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Autore: Ormhaxan    02/11/2013    4 recensioni
Los Angeles, 2011. Candice Roberts è una ragazza di 22 anni di buona famiglia e amante dei Beatles. Per tutta la vita è vissuta nel lusso più sfrenato della sua immensa villa di Beverly Hills; viziata da tutti, ha sempre ottenuto ciò che voleva con il minimo sforzo. La sua vita cambierà drasticamente quando l'impero di suo padre subirà un crollo, e lei dovrà lasciare la sua vita da ricca borghese, la sua università prestigiosa, per iniziarne una totalmente nuova.
Logan 'Storm' O'Connell è un ragazzo di 23 anni di origini irlandesi, un fotografo in erba amante dell'arte e dei Rolling Stones. Figlio di una cameriera rimasta vedova ha sempre provato repulsione verso i ricchi e le loro vite fatte di agi e lussi.
Prudence e Kurt sono i migliori amici di lui, due ragazzi legati da un'amicizia tormentata, ma Prue è anche la coinquilina di lei.
E poi c'è Emily, presidentessa del club di arte moderna, ragazza dall'aria severa derisa e scansata da molti che nasconde un animo sensibile e segreti troppo dolorosi da rivelare.
Cosa accadrà quando le vite all'apparenza così diverse e distanti di questi ragazzi si scontreranno?
[ATTENZIONE: Linguaggio esplicito]
Genere: Generale, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Universitario
Capitoli:
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Guardo i miei genitori nello stesso modo in cui guarderei due estranei, con distacco e diffidenza. Mio padre ha appena concluso il suo discorso catastrofico, ed io mi sento scombussolata e confusa; le sue parole mi hanno travolto come una valanga e la mia mente fa ancora fatica a comprendere quello che sta succedendo.
La nostra vita cambierà totalmente aveva detto, aggiungendo sempre più particolari sul come sarebbe cambiata.
Nel giro di tre settimane avremmo dovuto traslocare, lasciare la casa dove sono cresciuta, la casa in cui ho mosso i primi passi, perso il primo dente, dato la mia festa di sedici anni. Era stata una festa grandiosa, sfarzosa, in pieno stile Roberts e ricordo che per mesi, a scuola, non si parlò di altro. Ma la perdita della casa è poca roba se paragonata alla vendita del mio adorato stallone nero di otto anni, Black, con il quale ho vinto premi prestigiosi in tutto lo stato. L’equitazione è sempre stata la mia passione sin da bambina: mio padre mi ha regalato il mio primo pony all’età di nove anni e dal primo istante in cui ero salita in sella qualcosa in me era cambiato. In sella ad un cavallo mi sento libera, selvaggia, senza regole. In sella ad un cavallo posso scordarmi delle regole di mia madre, della mia posizione sociale; in sella ad un cavallo ero semplicemente Candy, una ragazza spensierata come tante.
Come se tutto ciò non fosse una punizione abbastanza dura, mio padre mi da il colpo finale dicendomi che avrei dovuto lasciare Barkley, la mia prestigiosa università, per iscrivermi alla UCLA, l’università pubblica di Los Angeles. Io, Candice Roberts, avrei terminato i miei studi in un’università pubblica. Era un’eresia.
Sgrano gli occhi: tutti a Barkley mi avrebbero deriso alle spalle, si sarebbero presi gioco di me. Sarei diventata lo zimbello di tutti, il gossip numero uno sulla bocca di tutti. Il solo pensiero mi infiamma le guance e vorrei nascondermi il più lontano possibile, dall’altra parte del mondo.

“Non potete farmi questo!” mi trovo ad urlare, alzandomi di scatto dal divano “La mia vita sarà rovinata, lo capite?”
Sono sull’orlo delle lacrime, ma sbaglio nel pensare che una sceneggiata del genere possa cambiare le cose: “Io non andrò ad una squallida università pubblica. Mai!”
“Bene, allora vorrà dire che non ci andrai affatto. - la voce di mia madre è calma, fredda come il ghiaccio - I soldi che abbiamo sono appena sufficienti per pagarti l’università pubblica, ma se tu non vorrai andarci li spenderemo per altre cose.”
“No, no! Io..” mi avevano messo spalle al muro: o università pubblica o nulla, ed io non avrei mai accettato il nulla. “Va bene, va bene. Andrò alla UCLA.”
“Ottima scelta.” mia madre annuisce appena “Dovrai trovarti una sistemazione... - si china in avanti e afferra un giornale - Ecco, qua potrai trovare un alloggio”
“State scherzando, vero?” sorrido, algida, mentre i miei genitori continuano a guardarmi senza mostrare alcun tipo di emozione. Sembrano due statue di marmo.
“Vorrei tanto che fosse così, Candy, ma questo non è uno scherzo. - è mio padre a parlare, la sua voce sembra sempre più stanca - Non posso fare più nulla per te, bambina. E’ tempo che tu ti dia da fare, che conosca il mondo.”
“Quindi dovrò vivere con altre ragazze, in qualche casa fatiscente e senza confort?”
“Non essere melodrammatica, Candice.” mia madre si accende una sigaretta “Nessuno è mai morto per questo. E poi vivere con altre persone potrà solo farti bene. Conoscerai nuove persone, ti farai le ossa. Io e tuo padre provvederemo al pagamento degli studi, ma questo è tutto. Per vivere dovrai vedertela da sola.”
“Lavorare? Dovrò trovarmi anche un lavoro?” i miei annuiscono nello stesso momento, ed io sono tentata di darmi uno schiaffo: deve essere un sogno, deve esserlo. “Io.. io ho bisogno di stare da sola. Scusatemi.”

Attonita, cammino lungo l’atrio, salgo le scale e raggiungo quella che, ancora per poco, sarebbe stata la mia camera. Aperta la porta la luce del sole proveniente dalla finestra mi acceca e sono costretta a chiudere gli occhi e ripararmi il viso con una mano. Mi guardo attorno: la mia camera è proprio come l’ho lasciata. Un senso di pace pervade le pareti, rendendo la stanza una specie di limbo, un piccolo eremo in cui posso rilassarmi. Il grande letto a baldacchino dalle tende di lino troneggia al centro della stanza. E’ perfettamente in ordine, le lenzuola non hanno una sola piega, e i cuscini profumano di buono, di pulito. Mi lascio cadere all’indietro, a peso morto e chiudo gli occhi. Mi è mancato il mio letto, il mio soffice e rassicurante letto. Riapro gli occhi e noto tre scatoloni vuoti abbandonati in un angolo della stanza, accanto all’armadio: non c’è bisogno di chiedere perché sono là, la loro funzione mi è subito chiara. Devo riempire gli scatolini con le mie cose, impacchettarle, e portarli chissà dove.

Mi alzo dal letto, improvvisamente spossata, e aperta l’anta di uno dei mobili poco lontani, estraggo il vinile di uno degli album più belli della storia dell’intera musica, album omonimo composto dalla mia band preferita, I Beatles, nel 1968, noto a tutti come White Album. Lo posai sul giradischi, piano, e ci appoggiai sopra la puntina di lettura, il pick-up, facendo partire la musica. Il primo brano è “Back in the USSR” composto come la maggior parte dell’album dalla coppia Lennon, McCartney.
Con la musica dei quattro di Liverpool in sottofondo prendo coraggio e inizio ad imballare le mie cose. Decido di iniziare con i pochi vestiti che ancora avevo a casa – la maggior parte era ancora a Berkley, nella mia “ormai non più” stanza della mia “ormai non più” università. Il solo pensiero di tornare là, di affrontare tutte quelle persone, di sopportare le loro occhiate, le domande di quell’impicciona di Laura mi provocava un senso di nausea. Metto i vestiti nello scatolone, piegandoli con cura: ogni vestito costa un occhio della testa, è stato disegnato dai più grandi stilisti del mondo della moda e mi ritrovo a pensare che, se mai mi ritrovassi al verde, ne potrei vendere qualcuno a buon prezzo.
Dopo i vestiti è il turno dei libri, dei miei amati libri disposti secondo regole ben precise. Tra le mie mani passano i romanzi di Kundera, di Jane Austen, Allende, Murakami, Sartre, di tutti i miei autori preferiti. Fin da bambina ho sempre trovato sollievo nella lettura, in quei racconti alla volte avvincenti, alle volte fantastici o strappalacrime che avevano la capacità di farmi dimenticare il mondo circostante e catapultarmi in uno totalmente nuovo.
Terminati i libri passo ai vinili: ho sempre amato i vinili, una passione che mi ha trasmesso mio padre. E’ stato lui a farmi scoprire la musica dei Beatles quando ero ancora una bambina, a farmi vedere Yellow Submarine, film d’animazione con protagonisti i quattro di Liverpool. Ricordo di esserne stata catturata, di averlo visto e rivisto fino alla nausea. Amo i Beatles con tutta me stessa, e nelle giornate grigie e tristi sono gli unici capaci di farmi sentire meno sola.

The sun is up, the sky is blu, it’s beautiful and so are you..” mi ritrovo a cantare, mentre in sottofondo si alternano le note di Dear Prudence, una delle mie canzone preferite. “Dear Prudence, won’t you come out to play?”
Metto anche l’ultimo vinile, un album di Eurinice Waymon, nota a tutti come Nina Simone, nello scatolone; lo chiudo e, preso lo scotch da imballaggio, lo sigillo.

Quando finisco quel duro e ingiusto lavoro il sole sta tramontando ed io mi sento stanca. Mi butto sul letto, sentendo improvvisamente le palpebre farsi pesanti, e nello stesso istante in cui scemano le ultime note di Julia, ultima canzone del lato B del White Album, chiudo gli occhi e mi addormento.


 
**


Vengo risvegliata un’ora e mezza dopo da mia madre che, neanche troppo gentilmente, mi scuote per una spalla e mi chiama. Riapro gli occhi, mettendo a fuoco e l’unica cosa che mia madre mi dice prima di uscire dalla mia stanza è di scendere da basso per la cena. Sbadiglio, ancora stanca, e anche se nel mio stomaco non è presente neanche una piccola traccia di fame mi trascino al piano di sotto, dove la tavola è stata imbandita di tutto punto e i miei genitori sono già seduti attorno all’imponente tavolo di mogano. Mi impongo un sorriso lascivo, privo di qualsiasi emozione, e mi seggo anche io. Dopo neanche due minuti mi viene servito uno stufato che, in situazioni normali, avrei divorato in pochi minuti; ma le circostanze non sono normali e tutto quello che voglio in quel momento è infilarmi sotto le coperte e dormire per cento anni. Invece prendo la forchetta e il coltello e mi impongo di mangiare: ogni boccone che passa faccio sempre più fatica a buttarlo giù e dopo sei, sette forchettate decido di averne abbastanza.

“Scusatemi, ma non ho fame. - annuncio mentre mi tolgo il tovagliolo bianco dalla gambe e lo poso sul tavolo. - Posso tornare in camera mia?”
I miei si scambiano una fugace occhiata e poi mio padre dice: “Ma certo, vai pure. Sicuramente sarai stanca. - sorride, ma il suo sorriso è più simile ad una smorfia di dolore che ad un sorriso - Buona notte.”
“Buona notte anche a voi.”

Tornata in camera mi spoglio, mi infilo la mia camicia da notte di cotone e mi infilo sotto le coperte. Chiudo gli occhi e sospiro, pensando a quello che dovrò fare l’indomani, ovvero terminare di imballare le mie cose e cercare una casa. Una casa: il solo pensiero mi manda ai matti. Io non ho mai convissuto con nessuno: nel campus a Berkley ho diviso per tre anni la stanza con Laura, certo, ma non ho mai pulito né tantomeno fatto le faccende domestiche. Non so cucinare, e il solo pensiero di pulire delle pentole o, peggio, un gabinetto, mi fa venire il voltastomaco. Mio padre mi ha detto che penserà lui al trasferimento nella nuova università, alla UCLA, e tutto ciò che dovrò fare sarà presentarmi tra due settimane alla facoltà di Arte e Architettura alle nove del mattino.
Mi giro su di un fianco e con un piede urto qualcosa: accendo la luce e vedo abbandonato ai piedi del letto il giornale che quel pomeriggio mi aveva dato mia madre. Lo prendo e inizio a sfogliarlo; è pieno di annunci pubblicitari, annunci di affitti di case per studenti e non. Continuo a sfogliarlo, leggendo annunci di tutti i tipi, nomi che non mi rimangono impressi e stufa lo chiudo e lo lancio per terra. Non ho voglia di pensare a queste cose, non ora. Ci penserò domani mattina, dopo una sostanziosa colazione e una sana dormita. Spengo nuovamente la luce, mi accoccolo meglio sotto le coperte e mi addormento dopo qualche minuto.

 

**


Cinque giorni più tardi sono ancora alla ricerca di una casa che soddisfi le mie aspettative. Fino ad ora ho chiamato un paio di numeri, visto qualche casa, ma nessuna di esse mi ha lasciato soddisfatta. Mentre me ne sto in giardino a sorseggiare una bevanda fresca e sfogliare per l’ennesima volta quel dannato giornale, il mio sguardo cade su di un annuncio che fino a quel momento non avevo notato. Più che l’annuncio in sé, è il nome della ragazza a colpirmi: Prudence. Prudence Reed, ventiduenne laureanda in Letteratura Straniera, in ricerca di una ragazza con cui dividere l’affitto. L’annuncio dice:


“Cercasi coinquilina con cui dividere l’affitto. Appartamento situato a Westwood, a cinque minuti dalla UCLA e dieci dalla Santa Monica Blvd. Astenersi perdigiorno!”


All’annuncio segue l’indirizzo dell’appartamento e il numero di telefono di questa Prudence. Increspo le labbra e rileggo più volte l’annuncio, indecisa sul da farsi. Sembra un’ottima offerta e, almeno all’apparenza, questa Prudence pare essere una ragazza con la testa sulle spalle. Sì, l’avrei chiamata. Afferro il cellulare, compongo il numero e attendo. Alcuni secondi più tardi, una voce femminile assonnata e leggermente sbiascicata rispose.


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Salve a tutti! Secondo capitolo dal POV di Candy, dove abbiamo scoperto qualcosa in più su di lei. Il prossimo, che sarà la seconda parte, verrà narrato da un nuovo POV, quello di Prudence, un new entry della storia. Conosceremo anche lei, e vedremo come la sua vita si intreccerà con quella di Logan e Candy. Spero che la storia vi stia piacendo, e vi invito a lasciarmi una recensione. Mi farebbe piacere avere una vostra opinione. Al prossimo capitolo ;)
  
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