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Autore: Kim NaNa    16/10/2013    3 recensioni
"C’è qualcosa che dovrei sapere anche io? Ti puoi fidare di me, lo sai…“
I suoi serafici occhi abbandonarono lo spettacolo incessante di quell’inclemente cielo grigio e si posarono sulle mie iridi castane, rallentando i battiti del mio cuore.
“Non adesso, Gabrielle. Non ancora…“
Questo mi disse.
Genere: Drammatico, Romantico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Quella donna
 
Quella notte mi tenevo strette le braccia ed avvinghiata al mio stesso corpo davo l'idea di un grumo impenetrabile ma, con gli occhi persi fuori dalla finestra, presi a disegnare ali d’angelo e fumi di draghi. Fu una contrapposizione evidente perché lasciavo andare la mente mentre il cuore si stringeva tra le fauci di un silenzioso dolore.
Ricordo di aver cercato il mio cellulare al buio, tastando le lenzuola del mio letto con il palmo della mano; la luce bianca infastidì i miei occhi umidi e arrossati e in un lungo sospiro composi il numero di Anthony.
Parlai senza fermarmi mai, continuando a mangiare le lacrime salate che morivano sulle mie labbra, mentre lui se ne stava in silenzio ad ascoltare le mie parole senza senso.
«Dove sei finita?» mi chiese.
Trattenni il fiato per un istante, prima di ricordargli che non mi ero mossa dal letto sul quale giacevo.
«Te. Il tuo cuore. I tuoi sogni. I tuoi sorrisi. Dove li hai nascosti?» continuò.
«Sono morti. Gli ho ammazzati tutti.» Fu la mia breve risposta.
«Non è vero. Non piangeresti se fosse davvero morto tutto, non soffriresti in silenzio, non ti negheresti la vita per la paura di soffrire ancora… Tu non sei morta, vorresti esserlo, ma sei qui, con me a parlare del dolore che come un proiettile ti ha perforato un polmone. Stai agonizzando, ma per quanto speri di non farcela, dentro di te vorresti solo poter cominciare a vivere.»
Aveva ragione, come sempre.
Con Tony non avevo segreti da omettere,  lui aveva inquadrato per bene la mia figura esile di ragazza scappata dagli anni migliori, e nei miei lunghi silenzi aveva iniziato la sua battaglia.
«Non resteremo schiacciati qui sotto Gabrielle, te lo prometto» Quel tono di voce marcato, quasi rinnegato e ricacciato nell’oblio del tempo, in quel frangente, a tratti, saliva come gorgoglio di caffettiera.  Dall’altro lato del telefono io arrossii, come beccata con le manine nella borsa materna a cercar cioccolate…
«Credo che la fantasia sia una dei meccanismi di difesa migliori che ci abbiano mai messo tra le mani. Più delle urla, della paura, della corsa, più delle armi. Con queste cose o ci si graffia o ci si muore, con la fantasia invece si cambiano i colori, e chi, come te, riesce a fare del suo dolore la sua stessa forza, ha anche il potere di smembrare il mondo da inutili e pruriginose pesantezze. Dovresti ritrovarla la tua fantasia, colorare il tuo cuore, immaginare, tornare a sperare…» riprese lui.
«Ma che me ne faccio della fantasia se non so distinguere ciò che è vero da ciò che non è vero?» dissi io un po’ stizzita.
«La fantasia non è un modo codardo di camminare, è aiuto al respiro, ci nutri la speranza…»
«Speranza? Quale speranza, Anthony?!  È che io sono stanca di morire, di non essere io, di rialzarmi più ferita di prima. Sono stanca di lottare.»
«Non hai mai cominciato a farlo, Gabrielle. Non ci hai nemmeno provato. Sei una fifona, una codarda e fuggi l’Eternità con le paure che ti cuci addosso.»
Chiuse la conversazione così, senza nemmeno salutarmi, senza neanche darmi il tempo di obiettare.
Non chiusi occhio quella notte, soffocata dal turbine dei miei pensieri, dalla tormenta del mio dolore, da quell’anelito di cuore spirato sulle labbra di Anthony.
L’alba del mattino seguente mi colse impreparata.
Non ero mai pronta per morire.
Il mio corpo pareva sprofondato nel letto, pesante ed opulento, impossibile persino pensare di muoversi. Faticai ad aprire gli occhi e il mio cuore batteva così violentemente da sembrare prossimo all’esplosione.
Avrei voluto piangere, ma non ebbi la forza neppure di chiedere aiuto e mi lasciai ricadere in quel sonno intorpidito. Il cielo, tinto di un tenue rosa misto all’azzurro mi diede il buongiorno, portando alla mia mente la conversazione avuta con Anthony. Il mio Anthony.
Sì, lo sentivo mio, perché solo qualcosa che t’appartiene, qualcosa che senti pulsare dentro, ti legge l’anima senza dover troppe spiegazioni e persone così sono nostre per sempre.
Dopo un paio di giorni in completa agonia qualcuno in casa chiamò il medico.
«Sarebbe meglio ricoverarla subito.» Diceva il medico a mia madre.
Aprii piano i miei occhi castani, occhi che dovevano avere il colore del sangue in quel istante e milione di spilli infilzati nelle pupille per dolermi così tanto.
«No… l’ospedale no. Per favore…» biascicai, prima di lasciarmi andare nuovamente nel buio.
Quando fui sola piansi lacrime silenti e pensai a lui che voleva salvarmi. Voleva davvero salvarmi. Lui voleva donarmi l’Eternità pur di salvarmi dall’oblio.
Lottai contro me stessa nei giorni a venire, giorni violenti, giorni oscuri, giorni orrendi, giorni odiati… qualunque cosa avrei sopportato per rivederlo, per risentire il suo profumo di pioggia. Ma lui non venne e il tempo passava ogni giorno esattamente alle stesse ore.
Era l’undici di Novembre quando mio fratello entrò nella mia stanza, con una busta gialla tra le mani.
«C’è posta per te!» Mi disse, canzonandomi.
L’afferrai osservandola con meticolosa attenzione. Il mio nome era scritto in nero, con lettere un po’ svolazzanti  e curve, alcune macchie d’inchiostro avevano scolorito la “r” finale del mio cognome e le donavano un aspetto quasi sospetto. Voltai la busta per leggerne il nome del mittente e vi trovai una scritta: Nell’Eterno c’è di buono che tutto è bianco ma, anche nel nero come il tuo, se spalanchi gli occhi e resti ferma per alcuni istanti, imparerai a scorgere gli ostacoli e ad evitarli e troverai la tua strada, anche se saranno le ombre a indicarti la via.
L’Eterno.
Anthony.
Non mi aveva dimenticata. Non mi aveva lasciata morire.
Aprii la busta frettolosamente e ne estrassi alcuni fogli, tutti ben ripiegati su se stessi.
«Un po’ lunga per essere una lettera!» Mi dissi, sorridendo.
Allargai piano il primo foglio, ne contemplai la calligrafia, la odorai, cercando tracce del profumo di pioggia che tanto amavo e, nel silenzio di quel pomeriggio d’inverno, cominciai a leggere il cuore del mio Anthony.
 
 
                                                                                       Quella donna
La storia della donna che la vita se la portava chiusa nella testa e teneva fuori il resto del mondo.
 
Se ne stava sempre chiusa in camera, quella donna. Aveva occhi anonimi, capelli anonimi e una bocca che preferiva tacere sempre, per non pronunciare mai ciò che nessuno avrebbe voluto  sentire. Ma le mani... le mani di quella donna si muovevano lente e sinuose. Quella donna prendeva sempre la penna tra le mani e andava via, lontano. Prendeva un libro e spariva senza far rumore.
Ma dove mai andrà, poi?
Le mani di quella donna… mai che smettessero di scrivere, di imbrattare fogli immacolati e di modellare le parole che uccideva sul nascere dalle sue labbra.
 
A quella donna faceva male il cuore, in ogni momento, ma mai che dicesse a qualcuno quel che sentiva, quel che pensava. Lei fingeva. Mentiva. E moriva.
Si uccideva in ogni istante, per rinnegarsi, per rifiutarsi. E allora nasceva Lei, la donna che volevano gli altri, la donna che quell’altra avrebbe voluto distruggere.
 
Quella donna amava la pioggia, così simile a lei, così incessante, così fastidiosa, così indesiderata. Sottile, fragile… come le lacrime che le solcavano sempre il volto. È che alla pioggia mai nessuno chiede «Come va?»; lei è quella che rovina giornate divertenti o romantiche, che disfa occasioni importanti, momenti cruciali. Quella donna, come la pioggia, sentiva sempre di essere di troppo, in qualunque cielo si mostrasse.
 
Quella donna collezionava domande. Le disponeva in fila per uno, nell’ordine sconclusionato dei suoi pensieri e le obbligava a venir fuori pian piano.
Come può morire un respiro?
Quante volte si muore in un frangente?
Cosa guarisce un’anima dilaniata a morsi dalle circonstanze?
Mai che si rispondesse.
Ormai era tardi, ormai non c’era più tempo per le domande, per essere felice…
 
Nei suoi incubi, quella donna, correva sempre.
Si dimenava, ansimava, ma non urlava. Mai.
La sua bocca era sempre impastata di una qualche strana e disgustosa melma e gli occhi vagavano nel nulla.
Cercava sempre qualcuno e piangeva. Tanto.
Si portava le mani al petto, stringeva più forte che poteva e intanto continuava a correre, finché la terra non le apriva una voragine sotto i piedi, inghiottendola.
Nel fondo, il nero era impenetrabile, il silenzio assordante.
Il dolore della caduta faceva eco, ancora e ancora.
Correva e piangeva quella donna e cercava questo qualcuno o qualcosa che neanche conosceva.
Poi si fermava e poggiava le mani da qualche parte. Respirava e ingoiava lacrime senza sale che non sapevano più fermarsi.
Alla fine sa sempre dove si trova.
Nel suo cuore.
Troppo confuso per avere un po' di luce, troppo ferito per apparire un posto sereno.
È che il cuore non ti lascia mai, lui è dentro di te e tu dentro di lui. E non puoi fuggire. Mai.
 
Quella donna ha il cuore in frantumi.
Qualcuno l’aveva ferito e lei ha finito col distruggerlo. Quella era una di quelle donne che, con la felicità davanti agli occhi, preferisce spararle a brucia pelo.
Quella donna preferiva la lacrima alla felicità. La chiamavano masochista , quando distruggeva le cose belle, ma non hanno mai imparato a chiamarla impaurita.
La paura le rubava la consapevolezza della gioia di vivere, dell’essere felice. Ed il cuore si frantumava, ogni volta che, quella gioia, la vedeva da lontano, quando credeva di poterla sfiorare o percepire. E la paura si faceva largo dentro di sé.
Quella donna, fragile com’era, con le sue piccole mani, si ritrovava a tremare, scavando nel profondo per ritrovare il coraggio, l’istinto di animale ferito per sopravvivere all’attacco del branco.
E si guardava intorno, aspettando qualcosa, sentendo che non aveva niente da dare. Aspettando di capire se aveva perduto tutto. Aspettando.
E il cuore si frantumava, mentre le mani tremavano, tutto scuoteva il cuore, quel cuore che si frantumava, mentre tutto il resto sembrava quasi felicità. Una felicità che non poteva appartenerle.
 
Quella donna sapeva che c’erano sogni che facevano la lotta: erano i sogni che resistevano, perché c’erano persone, come lei, che li uccidevano, giornalmente, a suon di quotidianità, abitudini e paure.
Erano i sogni dispersi, affranti, ma mai persi.
Erano quelli che ritrovava per caso, nella tasca della giacca, anni dopo e si sorrideva con una dolce tristezza dipinta negli occhi. Erano quei sogni che aveva cercato di nascondere nell'armadio, ma non ci entravano più. Quei sogni grandi, così grandi che a guardarli le veniva voglia di volar via. Erano i sogni in lotta, quelli che si portava appresso senza sapere di averli accanto. Erano i sogni di chi di notte dormiva poco e vola via con la mente, perché viverli, quei sogni, sarebbe stato impossibile. Troppo dolore, troppe lacrime, troppe paure.
E se li vedeva tornare, significava che quei sogni, quella donna, li aveva messi nella tasca della giacca  e se ne andava via sorridendo, chiusa nel suo mondo, chiusa nella sua stanza, in quella prigione scarlatta arredata al meglio.
 
Quella donna affondava ogni giorno un po’ di più e la gente intorno a lei non faceva altro che legarle macigni intorno al collo. Allora lei chiudeva gli occhi e si lasciava cadere… per annegare prima, insieme a tutto il suo peso.
 
Quella donna implora ad occhi spenti d’essere salvata e sulle labbra dipinge il sorriso di chi vuol chieder la clemenza per non subire la pena capitale.
Quella donna vuole vivere e sarà l’Eternità a strapparla alla morte.
Quella donna vuole vivere perché sarò io a tirarla fuori dal suo bunker interiore.
Quella donna appartiene al mondo, ma è soprattutto mia  e chiederò all’Eternità la luce che possa filtrare nel buio del suo cuore.

 
 
Avevo le mani sudate e la vista mi tremava, quando finii di leggere. Chiamai con forza il nome di mio fratello e lasciai che mi aiutasse a raggiungere la poltrona.
Sentivo il cuore martellarmi nel petto e uno strano ronzio nelle orecchie. Fuori il cielo mi parve come investito da un sole accecante e le mie lacrime presero a scendere sulle mie guance.
Tutto d’un tratto la sentii esplodere.
L’Eternità ce l’avevo dentro.
L’Eternità era mia.
L’Eternità, la mia, era lui. Anthony.
 

 
   
 
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