la
processione a proseguire, nonostante l’enorme Siberiano che
svettava in mezzo
alla calca prostrata.
Rimase
immobile finché la portantina non fu sparita, e anche
dopo, mentre la gente tornava alle proprie mansioni.
Un’altra
informazione gli fu concessa dal ragno.
Il
Figlio del Cielo era nato sotto la benedizione del Fuoco.
Ecco perché, per un momento, non aveva sofferto il gelo.
***
Marchiato
nella mente dalle fiamme che avevano segnato la
sua nascita, il viso del Figlio del Cielo non scompariva.
I
mentecatti che era costretto a polverizzare non
resistevano al potere dell’oblio del ragno, ma il volto di
quell’Asean era
intagliato nella sua mente.
Avrebbe
voluto rivedere quell’orientale, avrebbe voluto
parlare con lui. Avrebbe voluto qualcuno con cui condividere la
solitudine
estrema di quella fortezza in perenne movimento. Avrebbe voluto capire
cosa si
provava a essere dominati dalle fiamme e non dal ghiaccio, ad avere una
memoria
millenaria e non dei fossili sbiaditi di ricordi. Ma sapeva anche che
quel
desiderio non poteva diventare realtà: il Figlio del Cielo
era vincolato al suo
mondo, mentre lui doveva sopportare una vita senza legami.
Si
rassegnò quindi a pensare all’Asean nei suoi
momenti
liberi, immaginando come sarebbe stato passare del tempo con lui. Fino
alla
sera in cui il cielo fece cadere suo figlio.
Era
passato circa un anno dal loro primo incontro a Beijin.
Ivan stava manovrando la fortezza in modo da uscire dal Sistema Asean
senza
urtare la costellazione di asteroidi dell’arcipelago Nihon,
quando
all’improvviso il sensore della sala macchine
lanciò il suo allarme: un corpo
estraneo stava per entrare in collisione con il palazzo.
Ivan
attivò il sistema di telecamere piazzato sul tetto, e
lo puntò in direzione della fonte del movimento. Lo schermo
fu invaso da un
fascio di luce così violento da accecarlo per qualche
istante. Quando
finalmente le sue pupille incendiate si furono abituate a quella
luminescenza
esagerata, riuscì a scorgere qualcosa: immerso in un vortice
di fiamme
ruggenti, una persona teneva le braccia spalancate come una fenice in
volo.
Lo
avrebbe schivato se, in quel momento, lo sconosciuto non
avesse alzato il volto, quello stesso volto che lo aveva accompagnato
durante
tanti pomeriggi di solitudine. Aveva quindi virato in modo che la
fortezza
divenisse lo scomodo materasso di atterraggio del giovane.
Ivan
si affrettò a raggiungere il lato destro del palazzo,
cui il regnante si era aggrappato dopo un impatto brutale. Le fiamme
irradiate
dal suo corpo frustavano furiosamente l’aria, gonfiate dal
vento dell’atmosfera
artificiale e dallo spavento del Figlio del Cielo. Il Custode dei
Cancelli
quasi sfondò la finestra per sporsi fuori e porgere la mano
al ragazzo. L’Asean
allungò le dita tremanti verso di lui, e Ivan
sentì quelle membra affusolate
scricchiolare nella sua presa mentre lo attirava a sé. Gli
bastò un braccio
solo per trascinare quel giovane dal fisico di seta
all’intero della fortezza e
a chiudere la finestra.
Gli
occhi di ebano del sovrano, ancora frementi per il
terrore, cercarono i suoi e un ringraziamento vibrò in
quelle iridi sfinite
prima che il Figlio del Cielo perdesse i sensi tra le sue braccia.
Ivan
non ebbe alcuna difficoltà nel trasportare il peso
irrisorio dell’Asean nella stanza padronale, e lo
adagiò sul letto.
Il
fisico del giovane appariva magro e delicato perfino
quando era affogato nelle ali pompose dell’abito cerimoniale;
la semplice
tunica bianca non possedeva strati di seta con cui dissimulare la
finezza degli
arti, e i pantaloni largi non erano lunghi abbastanza per nascondere la
caviglia, sottile come quella di una donna. Alcune ciocche mogano erano
evase
dal nastro di seta durante la fuga precipitosa, ed erano svenute in un
groviglio disordinato sulla pelle eburnea. I ciuffi sparsi non erano
l’unico
dettaglio fuori posto nel vestiario del giovane: gli squarci sulla
pelle e
sulla tunica del regnante rivelavano il trascorso di un’aspra
lotta, aggravato
da una selva di orribili ecchimosi.
Dai
bordi martoriati della divisa trapelò una luce calda,
dello stesso colore delle stoffe imperiali. Ivan scostò
appena i lembi
dell’apertura sul tessuto con le dita guantate, e la stoffa
lacerata gli rivelò
la fonte di quel bagliore: nel petto del giovane ardeva una sorta di
piccolo
sole. Dallo sterno era visibile una forma vagamente sferica dal cuore
incandescente, come se un astro di fuoco avesse trovato il suo centro
gravitazionale tra le costole del giovane.
Il
Custode dei Cancelli portò istintivamente una mano al suo
petto, e sfiorò il profilo duro del metallo. Erano opposti
in moltissime cose,
loro due: nella memoria infinita contrapposta ai ricordi di cenere, nel
potere
del fuoco che trovava il suo avversario nella forza del ghiaccio, in un
bulbo
artificiale che divampava dentro il petto dell’Asean e in un
marchingegno
meccanico che pasteggiava sullo sterno del Siberiano.
Non
poté trattenere la curiosità e sfiorò
quel fuoco sotto
pelle: un calore piacevole gli riscaldò i guanti e, per
conseguenza, le mani.
Era un fuoco che bruciava senza scottare.
Ritirò
la mano, che divenne gelida l’istante successivo, e
rimosse il guanto per poter sfiorare la guancia liscia
dell’Asean. Le palpebre
del giovane sussultarono per il freddo improvviso, e il Figlio del
Cielo si
rannicchiò sul fianco in cerca di calore.
Ivan
continuò a sfiorarlo piano sul viso, sebbene le sue
carezze facessero agitare il giovane nel suo sonno tormentato.
Si
chiedeva se il sole del Figlio del Cielo sarebbe riuscito
a sciogliere il ghiaccio che lo opprimeva, o se sarebbe stato il suo
gelo a
spegnere il fuoco dell’Asean.
***
«Ti
ringrazio per avermi salvato, Ivan Braginski.»
Il
Custode dei Cancelli si sorprese internamente delle prime
parole del Figlio del Cielo. Credeva che si sarebbe spaventato,
trovandosi
all’improvviso in un posto estraneo; al contrario,
l’Asean si era seduto
composto sul materasso e gli aveva offerto i suoi ringraziamenti
formali. Poi
si ricordò della memoria ancestrale del giovane: anche se il
suo corpo non
aveva mai messo piede in quella fortezza, i suoi antenati lo avevano
fatto. Per
quel motivo il ragazzo non si era spaventato.
«Come
sai il mio nome?» lo interrogò Ivan.
«Sei
uno dei Tre Scudi, come me e l’Asse. È normale che
io
sappia il tuo nome» replicò educato
l’Asean.
Yao
Wang. Il suggerimento del ragno giunse repentino e
perentorio; anche loro erano a conoscenza del nome del Figlio del Cielo.
Ivan
si sedette sul bordo del letto e si prese qualche
secondo prima di porre la successiva domanda. Le luci dello spazio
disegnarono
un reticolato di riflessi iridescenti sulla chioma scura del giovane, e
bagnarono di luce argentea il profilo alto degli zigomi. Era stato solo
così a
lungo che ogni cosa, in quel ragazzo, gli appariva esotica e
misteriosa, perfino
il sottile profumo di spezie che emanavano i suoi vestiti, totalmente
diverso
dall’odore ferroso della fortezza.
«Cosa
è successo, ieri notte?»
La
bocca di Yao si contrasse per un attimo, e le ciglia
tremarono; tuttavia, la voce risuonò neutra quando
parlò:
«Sono
stato tradito e il mio trono è stato usurpato.»
L’Asean
alzò su di lui gli occhi taglienti come le
scimitarre prodotte nel suo paese.
«Non
posso riprendere il mio posto da solo. Saresti disposto
ad aiutarmi?»
Ivan
sollevò la sciarpa per coprirsi fino al naso. Non
riusciva a capire del tutto quell’orientale: gli sembrava
troppo composto,
troppo altero… troppo freddo, per essere una persona con il
fuoco nelle vene.
«Perché
lo chiedi a me?»
«Perché
sei l’unico essere umano presente in questo posto. E
perché so quanto siano straordinarie le tue
abilità in combattimento.»
«Vuoi
scatenare una guerra?»
«Solo
l’omicidio del mio usurpatore e del traditore. E di
chiunque si metterà sulla mia strada.»
Troppo
rigido. Troppo gelido per essere davvero l’erede del
sole.
Il
Custode dei Cancelli lasciò intercorrere qualche secondo
tra quella proposta e la sua controfferta.
«Dovrai
rimanere qui, fino all’omicidio. Senza uscire.»
Yao
accettò con un cenno del capo, che fece scivolare i
capelli lucidi sul petto.
«E
dovrai toglierti quella maschera.»
«Quale
maschera?»
«Come
è possibile che il fuoco sia così
quieto?»
L’Asean
sbarrò i suoi occhi a mandorla, portando una mano a
scudo del petto. Le dita gli trasmisero la sensazione della stoffa
sbrindellata,
e realizzò in un istante come il Custode dei Cancelli avesse
potuto vedere cosa
avvampava nel suo sterno.
«Questa
non è una maschera» asserì Yao, con un
ghigno furbo
sulle labbra pallide. «È una protezione. Dovrai
convincermi a toglierla, se
vuoi vedere cosa si nasconde sotto di essa.»
Ivan
accettò il rilancio dell’Asean, e
risistemò la sciarpa
attorno al viso.
Aveva
tutto il tempo necessario per scardinare gli scudi del
giovane.
***
Nella
Fortezza Errante, il tempo scorreva più denso rispetto
al resto della Confederazione.
Non
avrebbe saputo contare le settimane e i mesi che avevano
passato da soli nel palazzo, ma i ricordi di quel periodo erano
incredibilmente
vividi nella sua mente. Rispetto al solito, perlomeno.
Aveva
reminescenze del giorno in cui avevano comprato dei
vestiti di ricambio per Yao, e dello stesso pomeriggio in cui
l’Asean aveva
cercato di cucirli secondo la moda del suo paese di origine. Riusciva
ancora a
raschiare dalla memoria il momento in cui Yao si era punto con
l’ago per l’ennesima
volta, e aveva cominciato a imprecare nella sua lingua madre.
L’orientale
non lo aiutava mai, quando Ivan usciva per
punire i criminali. L’Asean aveva insistito, adducendo
l’utilità dei suoi
poteri di fuoco, ma il Custode era stato categorico, e non gli aveva
mai permesso
di mettere piede fuori dal palazzo. Yao era l’unica persona
che avesse
incontrato negli ultimi anni, e non aveva intenzione di condividerlo
con
nessuno. Non voleva che quei malfattori potessero anche solo poggiare
gli occhi
su di lui: lo avrebbero sporcato. E lui aveva desiderato quel
bellissimo
giovane per troppo tempo per permettere a un criminale qualunque di
infangarlo.
Inoltre,
l’orientale pareva essersi abituato alla sua
ingombrante presenza. Yao si adattava alle sue regole, e non aveva mai
avanzato
pretese esagerate: accettava tutto con un garbo regale che Ivan
talvolta
ammirava e talvolta detestava.
Rispetto
ai primi giorni, il Siberiano riusciva a discernere
tra il costume da Figlio del Cielo e la naturalezza di Yao. Non era
sempre facile
distinguere le due facce dell’orientale: alcune volte la
differenza stava in
una curvatura più spontanea delle labbra, o in un gesto di
scherno della mano.
La
parte più contorta di lui avrebbe voluto vedere un
pizzico di sconvolgimento su quel volto elegante, come la sera in cui
lo aveva
salvato: il ricordo del panico che guizzava negli occhi e nelle membra
del
giovane era terribile e nostalgico al contempo. Non pretendeva
un’emozione così
violenta, ma avrebbe voluto vedere Yao perdere la sua compostezza
aristocratica.
Forse
fu per soddisfare quella sua brama che, una sera, aveva
fatto la confessione più strana che si fosse mai udita in
tutta la
Confederazione.
Entrò
nella stanza dell’orientale quando quest’ultimo
aveva
appena finito di cambiarsi per la notte: la camicia che gli aveva
prestato il
Custode scendeva in pieghe sconnesse attorno al suo corpo troppo esile,
e i
capelli scuri, lasciati liberi di ricadere sul petto, si intrecciavano
ai
bottoni di madreperla.
«Di
cosa hai bisogno?» si sorprese l’Asean, pettinando
la
chioma su una spalla.
Yao
si sedette sul letto lasciando spazio accanto a sé,
immaginando
che l’uomo avrebbe voluto accomodarsi a sua volta sul
materasso. A dispetto
delle sue previsioni, Ivan si inginocchiò a terra,
esattamente di fronte a lui.
Il
Custode si sporse nella sua direzione e gli cinse la vita
sottile con le braccia, poggiando il viso sull’unica fonte di
calore di tutta
la fortezza, il petto dell’orientale. L’Asean si
irrigidì quando le sue gambe
furono costrette ad aprirsi per accogliere il torace massiccio
dell’uomo,
premuto sul suo bacino.
Ivan
sentì il cuore del sovrano agitarsi come i fusibili del
castello quando si surriscaldavano, e sussurrò su quel cuore
ribollente le sue
parole artiche:
«Ho
ucciso.»
Un
sospiro ingorgò il petto dell’orientale, e venne
rilasciato nel momento in cui le dita del giovane sfiorarono i capelli
di brina
del Siberiano.
«Quante
volte hai ucciso?» domandò calmo Yao.
Ivan
strinse più forte la presa sulla schiena filiforme del
Figlio del Cielo, fino a fargli male. L’orientale strinse i
denti, mordendo un singulto
di dolore. Senza ricordi e senza legami, l’uomo ancorato al
suo ventre era al
livello emotivo di un bambino: una possessività totale, con
cui gli impediva di
lasciare la fortezza anche solo per un istante, e un’empatia
in stato
embrionale. Ivan non riusciva ancora a capire quale fosse il limite
oltre il
quale l’altro provava dolore.
Yao
immerse una mano nella chioma color paglia dell’uomo, e
con l’altra accarezzò piano la sua schiena
colossale: come un bambino,
quell’omone aveva bisogno di essere rincuorato.
«Non
me lo ricordo. Forse ho ucciso anche i miei familiari.»
Le
parole franarono come una slavina su di loro. Le dita di
Yao si immobilizzarono per un attimo prima di ricominciare a
vezzeggiare la zazzera
e il pesante cappotto dell’uomo.
«Non
ricordi nemmeno questo?» flautò delicato.
«Ricordo
solo che le mie sorelle mi hanno regalato questa
sciarpa. E che mio nonno è stato l’ultima persona
con cui ho parlato. Il resto è
come questa fortezza. Vuoto.»
Yao
scostò la mano dalla sua schiena per sistemare un ciuffo
di capelli lucenti dietro l’orecchio, e confidò:
«La
prima volta che ti ho visto, durante la processione, mi
sono stupito di molte cose. E una di queste è stata che,
mentre sul tuo
cappotto erano chiaramente visibili i segni dei tuoi scontri, la tua
sciarpa
era in perfette condizioni. E anche adesso, è la prima cosa
che lavi non appena
rientri nella fortezza» il dorso della mano di Yao scese a
lambirgli una
guancia, mentre le parole gli accarezzavano la testa: «Anche
se non hai
ricordi, tieni a quel regalo sopra ogni altra cosa. Forse, anche se la
tua
mente l’ha rimosso, da qualche parte sai di aver avuto una
buona famiglia. Per
questo fai in modo di non sporcare mai la sciarpa: per non lordare
anche la
loro memoria.»
Un
paio di occhi ametista lo fissarono dalle pieghe della
camicia.
«Non
ricordo nemmeno le loro facce» lo contraddisse Ivan.
«E
allora perché non butti questa sciarpa?»
Ivan
lanciò un’occhiata alla lana che si srotolava
lungo la
sua spalla. Quella striscia color crema era l’unica cosa che
lo collegava al
suo passato: ogni volta che la sfiorava, il ghiaccio sul suo cuore si
scioglieva per un istante, ricordandogli la gioia del giorno in cui
l’aveva
ricevuta. Poi, tutto tornava arido e gelido. La sciarpa era
l’unica cosa che
gli ricordasse che anche lui, un tempo, era stato umano.
«Tu
sai perché non riesco a ricordare nulla?»
indagò Ivan.
Yao
fece per scostarsi, ma l’uomo strinse ostinatamente la
presa sulla sua vita di giunco. Si rassegnò quindi a restare
nell’abbraccio del
gigante mentre narrava:
«So
che il Custode dei Cancelli deve essere una macchina da
guerra, e, per esserlo, deve disfarsi di ogni suppellettile umano, come
i
sentimenti e i ricordi. Deve essere l’arma inanimata della
Fortezza Errante.
Per questo gli viene applicato il “Cuore
d’Inverno”.»
Il
respiro di Yao ebbe un brusco sobbalzo quando la mano
guantata dell’uomo si fece largo tra i bottoni della camicia
per toccare il
sole nel suo sterno.
«Anche
a te hanno installato un marchingegno?» chiese Ivan.
«Questo
è il nucleo del mio potere di fuoco»
smentì l’Asean.
«E il luogo in cui mi è stata impiantata
l’anima dei miei antenati.»
Ivan
slacciò i bottoni che gli impedivano di vedere il cuore
di fiamme, e l’orientale non poté sottrarsi per
via dell’abbraccio di ferro che
lo imprigionava. Appoggiò la guancia sulla pelle
incandescente del Figlio del
Cielo, e un sorriso beato si dipinse sul suo viso: gli piaceva quel
calore che
non ustionava.
«Cosa
si prova ad avere una memoria generazionale?»
sospirò
Ivan sul suo petto.
Yao
poggiò la mani sulle spalle dell’uomo, come
volesse
spingerlo via, ma non fece la minima pressione su di esse.
«Non
è bello come molta gente può pensare. Mille vite
di
gente che non hai mai conosciuto interferiscono continuamente con il
tuo
percorso e la tua memoria. Non sempre è piacevole. A volte,
si ha la sensazione
di essere solo un vaso vuoto riempito per
l’occasione.»
«Anche
il Cuore d’Inverno» notificò Ivan, lieto
di sapere
quale fosse il nome del ragno di zaffiro. «Cancella la
memoria, e
saltuariamente invia qualche informazione utile. È
così che ho saputo che eri
il Figlio del Cielo.»
Le
braccia dell’Asean, dopo un istante si esitazione,
scivolarono attorno alle spalle dell’uomo, e il mento
affilato si appuntò sulla
sua testa.
«Hai
detto di non riuscire a mantenere vive le tue memorie…
eppure ti ricordavi del nostro primo incontro, perché non ti
sei stupito,
quando te ne ho parlato.»
Gli
occhi di Ivan abbandonarono la sua camicia per
appuntarsi sul viso liscio dell’orientale.
«Quello
è un ricordo che non svanisce» comunicò
il Custode.
Non
capì il motivo della successiva azione del Figlio del
Cielo: vide le sue pupille tremare come i laghi di montagna al disgelo,
e non
staccò gli occhi dal volto del giovane mentre questo si
avvicinava.
Le
labbra roventi di Yao quasi incenerirono le sue, ma il
contatto durò solo qualche istante: l’orientale si
allontanò bruscamente,
premendo una mano sulla bocca.
«Sei…
freddissimo» ansò.
Ivan
ritrasse le labbra per gustare il tepore che ancora
aleggiava su esse. Il calore del Figlio del Cielo aveva un buon sapore.
«È
per colpa del Cuore d’Inverno?»
s’informò Yao.
«È
sempre colpa sua.»
L’Asean
avvicinò la mano alla sua sciarpa, con la lentezza
di chi domanda il permesso a ogni centimetro guadagnato. Il Custode non
si
adirò quando Yao toccò la stoffa preziosa e la
arrotolò sulla sua spalla
robusta, in modo da poter accedere ai bottoni del cappotto.
Liberò
le asole necessarie per aprire anche la camicia
sottostante, e liberare finalmente il livido bagliore del Cuore
d’Inverno.
I
polpastrelli di Yao non sostennero più di qualche secondo
il contatto con quella massa glaciale, e si ritrassero dolenti.
La
successiva concatenazione di eventi fu improvvisa ed
energica come i capricci di un bambino. Ivan sollevò il
corpo magro di Yao, si
sedette sul letto e fece adagiare l’Asean sulle proprie
ginocchia. Non gli
permise di protestare, e lo strinse a sé in modo che il
Cuore d’Inverno e il
suo nucleo di fiamme collidessero, amalgamando le loro emanazioni in un
intreccio di raggi di sole e brividi di ghiaccio.
Sentì
l’orientale tremare per il freddo, tra le sue braccia,
e avvertì la stretta di quelle mani sottili sulle spalle. La
sciarpa scivolò
quasi spontaneamente ad avvolgere il collo dell’Asean,
legandolo a quello del
Siberiano.
«Fallo
di nuovo» ordinò bisognoso Ivan, abbracciando
stretto
quel fisico d’erba. «Quello che hai fatto prima.
Era bello.»
Le
dita di Yao, ancora intirizzite per il gelo, lo
attirarono verso di lui con una presa instabile, fino a che le loro
bocche si
congiunsero nuovamente. L’orientale deglutì e fece
un profondo sforzo per
abituarsi a quelle labbra artiche; aspettò, rabbrividendo,
che un poco del suo
calore migrasse in quella bocca ferma sulla sua. Solo quando i tremori
nel suo
corpo si furono placati osò dischiudere le labbra.
Ivan
si sorprese di come l’Asean tenesse gli occhi chiusi, e
del modo in cui muoveva la lingua nella sua bocca. Non aveva mai visto
due
persone fare la stessa cosa, per cui non capiva quale fosse il
significato di
quel gesto. L’unica cosa che comprendeva era che quelle
movenze erano
piacevoli, e sembravano scaldarlo come il nucleo che palpitava contro
il suo
petto.
Cercò
di imitare Yao, esplorando a sua volta la bocca del
compagno con la lingua. L’Asean emise un respiro strozzato, e
Ivan capì di
essersi spinto troppo a fondo. Riprovò una seconda volta, e
una terza, mentre
chiudeva gli occhi.
Con
le palpebre abbassate, il mondo si limitava
improvvisamente ai loro corpi avvinghiati in un bacio. E Ivan comprese
perché
il Figlio del Cielo tenesse gli occhi serrati: ogni profumo, ogni
sensazione
erano amplificate e rafforzate, dietro il sipario buio delle palpebre.
Le
loro labbra si staccarono con uno schiocco acquoso, e
Ivan provò la subitanea urgenza di cibarsi di nuovo della
bocca dell’orientale,
resa rossa e tumida dal bacio prolungato.
«Sei
diventato… più caldo…»
biascicò l’Asean, su quelle
labbra che cercavano le sue.
Ivan
non rispose, esigendo di nuovo le effusioni
dell’orientale.
Era
ancora freddo, troppo freddo.
Aveva
bisogno che Yao continuasse a scaldarlo.
***
Erano
passati due anni da quel giorno.
Ivan
fissò le spalle nude dell’amante, che spuntavano
dalle
lenzuola. I capelli aggrovigliati scompostamente sul cuscino lasciavano
scoperto il collo levigato.
Il
custode si avvicinò per poggiare un bacio sulle spalle
morbide e un secondo sulla gola scoperta.
Non
voleva che Yao li seguisse alla Prigione Caina, e non
voleva che degli estranei potessero rubare anche solo una molecola
della sua
bellezza. Tuttavia, aveva capito che non avrebbe potuto fermarlo in
nessun modo:
per qualche motivo, Yao era fermamente determinato a liberare
l’Hellsing. Si
chiedeva se avesse a che fare con la predizione del Caos nella
Confederazione,
o se ci fossero altre ragioni.
«Ivan?»
il sonno impastò il richiamo dell’Asean, che si
girò
per osservarlo. «Che cos’hai?»
Il
Custode tuffò il visto nell’incavo del suo collo,
stringendo con tutte le proprie forze le spalle tenere
dell’amante.
Yao
accarezzò la sua schiena svestita, senza porgli
ulteriori domande.
Non
era solo per gelosia che Ivan voleva tenerlo rinchiuso
nel castello. Temeva che, se avesse visto di nuovo il mondo esterno,
Yao
avrebbe abbandonato immediatamente quella fortezza di spettri e ombre.
E non
voleva affogare di nuovo in quella solitudine gelida.
«Fino
a che non uccideremo Kiku, devi restare qui» gli
ricordò.
«Lo
so» confermò ovvio Yao. «È la
nostra promessa.»
Ivan
sigillò quel giuramento sulle labbra
dell’orientale.
In
quel castello, l’Asean era solo suo. Sperava che il mondo
esterno non allungasse i suoi tentacoli malefici anche su quel suo
unico
possedimento. Sul suo solo ricordo.
Capitolo
in
ritardo >_> Chiedo scusa, ma il ritorno per il Giappone e
la stesura
della tesi di laurea hanno tenuto le mie mani ben lontane dalla
tastiera, anche
solo per aggiornare >_>
Comunque,
eccoci
qui<3
E
vorrei tornare
a postare un capitolo alla settimana, come all’inizio<3
Mi
impegnerò al
massimo<3
Nel
prossimo
capitolo si ritorna al presente… e alla Prigione Caina 8D
A
presto<3
Red