- Mad Tea Party -
ATTO PRIMO, SCENA DUODECIMA
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Il Destino del Giglio Bianco
E così se ne era tornato a Kyoto da bravo
reduce e senza protestare e senza tantomeno sapere cosa ne sarebbe stato della
sua vita da quel momento in avanti.
Quando Mana aveva parlato e gli aveva fatto la
proposta s’era sentito il cervello in frantumi e qualche uccello gli doveva
aver beccato via le briciole perché non pareva che sarebbe tornato a posto
tanto presto.
Continuava a pensarci, aveva continuato a
pensarci mentre guidava lungo la via di casa e ci rimuginava ancora adesso che
era rientrato e si stava preparando una cena più che mai frugale.
Pure lo stomaco gli aveva chiuso, quel
chitarrista maledetto. Non riusciva a mangiare da quanto lo pensava.
E che cazzo, manco fosse stato una bella donna!
In un flash subitaneo quanto potentemente
inarrestabile gli venne in mente l’effimera immagine di quel ragazzo che usciva
dal bagno avvolto nell’asciugamano, e di come quel suo piedino candido fosse
guizzato via rapido come un serpente quand’era fuggito nella sua stanza lasciandolo
basito come un povero idiota quale effettivamente temeva di essere.
Si ravviò con una mano i lunghi capelli castani
piluccando il cibo senza convinzione e s’accese una sigaretta fumandola come se
fosse stata l’ultima.
Doveva decidere, assolutamente.
Sputò il mozzicone.
Come se ci fosse stata una qualche decisione da
prendere, lui sapeva quello che avrebbe fatto con la certezza con cui sapeva di
voler rivedere quel matto di un Manabu.
Voleva spaccare tutto, aveva il bisogno
viscerale di fare a pezzi qualcosa che non fosse stato il tavolo della cucina o
la tenda del salotto, voleva… risentirlo.
Cazzo!
Ma telefonargli voleva dire dovergli dare una
risposta… e lui… quella risposta la sapeva, in cuor suo. La sapeva ma gli
mancava ancora la coscienza per pronunciarla.
Doveva sistemare delle cose e doveva ultimare
più di una follia, sapeva che era una follia ma se pensava agli occhi neri e
scintillanti di quel ragazzo si sentiva in grado di compierne qualcuna più del
necessario e la cosa lo preoccupava e lo inquietava in più misure.
Batté più volte il piede sul pavimento come se
una decisione fosse stata lì lì per piombargli dal cielo dritta nel piatto con
gli avanzi e fu quasi certo che nel caso l’avrebbe buttata nella spazzatura
pure quella.
La cosa da tenere presente era una, sempre una.
Quello che voleva fare lui, Satoru
Okabe maledettissimo. Alla fine c’era la sua vita in ballo, la sua sola
fottutissima inutile vita che ogni tanto avrebbe abbandonato volentieri.
Eppure… un’occasione come quella non era da sprecare. Non aveva mai pensato di
trasferirsi a Tokyo prima, aveva già un lavoro fisso che gli rendeva bene e una
band con cui fare qualche live per passare il tempo. Ma arrivare a…
La
musica la faremo noi due, insieme.
Chiuse gli occhi ed ignorò una goccia solitaria
di sudore freddo che gli percorse rapida una tempia.
Non ci sarebbe voluto molto.
Era una pazzia, una pazzia!
Con quel pensiero in mente si mosse, prese le
chiavi della macchina e s’avviò per andare al lavoro.
Mentre metteva in moto
« Capo, io… mi licenzio. »
Il suo datore di lavoro lo stava guardando
basito come dopo un brutto scherzo, peccato che lui non stesse scherzando
affatto.
Avevano sempre avuto un bel rapporto loro due,
e senz’altro quella decisione sputata così all’improvviso doveva sembrargli
un’assurdità.
« Che vuol dire che ti licenzi, Satoru? »
« Vuol dire quello che ho detto. »
Erano nell’ufficio del suo capo, uno o due
piani più in alto del casinò dove Satoru aveva lavorato fino a un paio di
secondi prima. Lui teneva gli occhi bassi, inspiegabilmente temendo d’avere
fatto una volta di più una sciocchezza ma certo che fosse ormai tardi per
pentirsi. E poi, alla fine… aveva deciso di mettere il suo destino in moto,
perché d’aspettare la morte s’era stancato da tempo.
« E per quale motivo? »
Sbatté un paio di volte le palpebre e sollevò
leggermente le iridi nocciola a guardare quell’uomo che gli aveva parlato
incredibilmente senza alcuna rabbia, e la cui voce pacata gli portava soltanto
curiosità, dietro allo sgomento.
« Perché… vado a Tokyo. A cercare di sfondare
come musicista. »
L’uomo, che gli stava seduto di fronte, restò
in silenzio come a voler ponderare quella possibilità. Conosceva abbastanza
bene Okabe da sapere quanto fosse grande la sua passione per la musica e quanto
fosse altrettanto enorme il suo carisma.
« Hai già un’idea su come muoverti, una volta a
Tokyo? »
« Ecco… un mio amico ha un gruppo, e cercano un
vocalist. Sembra che io gli vada a genio, e ha praticamente deciso di
reclutarmi. »
« E tu che ne pensi? È poco più di un sogno, un
azzardo rispetto a tutto quello che hai ora. Sei sicuro di volerlo lasciare
così? »
Non gli stava chiedendo di non andarsene. Non
lo stava facendo.
Prese un sospiro.
« Sì. »
Se gli avessero domandato che certezze aveva,
ebbene in quel momento ne aveva una sola: voleva rivedere Manabu Satou. Voleva
rivederlo e percorrere il sentiero che lui gli aveva spianato, fosse anche
stata una sciocchezza non avrebbe avuto rimpianti a buttarcisi. Era il
ragionamento di un pazzo e ne era consapevole, poiché ad occhi esterni solo un
cretino avrebbe lanciato al vento quel che lui possedeva per infilarsi in un’impresa apparentemente senza
capo né coda e soprattutto che non gli garantiva alcun futuro.
Però… voleva credere che a spingerlo verso Mana
fosse stato il destino.
Quello stesso destino che gli aveva insegnato a
cogliere le occasioni non appena gli si offrivano.
« Se tu ne sei convinto, allora va bene. »
Trattenne il fiato.
« Satoru, io ti conosco abbastanza bene da
sapere quanto profondo sia il tuo desiderio di andartene, in fondo. Tu sei un
ragazzo molto in gamba e sono certo che saprai cavartela. L’importante è che tu
non perda mai di vista te stesso, qualsiasi cosa ti succeda. »
Gli parlava come un padre, quell’uomo, come
quel padre che lui in un certo qual senso non aveva mai avuto. Avrebbe dovuto
andarsene, sì, avrebbe dovuto farlo.
Eppure una cosa sentì di dovergliela, a
quell’uomo che continuava a sorridergli nonostante i suoi occhi dicessero
tutt’altro.
S’inchinò, e con le lacrime agli occhi urlò: «
Grazie mille di tutto! »
Quella notte la trascorse insonne, come al
solito, a girovagare per Kyoto e a perdersi fra le tenui luci notturne dei
templi e delle vie e fra i rami stormenti degli alberi di ginkgo per poi alzare
gli occhi al cielo a guardare le stelle che in silenzio illuminavano la volta
nera come pece.
Avrebbe avuto altre questioni da sistemare a
giorno fatto, questioni che riguardavano le persone che per lui erano più
importanti della vita.
Doveva parlare con Ren, con You, con Kyoko… e
con sua sorella.
Fu proprio a lei che telefonò per prima
l’indomani, lei che abitava ancora ad Okinawa coi loro genitori.
« Pronto, Mari? »
Come aveva pregato, rispose immediatamente proprio
lei. Gli parve sorpresa, anzi certamente lo era visto che non erano neppure le
sette del mattino. Dalla voce, l’aveva svegliata lui con la sua chiamata.
« Satoru? »
Era piuttosto raro che lui telefonasse, quasi
sempre accadeva il contrario. Era sempre lei a cercarlo, e ogni tanto i suoi
quando si ricordavano di avere ancora un figlio.
« Sì, sono io. Papà e mamma sono svegli? »
« No, stanno ancora dormendo. »
« Allora parla sottovoce e non dir loro che ti
ho telefonato. »
« Che succede? »
Lui rimase in silenzio, e nella voce della
sorella si espanse una nota d’allarme.
« Satoru, che succede? »
Aveva due anni più di lui, Mari, e fin da
quando erano piccoli gli era sempre stata accanto ed era stata la sua famiglia.
Non l’avrebbe mai ringraziata abbastanza.
« Mari, io vado a Tokyo! »
« Cosa? »
« Non urlare! E non dire niente a mamma e papà!
»
« Che vuol dire che vai a Tokyo? Così
all’improvviso? Dove sei adesso? »
« Sono ancora a Kyoto, ma conto di partire
appena potrò. Vado a fare il cantante, sorellona! »
Più ne parlava più se ne convinceva: era
inutile, ormai era in pista e doveva ballare fino alla fine.
« Aspetta un secondo… spiegati meglio. »
Un ghignetto apparve sulle sue labbra carnose
mentre pronunciava le frasi che avrebbero dovuto convincere sua sorella della
bontà della causa.
« Un mio amico ha una band a Tokyo e ha bisogno
di un cantante, così mi ha chiesto se mi andava di entrare nel suo gruppo. »
« E tu hai accettato? »
« Sì. »
« Ma chi è questo amico? »
« Si chiama Mana. »
Chiaramente un nome d’arte, poté leggere il
disappunto nel silenzio che seguì il sospiro di Mari, in quel modo suo fratello
le stava precludendo ogni possibilità di rintracciarlo se per caso avesse
voluto farlo.
« Ascolta… fai come vuoi. Tanto so che non
potrei fare niente per trattenerti. Però… solo una cosa. Chiamami quando ti
sarai sistemato, non farmi stare in pensiero. »
Satoru sorrise. Anche quando s’era trasferito a
Kyoto, aveva sorpreso tutti riuscendo a cavarsela meravigliosamente a dispetto
dei suoi traumi passati.
« Non preoccuparti, di soldi ne ho parecchi da
parte e non dovrei avere problemi, e mi troverò un altro part-time finché la
band non ingranerà. »
« Sei sicuro che non vuoi che ne parli a mamma
e papà? »
« Sicurissimo. E tanto non gliene fregherebbe
comunque nulla. »
« Avanti fratellino, sai che non ti voglio
sentire parlare così. »
« E perché, non è la verità forse? In ogni
caso… lasciamo perdere dai. Mi faccio vivo io appena posso. Ciao Mari, ti
voglio bene. »
Mise giù, tenendo fede una volta di più a
quella brutta abitudine che non consentiva agli altri di replicare e che
lasciava sempre a lui l’ultima parola, quella che decideva tutto.
Ora… le faccende da sistemare erano ridotte a
due.
E sarebbero state le più dure e difficili.
Sospirò, andando alla finestra ed aprendola per
assaporare un poco l’aria ancora fresca del mattino di Kyoto, in
quell’appartamento che di lì a pochi giorni avrebbe lasciato.
Si sedette sul davanzale, e s’accese mestamente
una sigaretta lanciando giù verso la strada un fiammifero spento.
L’aveva chiamata domandandole di vedersi per
una questione urgente, e ora la stava aspettando appostato fuori dal palazzo
dell’ufficio dove la sua ragazza lavorava.
Era quasi ora di pranzo, sperava che sarebbe
riuscita a liberarsi per parlargli.
Come desiderava, la vide uscire vestita con la
divisa della sua ditta e uno zainetto in mano. Correva verso di lui come se
fosse stata l’ultima volta che lo vedeva.
« Satoru! »
Lui la abbracciò un poco, dandole un lieve
bacio sulle labbra. Kyoko era una ragazza della sua stessa età, piccola e
graziosa e con la bocca tonda che pareva quasi un cuoricino. Era sempre stata
gentile con lui, anche se stavano insieme da poco più di un anno, e ora lui
avrebbe finito per ferirla forse irrimediabilmente. Come avrebbe fatto anche
con gli altri, con Ren, con You… forse li avrebbe persi tutti quanti, per
sempre.
« Ciao, devo parlarti. »
Eccolo, andava dritto al sodo.
« C’è un posto dove ci possiamo sedere? »
Lei lo portò nel cortile interno del palazzo,
su una panchina in pieno sole che per un istante gli abbacinò gli occhi con la
sua lucentezza. Forse era stata colpita dal suo sguardo serio, lui che di
solito aveva sempre il sorriso sulle labbra e la spavalderia addosso. E Satoru,
ora, non sapeva bene come parlare.
« Ti ricordi quando ti ho telefonato dicendoti
che ero a Tokyo? »
Kyoko parve sorpresa, e alzò il viso verso di
lui.
« Sì. »
Di contro, lui le sue iridi nocciola le abbassò
sul lastricato e sull’erba scintillante del prato del cortile.
« Ero a casa di un mio amico, che ha una band.
»
« Sì… »
Lei lo conosceva, sapeva bene quanto amasse la
musica, quanto ci tenesse, che genere di vocalist fosse. Sapeva bene quanto in
realtà il suo sogno fosse di vivere cantando.
Lei, forse, stava immaginando quali sarebbero
state le sue prossime parole, perché insistentemente cominciò a fissare i suoi
piedi, stretti in piccoli mocassini marroni.
« Mi ha chiesto di diventare il suo vocalist. »
« E tu hai accettato? »
« Sì. Lavorare con lui è quello che desidero. »
Chissà poi perché. Ancora se lo chiese. Chissà
poi perché…
« E quindi… »
Sì, lo sapeva, glielo sentì nella voce che si
ruppe.
« Quindi mi trasferisco a Tokyo. »
« Ma… e noi? »
Non c’erano mai state promesse di matrimonio
fra loro, assolutamente. In verità dopo il fallimento del suo precedente
matrimonio, lui pensava proprio che quel passo non l’avrebbe fatto mai più. E
non avrebbe mai avuto neppure bambini, mai.
« Tu… non puoi venire con me, vero? »
Non le chiese di seguirlo per forza, anzi parve
perfino a se stesso che volesse fare di tutto per dissuaderla, per distaccarsi
da quella gentilissima creatura che aveva le lacrime agli occhi.
Era una cosa impossibile, lo sapevano entrambi.
Lei non poteva in alcun modo lasciare il suo
lavoro, una carriera in azienda già avviata, per seguire in una capitale
sconosciuta il suo ragazzo che voleva volare dietro ad un sogno. Era
impossibile.
La osservò scuotere la testa, dai sottili
capelli neri legati in un codino sul capo.
« No… non posso. »
Prevedibile, in ogni sua forma quel rifiuto era
stato prevedibile.
« E allora… ci lasciamo? »
Fu crudele. Fu immensamente spietato e crudele
come avrebbe potuto esserlo un bambino nello strappare le ali a una libellula,
le sputò in faccia la verità con tutto l’impassibile candore che la sua voce in
quel momento piatta riuscì a mantenere. Perché la lasciava, poi? Perché
rinunciava a un anno e più di momenti gradevoli ma non felici, di tranquillità
apparente, di routine e di noia perfino?
Perché?
Per la sola immagine di un ragazzo, per la sola
visione di un sogno, per una scia di capelli neri che correvano nel vento scuro
della notte accanto a lui e insieme a lui raggiungevano un punto che non
riusciva a vedere.
Per un’altra persona.
Una persona dai capelli come l’ombra e la pelle
come il marmo, che gli aveva spalancato le porte di un mondo che lui non aveva
mai neppure osato immaginare, che quel mondo lo scorgeva come incantato ed
abbagliato da un’estasi profonda che lo trascinava verso il mare di se stesso.
Mana quel mondo ce l’aveva dentro, era lui quel
mondo, era lui quel mare insondabile profondo e potente come una tempesta, e
che tuttavia Satoru sentiva di voler attraversare, per lasciarsi trasportare
dove la sua corrente avrebbe voluto.
Non ce la faceva.
Doveva tornare da lui, ad ogni costo, da quello
che da qualche giorno era il centro dei suoi pensieri. Gli pareva incredibile
che quel ragazzo fisicamente tanto più piccolo e gracile di lui potesse
apparirgli tanto grande, e avrebbe dato qualunque cosa per poterlo in qualche
modo raggiungere. Solo standogli vicino poteva riuscirci.
Kyoko non gli disse nulla, solo gli voltò le
spalle e Satoru vide che stava singhiozzando leggermente. Provò a toccarla
allungando una mano, ma questa venne violentemente schiaffeggiata via.
« Non pensare che non ti ami… » le disse,
soltanto.
Solo che, evidentemente, non era il loro
destino.
Ciò non gli impedì di sentire un magone allo
stomaco per tutto il giorno seguente. Solo una cosa era rimasta a preoccuparlo,
una cosa che nella sua bocca aveva tutto il sapore di un tradimento, uno sporco
fottuto tradimento.
Doveva dirlo a Ren, e a You, ai suoi due
adoratissimi fratelli di spirito.
Li avrebbe visti la sera, sarebbero usciti come
al solito per farsi una bevuta in giro per locali. Solo che lui non avrebbe
avuto molto da bere.
Si preparò in silenzio, senza ascoltare un
briciolo di musica, indossando una di quelle giacche bianche che gli piacevano
tanto. Ad essere sinceri, non sapeva se avrebbero capito. Li stava
abbandonando, stava mollando i Cain’s Feel, quella band che per lui aveva
rappresentato così tanto. Si sentiva un codardo, uno stronzo maledetto e un
egoista e lo era sul serio, cazzo!
Poteva solo sperare che non gliel’avrebbero
fatta pesare troppo, ma un lato di se stesso continuava a sussurrargli che si
meritava qualunque insulto gli avrebbero scaricato addosso.
Suonò più volte il campanello di casa sua, e
quando aprì lo accolse il viso sorridente di You e gli crollò ancora la terra
sotto i piedi.
Pensò a Mana allora, come a un pensiero
consolatorio.
« Ciao, Camui Gackt! Dove sei sparito per ben
tre giorni? »
Eccolo là, dritto dritto nel tasto che non si
sentiva ancora pronto a toccare. Sorrise, o se ne sforzò.
« A Tokyo… »
« A Tokyo? »
Annuì.
« A trovare quel chitarrista mio amico, te ne
avevo parlato… »
« Sì! »
Il sorriso di You non si spense, perché
evidentemente davvero non sospettava nulla.
« Ecco… quando sarà arrivato anche Ren, devo
dirvi una cosa. »
Ancora riusciva a fingere di sorridere, anche
quando l’angoscia stava rischiando di fargli venire le lacrime agli occhi.
« Che c’è? »
Non ebbe il coraggio di guardare You in faccia,
quel coraggio gli mancò all’improvviso, e solo allora il suo amico parve
comprendere che sotto quell’apparentemente innocua uscita serale c’era
dell’altro.
Salì in macchina con You, caricarono Ren e
s’avviarono al solito locale.
Fu col cuore in gola che Gackt parlò, dopo
qualche giro di birra che sperava fosse abbastanza per sciogliergli la lingua.
Fu col cuore in gola che li guardò entrambi, che riassunse loro quei tre giorni
che aveva vissuto come in un sogno, ma ancora non riuscì a decidersi a
pronunciare le parole “vi lascio”. Gli sarebbero costate un pezzo di cuore e
quel pezzo l’avrebbe rimpianto per sempre.
« E come sono questi ragazzi allora? » stava
domandando Ren.
Camui sorrise, quasi timidamente.
« Molto… divertenti. Sono divertenti e strani. Diversi
da tutte le altre persone che conosco. »
« E Takeshi che dice? È un sacco che non si fa
sentire! »
« Lui è il solito stronzo, non vale manco la
pena stare a parlarne… »
« Che hai? Com’è che non ti va di parlare? Proprio
a te! »
Satoru non rispose, non subito. Più
semplicemente si limitò a fissare il suo bicchiere di birra ghiacciata,
osservando la schiuma che si diradava piano piano e le piccole scie di bolle
che salivano lungo il vetro freddo del boccale.
« È che… io… come la prendereste se vi dicessi
che voglio diventare il loro vocalist? »
Rimasero immobili, attoniti entrambi e lo
fissarono per molti secondi senza alcuna parola. Gackt chiuse gli occhi, quasi
temendo di essere picchiato. Invece, inaspettatamente, Ren gli diede una
leggera pacca sulla spalla.
« Per te i Cain’s Feel erano un gioco? »
Alzò lo sguardo, sorpreso.
« No! I Cain’s Feel rimarranno una parte di me
per sempre. E tornerò, se coi Malice Mizer non andrà. »
« Quindi per te saremmo una ruota di scorta? »
Ma Ren non lo guardava negli occhi.
« Ren… »
Rimasero in silenzio tutti e due, perché Satoru
non si sentiva in diritto di dir nulla, né di replicare in qualche modo.
Sarebbe stato ingiusto ed impossibile per lui cercare di spiegar loro che cosa
era stato l’incontro con Mana, che cosa gli aveva trasmesso stare vicino a
quella persona… avrebbero dovuto vederlo, e parlarci. Solo allora si sarebbero
resi conto di quanto era grande, come se ne era accorto lui, come se n’era
accorto quell’istinto che l’aveva attirato verso quella persona come un pezzo
di ferro verso una calamita e come una falena verso la luce. Avrebbe voluto che
lo vedessero. Il sole che aveva attirato Icaro alla morte.
« Io… ve li farò conoscere prima o poi… »
Inaspettatamente, si trovò circondato dalle
lunghe braccia di You, che lo strinse forte un solo attimo per poi lasciarlo
andare.
« Qualunque cosa tu fai la fai sempre fino in
fondo. Se vai a Tokyo ricordati che ci siamo anche noi, mi raccomando! E soprattutto…
questi Malice Mizer, portali fino al cielo! »
Aveva ancora il sorriso sulla bocca carnosa dai
denti un po’ grossi, You, e fu guardando il suo migliore amico negli occhi che
tornò ad abbracciarlo, e che sentì le lacrime scivolargli per la prima volta
lungo le guance.
Forse non avrebbe mai più suonato con loro,
forse sarebbero rimasti divisi per sempre, forse sotto sotto stavano covando
l’odio. Ma erano i suoi amici, e lui di loro si fidava e si sarebbe fidato
sempre. Non l’avrebbero abbandonato. Non l’avrebbero abbandonato mai.
A questo pensò per tutta la notte, ancora
insonne come sempre, fumando la solita sigaretta e guardando le solite stelle
che nel cielo buio di Tokyo non splendevano così luminose e si domandò in
silenzio cosa lo attendeva il giorno dopo, trovandosi inaspettatamente a
sperare in un mattino che s’approssimava contro la scia di fumo della sigaretta
e pareva che gli illuminasse il futuro.
Pareva una strada, quella scia, la strada che
avrebbe percorso il suo destino.
- Fine Primo Atto –
N.d.A.
Solo un appunto… è finito il primo atto! E al prossimo vi aspetta una sorpresa!
Vitani