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Autore: orocea    14/10/2013    2 recensioni
Castiel vede spesso suo padre.
In realtà non ci ha mai parlato e oggi che ha trent’anni, probabilmente, quell’uomo misterioso di cui ha sempre saputo immaginare solo l’ombra sarà già morto. Però lui lo vede: suo padre è in tutti gli angoli, si riflette in tutti gli specchi del reparto psichiatria.
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Dean Winchester è un ragazzo ben piazzato, con un bel paio di occhi verdi, una discreta fortuna con le ragazze e assolutamente nessuna voglia di operarsi di peritonite.
AU!destiel
Genere: Malinconico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Castiel, Dean Winchester
Note: AU | Avvertimenti: Incompiuta | Contesto: Nessuna stagione
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Nuova nel fandom: questa è la prima fanfic in assoluto che scrivo su Supernatural, e devo ammettere che  buttarmi su una long fic AU non è stata una mossa furba… Spero tuttavia di riuscire a portare avanti questo progetto. Non aggiornerò regolarmente, ma spero comunque che seguiate questa storia.
Vi ringrazio in anticipo.
 

I will kill to be your clothes

 
Castiel vede spesso suo padre.
In realtà non ci ha mai parlato e oggi che ha trent’anni, probabilmente, quell’uomo misterioso di cui ha sempre saputo immaginare solo l’ombra sarà già morto. Però lui lo vede: suo padre è in tutti gli angoli, si riflette in tutti gli specchi del reparto psichiatria. Lawrence Memorial Hospital, Kansas.
Anche se non l’ha mai conosciuto.

Un giorno qualunque sua madre, una donna piccola e potente dalla fronte alta, i capelli rossi di tintura appena fatta e la mascella quadrata, l’aveva portato lì. La mattina, quando si butta giù dal letto per caracollare in bagno a lavarsi la faccia, Castiel si chiede sempre quanto tempo sia passato da allora. Forse tre anni. Poi si dice: è stato il giorno dopo il mio …esimo compleanno – ma non sa mai dire che lettere ci siano prima di quell’ ‘esimo’. Colpa dell’orario. Colpa della schizofrenia. Mamma diceva ‘schizofrenia’ e lui sentiva di non aver afferrato appieno il senso di quella parola tanto spaventosa.
Gli attacchi di panico erano cominciati a vent’anni e lui si era vergognato molto di questo. Sedici anni è l’età giusta per gli attacchi di panico. Non venti. A vent’anni la crisi ormonale, la tempesta siderale, la confusione ancestrale dovrebbero dileguarsi o, perlomeno, trasfigurarsi in una bella ragazza, in un’università prestigiosa e in un lavoretto part-time che ti permetta di fare benzina con i tuoi soldi. Niente di questo era successo.
Castiel lo chiamava ‘casino sociale’ perché gli succedeva dovunque e lui non poteva – e non sapeva – fare altro che scusarsi. Smise di studiare. Per un po’ di tempo lavorò come barista, ma quando svenne per la quinta volta su un boccale di birra rischiando di cavarsi un occhio con le schegge di vetro pensò che forse non era una buona idea.
Figlio di una gravidanza difficile e isolata, non aveva né fratelli né, di fatto, amici, ma solo conoscenti, persone che salutava attraversando le strade di Lawrence mentre andava a fare la spesa per conto di sua madre al discount più vicino. Li vedeva tutti dirigersi a passo sicuro verso il loro scintillante futuro, chi trascinandosi dietro una ventiquattrore di pelle, chi circondato dai propri amici, chi carico di libri universitari, tutti mostruosamente padroni della loro vita perfetta. Castiel sapeva bene cosa provavano mentre gli rivolgevano un cenno frettoloso con la mano o con la testa e poi scattavano via, verso l’infinito e oltre (nessuno si fermava mai a parlargli): pietà, compassione, una forma superficiale d’affetto, ma neanche un briciolo di empatia.
Non credeva di essersela presa poi tanto – in fondo aveva sua madre e sembrava che questo gli bastasse. Ma, arrivato il suo …esimo compleanno, una forza magnetica l’aveva attratto al taglierino che usava quando faceva disegno tecnico alle superiori, l’aveva costretto ad afferrarlo e a tagliarsi le vene come se stesse muovendo l’archetto sulle corde di un violino. Aveva compiuto quell’operazione con lo sguardo attento, come se volesse catturare tutto il dolore col pigmento blu dei suoi occhi, poi aveva riposto la lama insanguinata sulla scrivania della sua stanza, era sceso al piano di sotto con una calma spettrale e aveva raggiunto la cucina dove, parandosi di fronte a una madre pallida e incredula e porgendole i polsi brucianti, aveva supplicato:
«Ti prego, aiutami».
 
Qualche giorno dopo, steso su un letto bianco a lenzuola verdi, con indosso un pigiama bianco che gli pizzicava l’interno coscia, in una stanza con le pareti bianche, aveva confessato a sua madre, seduta al suo capezzale – probabilmente era bianca anche lei – che da un paio di settimane a quella parte vedeva cose che non esistevano. Non riusciva a guardarla bene in faccia per la vergogna di aver tentato il suicidio e cercava di nascondere le braccia sotto le coperte, ma almeno glielo stava dicendo.
«Ho visto mio padre».
«Ma Castiel… Tu non hai mai conosciuto tuo padre».
«Lo so».
Poi le aveva detto che sentiva parlare gli angeli. Ogni tanto, disse, mi si aprono dei condotti nel cervello e mi sento la testa piena di spifferi, e poi un sussurro sommesso ma fitto. Quelli sono gli angeli. Poi ne ho visto uno nella sala d’aspetto, si chiamava Gabriele e mangiava un ombrellino di cioccolata. Forse era travestito da dottore ma non aveva coperto le ali. Forse-


A questo punto sua madre l’aveva zittito con un singhiozzo, e Castiel si era sentito un miserabile.
 
 
Dean Winchester è un ragazzo ben piazzato, con un bel paio di occhi verdi, una discreta fortuna con le ragazze e assolutamente nessuna voglia di operarsi di peritonite. Lawrence Memorial Hospital, Kansas.
Trent’anni e lo incastrano sotto la ridicola copertina di un letto d’ospedale per una peritonite. Dean agita i piedi in fondo al letto, preso da una smania capricciosa.
La sua amata Impala del Sessantotto è lontana, sotto le grinfie di suo fratello – che è un bravo fratello, davvero, e prima che andasse in ospedale si è anche fatto insegnare come mettere a posto il motore in caso di bisogno, ma Dean non sa darsi un minimo di contegno quando è geloso. Non si tratta neanche di una cosa sua (è la macchina d’epoca di suo padre, morto d’infarto tre anni fa), ma la tratta come se fosse la sua sorella minore: se hai intenzione di frequentarla devi chiedere al fratellone.
E il fratellone non te la lascerà mai prendere.
Dean passa così il tempo, sognando la sua macchina dal cofano lucido e ignorando bellamente il libro che suo zio gli ha portato e che lui ha buttato sul tavolino accanto alla brandina. Non gli piace leggere: perde presto la concentrazione. E’ abituato alle riviste pornografiche… Ecco che Dean afferra al volo il flusso dei suoi pensieri come un cagnolino entusiasta farebbe con un freesbee e lancia un’occhiata strategica fuori dalla sua stanza nella speranza di vedere passare qualche bella infermiera dal culetto sodo. Gli basta poco per trascorrere il tempo e per nascondere la paura matta che ha dell’operazione: non potrebbe confessarlo neanche a se stesso, eppure l’idea che gli venga aperta la pancia lo manda nel panico totale. Si dice che il suo lavoro – fa il meccanico nell’officina paterna – è molto più pericoloso e avventuroso di un’operazione chirurgica. Potrebbe caderti addosso il motore. La macchina potrebbe accendersi all’improvviso e calpestarti, inclemente e paranormale, i piedi stesi in fondo alla pancia dell’automobile. Succede… cioè, no: non è mai successo a nessun meccanico. Ma potrebbe sempre succedere. E’ decisamente più pericoloso della peritonite e dell’intervento, già. Più pericoloso.
Dean si perde in queste fantasie fino a sera, come farebbe un bambino il giorno prima di Natale. Poi gli portano la cena, che trangugia di malavoglia per via del suo aspetto poco invitante e si addormenta cercando di non pensare a domani.
 
Alle quattro di notte Castiel scende dal suo letto, con gli occhi spalancati. Ha nello sguardo un’illuminazione, come se avesse colto il senso delle cose, tutte. Di fronte a lui, suo padre gli sorride in maniera confidenziale: forse si conoscono da sempre. Rimane a guardarlo, Castiel, e sa che non è vero, che è una proiezione mentale, la disfunzione di una retina impazzita. Ma quando suo padre si volta e apre la porta della sua stanza sul corridoio, lui non può fare altro che seguirlo, mantenendosi vicino a una parete e toccandola con le dita per evitare di perdere il contatto con la realtà.
Suo padre percorre l’ospedale dai colori spenti e scrostati come se conoscesse la struttura intera da molto tempo. I suoi mocassini alla moda non fanno rumore quando battono sul pavimento. L’andatura spedita non è quella di un uomo della sua età. Castiel non riesce a distinguere nient’altro di suo padre se non le scarpe e le gambe. Pochi istanti prima ha visto la sua faccia, ma non saprebbe descriverla. E’ la faccia di suo padre. Non riesce a districare il nodo ‘padre’ e analizzarne tutti i fili. E’ solo padre.
A un tratto, Padre entra in una stanza, apparentemente scelta a caso. Castiel è preso dal panico, ma non si ferma.
«Non entrare!» urla. «Papà!».
Incespica in avanti, confuso, finché non sbatte il naso sul petto del paziente importunato, che sta in piedi sull’uscio della sua stanza.
«Scusa» gli dice Castiel, ansimando. «Mio padre ti ha disturbato…» e qui si interrompe con orrore perché ha lasciato che le sue allucinazioni diventassero reali. Suo padre non è mai esistito. Suo padre non è mai…
L’altro lo scrolla per le spalle, giusto prima che lui impazzisca. «Qui non c’è nessuno», dice. «Ti devi essere sbagliato».
«Ho sbagliato» dice. Cerca di ricomporsi. Sua madre gli ha sempre detto che è timido, ingenuo e saggio insieme. Cerca di ristabilire le tue componenti principali, Castiel.
«Scusa. Sono Castiel e sono ricoverato al reparto psichiatria». Lo dice come se questo potesse spiegare tutto. All’improvviso si vergogna tremendamente.
«Io sono Dean… E questo è il reparto chirurgia gastrica. Come accidenti hai fatto a finire qui?».
«Non so davvero, mi dispiace molto».
Dean tossisce e Castiel capisce di dover fare mezzo passo indietro per ristabilire tra loro una distanza accettabile.
Ora che lo guarda meglio, nota che l’altro è decisamente ben piazzato, muscoli in vista sotto il pigiama scadente da ricoverato, occhi verdi e labbra sottili ma carnose come certe foglie che ha visto in un parco botanico, tanto tempo fa, quando era bambino.
Dean vede lo smarrimento del ragazzo dalla mascella quadra e dagli occhi penetranti – così penetranti che sembra abbia fatto uso di stupefacenti – e non sa che dire.
Fruga nella sua testa alla ricerca di qualche frase d’occasione ignorando lo stomaco che brucia (non dovrebbe stare alzato) e alla fine gli chiede se sa come tornare al suo reparto.
Castiel gli dice di sì ed è chiaro che sia una bugia, ma sembra che a entrambi vada bene così.
Nel corridoio si sente il tonfo di una porta chiusa e un passo mesto di pantofole strascicate sulle mattonelle.
  
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