Fanfic su artisti musicali > Malice Mizer
Segui la storia  |       
Autore: Vitani    07/04/2008    3 recensioni
Questa è una storia d'amore, di odio, di una carriera musicale ed artistica, di una maturazione, di come gli incontri detti "del destino" possono cambiare la vita. È la storia di due ragazzi in particolare: Mana, un chitarrista, e Gackt, un cantante. Entrambi passionali, entrambi sognatori.
"Simile ad una fiaba è questa storia, dove una dama e un cavalier rincorrono l’amore con solerzia, pronti in nome di esso a dare tutto. Si leggeranno lacrime, amore, risate e fremiti di gelosia, d’angoscia e di paura. Saranno tormentosi i nostri canti, piene di gioia le risate, e se malinconia occuperà il cuore, ci basterà cantare una canzone."
Genere: Commedia, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, Gackt, Mana
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
- Mad Tea Party -

- Mad Tea Party -


ATTO PRIMO, SCENA DUODECIMA
-
Il Destino del Giglio Bianco

 

 

 

 

E così se ne era tornato a Kyoto da bravo reduce e senza protestare e senza tantomeno sapere cosa ne sarebbe stato della sua vita da quel momento in avanti.

Quando Mana aveva parlato e gli aveva fatto la proposta s’era sentito il cervello in frantumi e qualche uccello gli doveva aver beccato via le briciole perché non pareva che sarebbe tornato a posto tanto presto.

Continuava a pensarci, aveva continuato a pensarci mentre guidava lungo la via di casa e ci rimuginava ancora adesso che era rientrato e si stava preparando una cena più che mai frugale.

Pure lo stomaco gli aveva chiuso, quel chitarrista maledetto. Non riusciva a mangiare da quanto lo pensava.

E che cazzo, manco fosse stato una bella donna!

In un flash subitaneo quanto potentemente inarrestabile gli venne in mente l’effimera immagine di quel ragazzo che usciva dal bagno avvolto nell’asciugamano, e di come quel suo piedino candido fosse guizzato via rapido come un serpente quand’era fuggito nella sua stanza lasciandolo basito come un povero idiota quale effettivamente temeva di essere.

Si ravviò con una mano i lunghi capelli castani piluccando il cibo senza convinzione e s’accese una sigaretta fumandola come se fosse stata l’ultima.

Doveva decidere, assolutamente.

Sputò il mozzicone.

Come se ci fosse stata una qualche decisione da prendere, lui sapeva quello che avrebbe fatto con la certezza con cui sapeva di voler rivedere quel matto di un Manabu.

Voleva spaccare tutto, aveva il bisogno viscerale di fare a pezzi qualcosa che non fosse stato il tavolo della cucina o la tenda del salotto, voleva… risentirlo.

Cazzo!

Ma telefonargli voleva dire dovergli dare una risposta… e lui… quella risposta la sapeva, in cuor suo. La sapeva ma gli mancava ancora la coscienza per pronunciarla.

Doveva sistemare delle cose e doveva ultimare più di una follia, sapeva che era una follia ma se pensava agli occhi neri e scintillanti di quel ragazzo si sentiva in grado di compierne qualcuna più del necessario e la cosa lo preoccupava e lo inquietava in più misure.

Batté più volte il piede sul pavimento come se una decisione fosse stata lì lì per piombargli dal cielo dritta nel piatto con gli avanzi e fu quasi certo che nel caso l’avrebbe buttata nella spazzatura pure quella.

La cosa da tenere presente era una, sempre una. Quello che voleva fare lui, Satoru Okabe maledettissimo. Alla fine c’era la sua vita in ballo, la sua sola fottutissima inutile vita che ogni tanto avrebbe abbandonato volentieri. Eppure… un’occasione come quella non era da sprecare. Non aveva mai pensato di trasferirsi a Tokyo prima, aveva già un lavoro fisso che gli rendeva bene e una band con cui fare qualche live per passare il tempo. Ma arrivare a…

La musica la faremo noi due, insieme.

Chiuse gli occhi ed ignorò una goccia solitaria di sudore freddo che gli percorse rapida una tempia.

Non ci sarebbe voluto molto.

Era una pazzia, una pazzia!

Con quel pensiero in mente si mosse, prese le chiavi della macchina e s’avviò per andare al lavoro.

Mentre metteva in moto la Ferrari, comunque, il lavoro era l’ultimo dei suoi pensieri.

 

« Capo, io… mi licenzio. »

Il suo datore di lavoro lo stava guardando basito come dopo un brutto scherzo, peccato che lui non stesse scherzando affatto.

Avevano sempre avuto un bel rapporto loro due, e senz’altro quella decisione sputata così all’improvviso doveva sembrargli un’assurdità.

« Che vuol dire che ti licenzi, Satoru? »

« Vuol dire quello che ho detto. »

Erano nell’ufficio del suo capo, uno o due piani più in alto del casinò dove Satoru aveva lavorato fino a un paio di secondi prima. Lui teneva gli occhi bassi, inspiegabilmente temendo d’avere fatto una volta di più una sciocchezza ma certo che fosse ormai tardi per pentirsi. E poi, alla fine… aveva deciso di mettere il suo destino in moto, perché d’aspettare la morte s’era stancato da tempo.

« E per quale motivo? »

Sbatté un paio di volte le palpebre e sollevò leggermente le iridi nocciola a guardare quell’uomo che gli aveva parlato incredibilmente senza alcuna rabbia, e la cui voce pacata gli portava soltanto curiosità, dietro allo sgomento.

« Perché… vado a Tokyo. A cercare di sfondare come musicista. »

L’uomo, che gli stava seduto di fronte, restò in silenzio come a voler ponderare quella possibilità. Conosceva abbastanza bene Okabe da sapere quanto fosse grande la sua passione per la musica e quanto fosse altrettanto enorme il suo carisma.

« Hai già un’idea su come muoverti, una volta a Tokyo? »

« Ecco… un mio amico ha un gruppo, e cercano un vocalist. Sembra che io gli vada a genio, e ha praticamente deciso di reclutarmi. »

« E tu che ne pensi? È poco più di un sogno, un azzardo rispetto a tutto quello che hai ora. Sei sicuro di volerlo lasciare così? »

Non gli stava chiedendo di non andarsene. Non lo stava facendo.

Prese un sospiro.

« Sì. »

Se gli avessero domandato che certezze aveva, ebbene in quel momento ne aveva una sola: voleva rivedere Manabu Satou. Voleva rivederlo e percorrere il sentiero che lui gli aveva spianato, fosse anche stata una sciocchezza non avrebbe avuto rimpianti a buttarcisi. Era il ragionamento di un pazzo e ne era consapevole, poiché ad occhi esterni solo un cretino avrebbe lanciato al vento quel che lui possedeva per  infilarsi in un’impresa apparentemente senza capo né coda e soprattutto che non gli garantiva alcun futuro.

Però… voleva credere che a spingerlo verso Mana fosse stato il destino.

Quello stesso destino che gli aveva insegnato a cogliere le occasioni non appena gli si offrivano.

« Se tu ne sei convinto, allora va bene. »

Trattenne il fiato.

« Satoru, io ti conosco abbastanza bene da sapere quanto profondo sia il tuo desiderio di andartene, in fondo. Tu sei un ragazzo molto in gamba e sono certo che saprai cavartela. L’importante è che tu non perda mai di vista te stesso, qualsiasi cosa ti succeda. »

Gli parlava come un padre, quell’uomo, come quel padre che lui in un certo qual senso non aveva mai avuto. Avrebbe dovuto andarsene, sì, avrebbe dovuto farlo.

Eppure una cosa sentì di dovergliela, a quell’uomo che continuava a sorridergli nonostante i suoi occhi dicessero tutt’altro.

S’inchinò, e con le lacrime agli occhi urlò: « Grazie mille di tutto! »

Quella notte la trascorse insonne, come al solito, a girovagare per Kyoto e a perdersi fra le tenui luci notturne dei templi e delle vie e fra i rami stormenti degli alberi di ginkgo per poi alzare gli occhi al cielo a guardare le stelle che in silenzio illuminavano la volta nera come pece.

Avrebbe avuto altre questioni da sistemare a giorno fatto, questioni che riguardavano le persone che per lui erano più importanti della vita.

Doveva parlare con Ren, con You, con Kyoko… e con sua sorella.

 

Fu proprio a lei che telefonò per prima l’indomani, lei che abitava ancora ad Okinawa coi loro genitori.

« Pronto, Mari? »

Come aveva pregato, rispose immediatamente proprio lei. Gli parve sorpresa, anzi certamente lo era visto che non erano neppure le sette del mattino. Dalla voce, l’aveva svegliata lui con la sua chiamata.

« Satoru? »

Era piuttosto raro che lui telefonasse, quasi sempre accadeva il contrario. Era sempre lei a cercarlo, e ogni tanto i suoi quando si ricordavano di avere ancora un figlio.

« Sì, sono io. Papà e mamma sono svegli? »

« No, stanno ancora dormendo. »

« Allora parla sottovoce e non dir loro che ti ho telefonato. »

« Che succede? »

Lui rimase in silenzio, e nella voce della sorella si espanse una nota d’allarme.

« Satoru, che succede? »

Aveva due anni più di lui, Mari, e fin da quando erano piccoli gli era sempre stata accanto ed era stata la sua famiglia. Non l’avrebbe mai ringraziata abbastanza.

« Mari, io vado a Tokyo! »

« Cosa? »

« Non urlare! E non dire niente a mamma e papà! »

« Che vuol dire che vai a Tokyo? Così all’improvviso? Dove sei adesso? »

« Sono ancora a Kyoto, ma conto di partire appena potrò. Vado a fare il cantante, sorellona! »

Più ne parlava più se ne convinceva: era inutile, ormai era in pista e doveva ballare fino alla fine.

« Aspetta un secondo… spiegati meglio. »

Un ghignetto apparve sulle sue labbra carnose mentre pronunciava le frasi che avrebbero dovuto convincere sua sorella della bontà della causa.

« Un mio amico ha una band a Tokyo e ha bisogno di un cantante, così mi ha chiesto se mi andava di entrare nel suo gruppo. »

« E tu hai accettato? »

« Sì. »

« Ma chi è questo amico? »

« Si chiama Mana. »

Chiaramente un nome d’arte, poté leggere il disappunto nel silenzio che seguì il sospiro di Mari, in quel modo suo fratello le stava precludendo ogni possibilità di rintracciarlo se per caso avesse voluto farlo.

« Ascolta… fai come vuoi. Tanto so che non potrei fare niente per trattenerti. Però… solo una cosa. Chiamami quando ti sarai sistemato, non farmi stare in pensiero. »

Satoru sorrise. Anche quando s’era trasferito a Kyoto, aveva sorpreso tutti riuscendo a cavarsela meravigliosamente a dispetto dei suoi traumi passati.

« Non preoccuparti, di soldi ne ho parecchi da parte e non dovrei avere problemi, e mi troverò un altro part-time finché la band non ingranerà. »

« Sei sicuro che non vuoi che ne parli a mamma e papà? »

« Sicurissimo. E tanto non gliene fregherebbe comunque nulla. »

« Avanti fratellino, sai che non ti voglio sentire parlare così. »

« E perché, non è la verità forse? In ogni caso… lasciamo perdere dai. Mi faccio vivo io appena posso. Ciao Mari, ti voglio bene. »

Mise giù, tenendo fede una volta di più a quella brutta abitudine che non consentiva agli altri di replicare e che lasciava sempre a lui l’ultima parola, quella che decideva tutto.

Ora… le faccende da sistemare erano ridotte a due.

E sarebbero state le più dure e difficili.

Sospirò, andando alla finestra ed aprendola per assaporare un poco l’aria ancora fresca del mattino di Kyoto, in quell’appartamento che di lì a pochi giorni avrebbe lasciato.

Si sedette sul davanzale, e s’accese mestamente una sigaretta lanciando giù verso la strada un fiammifero spento.

 

L’aveva chiamata domandandole di vedersi per una questione urgente, e ora la stava aspettando appostato fuori dal palazzo dell’ufficio dove la sua ragazza lavorava.

Era quasi ora di pranzo, sperava che sarebbe riuscita a liberarsi per parlargli.

Come desiderava, la vide uscire vestita con la divisa della sua ditta e uno zainetto in mano. Correva verso di lui come se fosse stata l’ultima volta che lo vedeva.

« Satoru! »

Lui la abbracciò un poco, dandole un lieve bacio sulle labbra. Kyoko era una ragazza della sua stessa età, piccola e graziosa e con la bocca tonda che pareva quasi un cuoricino. Era sempre stata gentile con lui, anche se stavano insieme da poco più di un anno, e ora lui avrebbe finito per ferirla forse irrimediabilmente. Come avrebbe fatto anche con gli altri, con Ren, con You… forse li avrebbe persi tutti quanti, per sempre.

« Ciao, devo parlarti. »

Eccolo, andava dritto al sodo.

« C’è un posto dove ci possiamo sedere? »

Lei lo portò nel cortile interno del palazzo, su una panchina in pieno sole che per un istante gli abbacinò gli occhi con la sua lucentezza. Forse era stata colpita dal suo sguardo serio, lui che di solito aveva sempre il sorriso sulle labbra e la spavalderia addosso. E Satoru, ora, non sapeva bene come parlare.

« Ti ricordi quando ti ho telefonato dicendoti che ero a Tokyo? »

Kyoko parve sorpresa, e alzò il viso verso di lui.

« Sì. »

Di contro, lui le sue iridi nocciola le abbassò sul lastricato e sull’erba scintillante del prato del cortile.

« Ero a casa di un mio amico, che ha una band. »

« Sì… »

Lei lo conosceva, sapeva bene quanto amasse la musica, quanto ci tenesse, che genere di vocalist fosse. Sapeva bene quanto in realtà il suo sogno fosse di vivere cantando.

Lei, forse, stava immaginando quali sarebbero state le sue prossime parole, perché insistentemente cominciò a fissare i suoi piedi, stretti in piccoli mocassini marroni.

« Mi ha chiesto di diventare il suo vocalist. »

« E tu hai accettato? »

« Sì. Lavorare con lui è quello che desidero. »

Chissà poi perché. Ancora se lo chiese. Chissà poi perché…

« E quindi… »

Sì, lo sapeva, glielo sentì nella voce che si ruppe.

« Quindi mi trasferisco a Tokyo. »

« Ma… e noi? »

Non c’erano mai state promesse di matrimonio fra loro, assolutamente. In verità dopo il fallimento del suo precedente matrimonio, lui pensava proprio che quel passo non l’avrebbe fatto mai più. E non avrebbe mai avuto neppure bambini, mai.

« Tu… non puoi venire con me, vero? »

Non le chiese di seguirlo per forza, anzi parve perfino a se stesso che volesse fare di tutto per dissuaderla, per distaccarsi da quella gentilissima creatura che aveva le lacrime agli occhi.

Era una cosa impossibile, lo sapevano entrambi.

Lei non poteva in alcun modo lasciare il suo lavoro, una carriera in azienda già avviata, per seguire in una capitale sconosciuta il suo ragazzo che voleva volare dietro ad un sogno. Era impossibile.

La osservò scuotere la testa, dai sottili capelli neri legati in un codino sul capo.

« No… non posso. »

Prevedibile, in ogni sua forma quel rifiuto era stato prevedibile.

« E allora… ci lasciamo? »

Fu crudele. Fu immensamente spietato e crudele come avrebbe potuto esserlo un bambino nello strappare le ali a una libellula, le sputò in faccia la verità con tutto l’impassibile candore che la sua voce in quel momento piatta riuscì a mantenere. Perché la lasciava, poi? Perché rinunciava a un anno e più di momenti gradevoli ma non felici, di tranquillità apparente, di routine e di noia perfino? Perché?

Per la sola immagine di un ragazzo, per la sola visione di un sogno, per una scia di capelli neri che correvano nel vento scuro della notte accanto a lui e insieme a lui raggiungevano un punto che non riusciva a vedere.

Per un’altra persona.

Una persona dai capelli come l’ombra e la pelle come il marmo, che gli aveva spalancato le porte di un mondo che lui non aveva mai neppure osato immaginare, che quel mondo lo scorgeva come incantato ed abbagliato da un’estasi profonda che lo trascinava verso il mare di se stesso.

Mana quel mondo ce l’aveva dentro, era lui quel mondo, era lui quel mare insondabile profondo e potente come una tempesta, e che tuttavia Satoru sentiva di voler attraversare, per lasciarsi trasportare dove la sua corrente avrebbe voluto.

Non ce la faceva.

Doveva tornare da lui, ad ogni costo, da quello che da qualche giorno era il centro dei suoi pensieri. Gli pareva incredibile che quel ragazzo fisicamente tanto più piccolo e gracile di lui potesse apparirgli tanto grande, e avrebbe dato qualunque cosa per poterlo in qualche modo raggiungere. Solo standogli vicino poteva riuscirci.

Kyoko non gli disse nulla, solo gli voltò le spalle e Satoru vide che stava singhiozzando leggermente. Provò a toccarla allungando una mano, ma questa venne violentemente schiaffeggiata via.

« Non pensare che non ti ami… » le disse, soltanto.

Solo che, evidentemente, non era il loro destino.

 

Ciò non gli impedì di sentire un magone allo stomaco per tutto il giorno seguente. Solo una cosa era rimasta a preoccuparlo, una cosa che nella sua bocca aveva tutto il sapore di un tradimento, uno sporco fottuto tradimento.

Doveva dirlo a Ren, e a You, ai suoi due adoratissimi fratelli di spirito.

Li avrebbe visti la sera, sarebbero usciti come al solito per farsi una bevuta in giro per locali. Solo che lui non avrebbe avuto molto da bere.

Si preparò in silenzio, senza ascoltare un briciolo di musica, indossando una di quelle giacche bianche che gli piacevano tanto. Ad essere sinceri, non sapeva se avrebbero capito. Li stava abbandonando, stava mollando i Cain’s Feel, quella band che per lui aveva rappresentato così tanto. Si sentiva un codardo, uno stronzo maledetto e un egoista e lo era sul serio, cazzo!

Poteva solo sperare che non gliel’avrebbero fatta pesare troppo, ma un lato di se stesso continuava a sussurrargli che si meritava qualunque insulto gli avrebbero scaricato addosso.

Suonò più volte il campanello di casa sua, e quando aprì lo accolse il viso sorridente di You e gli crollò ancora la terra sotto i piedi.

Pensò a Mana allora, come a un pensiero consolatorio.

« Ciao, Camui Gackt! Dove sei sparito per ben tre giorni? »

Eccolo là, dritto dritto nel tasto che non si sentiva ancora pronto a toccare. Sorrise, o se ne sforzò.

« A Tokyo… »

« A Tokyo? »

Annuì.

« A trovare quel chitarrista mio amico, te ne avevo parlato… »

« Sì! »

Il sorriso di You non si spense, perché evidentemente davvero non sospettava nulla.

« Ecco… quando sarà arrivato anche Ren, devo dirvi una cosa. »

Ancora riusciva a fingere di sorridere, anche quando l’angoscia stava rischiando di fargli venire le lacrime agli occhi.

« Che c’è? »

Non ebbe il coraggio di guardare You in faccia, quel coraggio gli mancò all’improvviso, e solo allora il suo amico parve comprendere che sotto quell’apparentemente innocua uscita serale c’era dell’altro.

Salì in macchina con You, caricarono Ren e s’avviarono al solito locale.

Fu col cuore in gola che Gackt parlò, dopo qualche giro di birra che sperava fosse abbastanza per sciogliergli la lingua. Fu col cuore in gola che li guardò entrambi, che riassunse loro quei tre giorni che aveva vissuto come in un sogno, ma ancora non riuscì a decidersi a pronunciare le parole “vi lascio”. Gli sarebbero costate un pezzo di cuore e quel pezzo l’avrebbe rimpianto per sempre.

« E come sono questi ragazzi allora? » stava domandando Ren.

Camui sorrise, quasi timidamente.

« Molto… divertenti. Sono divertenti e strani. Diversi da tutte le altre persone che conosco. »

« E Takeshi che dice? È un sacco che non si fa sentire! »

« Lui è il solito stronzo, non vale manco la pena stare a parlarne… »

« Che hai? Com’è che non ti va di parlare? Proprio a te! »

Satoru non rispose, non subito. Più semplicemente si limitò a fissare il suo bicchiere di birra ghiacciata, osservando la schiuma che si diradava piano piano e le piccole scie di bolle che salivano lungo il vetro freddo del boccale.

« È che… io… come la prendereste se vi dicessi che voglio diventare il loro vocalist? »

Rimasero immobili, attoniti entrambi e lo fissarono per molti secondi senza alcuna parola. Gackt chiuse gli occhi, quasi temendo di essere picchiato. Invece, inaspettatamente, Ren gli diede una leggera pacca sulla spalla.

« Per te i Cain’s Feel erano un gioco? »

Alzò lo sguardo, sorpreso.

« No! I Cain’s Feel rimarranno una parte di me per sempre. E tornerò, se coi Malice Mizer non andrà. »

« Quindi per te saremmo una ruota di scorta? »

Ma Ren non lo guardava negli occhi.

« Ren… »

Rimasero in silenzio tutti e due, perché Satoru non si sentiva in diritto di dir nulla, né di replicare in qualche modo. Sarebbe stato ingiusto ed impossibile per lui cercare di spiegar loro che cosa era stato l’incontro con Mana, che cosa gli aveva trasmesso stare vicino a quella persona… avrebbero dovuto vederlo, e parlarci. Solo allora si sarebbero resi conto di quanto era grande, come se ne era accorto lui, come se n’era accorto quell’istinto che l’aveva attirato verso quella persona come un pezzo di ferro verso una calamita e come una falena verso la luce. Avrebbe voluto che lo vedessero. Il sole che aveva attirato Icaro alla morte.

« Io… ve li farò conoscere prima o poi… »

Inaspettatamente, si trovò circondato dalle lunghe braccia di You, che lo strinse forte un solo attimo per poi lasciarlo andare.

« Qualunque cosa tu fai la fai sempre fino in fondo. Se vai a Tokyo ricordati che ci siamo anche noi, mi raccomando! E soprattutto… questi Malice Mizer, portali fino al cielo! »

Aveva ancora il sorriso sulla bocca carnosa dai denti un po’ grossi, You, e fu guardando il suo migliore amico negli occhi che tornò ad abbracciarlo, e che sentì le lacrime scivolargli per la prima volta lungo le guance.

Forse non avrebbe mai più suonato con loro, forse sarebbero rimasti divisi per sempre, forse sotto sotto stavano covando l’odio. Ma erano i suoi amici, e lui di loro si fidava e si sarebbe fidato sempre. Non l’avrebbero abbandonato. Non l’avrebbero abbandonato mai.

A questo pensò per tutta la notte, ancora insonne come sempre, fumando la solita sigaretta e guardando le solite stelle che nel cielo buio di Tokyo non splendevano così luminose e si domandò in silenzio cosa lo attendeva il giorno dopo, trovandosi inaspettatamente a sperare in un mattino che s’approssimava contro la scia di fumo della sigaretta e pareva che gli illuminasse il futuro.

Pareva una strada, quella scia, la strada che avrebbe percorso il suo destino.

 

 

 

 

- Fine Primo Atto –

 

 

N.d.A. Solo un appunto… è finito il primo atto! E al prossimo vi aspetta una sorpresa!

 

Vitani

 

   
 
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > Malice Mizer / Vai alla pagina dell'autore: Vitani