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Autore: Koa__    03/11/2013    1 recensioni
Sono passati tre anni dal finto suicidio di Sherlock e da che Gregory Lestrade è stato portato a Pendleton House ed ha scoperto la verità. Tre anni durante i quali ha deciso d'allontanarsi da Londra e da John Watson. Appena fa ritorno della capitale inglese, però, Greg riceve una chiamata dal dottore, proprio prima che lui e Mycroft partano per la luna di miele. A Parigi, mentre sono immersi nell'idillio dell'amore, fanno un incontro che sarà sorprendente.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Lestrade, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Di Mystrade, d'amore e d'altre sciocchezze...'
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Terza parte


«In quale punto?» La voce seria di Mycroft ruppe il silenzio della suite dell’One by the five hotel. Lestrade posò gli occhi su suo marito, notando immediatamente le espressioni del viso lievemente tirate. Segno che non era più rilassato dalla presenza di suo fratello, come pochi istanti prima: ora fremeva, desiderava sapere ed ottenere risposte. Esattamente come lui. Probabilmente, mai come in quel momento, pensavano la medesima cosa ovvero sapere cos’aveva fatto per tutti quegli anni Sherlock.

Furono poco dopo le parole di un ancora sorprendentemente biondo detective, ad interrompere la sua silenziosa opera di contemplazione.
«Appena sopra il gomito. Quei due muffin che hai mangiato questa mattina sono un’abitudine o un’eccezione?»
«Un’eccezione, ovviamente. Calibro?»
«Trentadue. Noto che l’uomo che ti fa la barba è malato, Parkinson? Non pensi sia pericoloso farsi servire da un barbiere con i tremori, Mycroft?» Lestrade vide quest’ultimo arcuare un sopracciglio ed un leggero moto di confusione, dipingergli il viso. Era come se, con quel semplice gesto, gli stesse domandando perché era stato tanto stupido da farsi sparare. «Appena finii di disarmarlo, lei mi sparò con la pistola che teneva nel reggicalze. Non aveva una buona mira.»
«Ti sei ricucito da solo e senza anestesia, ovviamente.»
Sherlock fece per ribattere prontamente, ma fu allora che Lestrade sbottò: non ne poteva più di quei giochetti. Lo avevano rivisto dopo anni e ancora i due fratelli si divertivano ad un gioco, che solo loro capivano e che stava irritando Greg come non mai.
«Dovete andare avanti per molto o vi decidete a dirmi cosa diavolo sta succedendo?» intervenne, spazientito. «Cosa ci fai a Parigi, Sherlock? Dove sei stato per questi tre anni? E non vuoi sapere di John?»
Aveva gridato, Lestrade e lo aveva fatto per colpa della frustrazione che, da mesi, aveva accumulato dentro di sé. Pensò al suo amico John e a quanto avesse sofferto per la morte di colui che amava. Gli tornò alla mente anche tutta la rabbia che aveva sentito dopo che lo aveva rivisto, la settimana prima di partire per la luna di miele, a Notting Hill. Rimuginò addirittura su quanto avesse desiderato raccontargli la verità, e a quanto si fosse sentito uno schifo nel non averlo fatto.

Nonostante volesse delle risposte però, non si accorse affatto del lampo di tristezza che era passato nelle iridi di Sherlock, appena aveva nominato il dottor Watson. Era stato troppo impegnato a gridargli contro e ad inveire, per poterlo notare. Tuttavia, riuscì a scorgere comunque quella maschera d’impassibilità che aveva dipinto il suo viso fino a quel momento, incrinarsi, seppur in modo impercettibile.

Il più giovane degli Holmes si decise a parlargli soltanto poco più tardi. Dopo che si era alzato dal divano ed aveva preso a camminare a passo lento, con le mani incrociate dietro la schiena, guardandosi attorno con apparente indifferenza quasi si trovasse ad Hide Park di domenica mattina.
«L’organizzazione di James Moriarty» esordì in un basso mormorio di poco percettibile. «Era un qualcosa di gigantesco, tanto che io stesso me ne sono stupito vivamente, nel momento in cui ne ho compreso la reale grandezza. Quello di cui, lo sapevo, avevo bisogno era conoscere l’identità di colui il quale avrebbe assunto il comando, una volta deceduto Moriarty. Confesso che mi ci volle del tempo prima di ottenere quel nome e che dovetti passarne di ogni, per riuscire ad averlo.»
«E chi era?» domandò Greg, accalorato.
«Sebastian Moran. Ex colonnello delle forze armate britanniche, congedato con disonore quasi dieci anni fa. Appena dopo aver lasciato l’esercito, ha iniziato a lavorare come killer freelance per svariate organizzazioni criminali, fino a che non ha conosciuto il nostro consulente criminale. Moran è un abile soldato e un mercenario senza scrupoli: non si fa troppi problemi nell’uccidere qualcuno, esattamente come il suo capo. Dopo che ho finto la mia morte mi sono nascosto a Malta, ne ho fatto la mia base o la mia casa, se vogliamo definirla in questo modo.»
«Moran è morto, non è vero?»
«Ora sì» annuì il detective.
«Come sei riuscito a stanarlo?»
«Vedi, Lestrade, l’essere umano è debole e Sebastian Moran ne è l’esempio perfetto. Si può avere tutto: potere, soldi, governi, mafia, servizi segreti… Si può possedere il mondo, ma prima o poi si commette uno sbaglio che segna per sempre la nostra esistenza. È la condizione umana, quella d’esser deboli.» Sherlock si fermò per un istante: un sorriso furbo dipinse il suo viso. «Stanarlo. Hai utilizzato uno strano verbo, Lestrade che descrive alla perfezione ciò che ho fatto. È stato un gioco, il nostro, un gioco d’ombre: abbiamo giocato al gatto col topo io e Moran. [1] Come ho fatto, mi chiedi? Semplice: per quanto una persona possa apparire perfetta, un punto debole lo ha sempre. Il suo era il poker, ma non parlo di una partita fra amici, come quella che fai tu il venerdì sera con Anderson e Ford del quinto piano, qui si trattava di cifre elevate. L’ho avvicinato, mi sono fatto invitare in una bisca clandestina nei sobborghi di Hong Kong, che lui frequentava spesso. Il come io ci sia riuscito, è meglio che nessuno di voi lo sappia. Ho fatto cose in questi due anni che se te le raccontassi, Lestrade, ti ritroveresti nella posizione di dovermi mettere le manette ai polsi, ma di doverlo fare sapendo che sono realmente colpevole di qualcosa.»
«N-non lo farei mai!» balbettò, imbarazzato. «In questo momento non è al poliziotto di Scotland Yard che stai parlando.»

Greg soppesò le proprie parole, gli erano uscite in modo automatico, tanto che non se n’era reso propriamente conto. Credeva a ciò che aveva appena detto, non avrebbe mai arrestato Sherlock e soprattutto non per un motivo del genere. Per quanto la sua posizione all’interno di Scotland Yard lo obbligasse a trattare con una certa severità chi commetteva un reato, era sicuro che non avrebbe mai potuto imprigionare uno come Sherlock Holmes. Probabilmente, anni addietro, non si sarebbe fatto scrupoli nel farlo e, a dirla tutta, più di una volta ci aveva addirittura provato. Ma adesso era tutto diverso, lui era cambiato e cambiata ere la sua visione del mondo. Esattamente come si era detto quella volta, quando si erano rivisti dopo il funerale, a Pendleton House, il suicidio di Sherlock aveva cambiato tutto. Greg compreso.

«Grazie.»

Quella parola l’aveva solo sussurrata, ma Lestrade l’aveva sentita ugualmente. Forse era la prima volta che lo ringraziava per qualcosa, tuttavia non fu quello a sorprenderlo, ma la tristezza che vedeva nei suoi occhi. Sherlock era molto più magro e scavato di un tempo; portava in viso il peso della solitudine e di anni trascorsi a nascondersi, a cercare prove e indizi sperando, un giorno, di poterla fare finita. Ma erano i suoi occhi ad essere drammaticamente infelici. Adesso la vedeva nettamente, non sapeva se era perché lui glielo stesse permettendo o perché Lestrade fosse più attento, ma la percepiva: la voglia di quel sociopatico giovane uomo, di tornare a casa. Da John. Già e proprio il dottore gli venne in mente, mentre provava a scrutare il suo viso. Non ne avevano ancora parlato e Sherlock nemmeno gli aveva chiesto come stesse. Chissà come avrebbe preso la notizia del fidanzamento con quella Mary?
«Adesso che anche Moran è morto, cosa farai?» domandò dopo aver deciso di sorvolare, almeno per il momento, sull’argomento fidanzata.
«Sto mettendo insieme le prove che ho raccolto in questi anni, mamma mi sta dando un aiuto notevole in questo senso; è un lavoro complesso, un puzzle composto da migliaia di piccoli pezzi. Perciò sono qui a Parigi: voglio scagionare me stesso dalle accuse di Moriarty, per poter tornare a Londra, da… da John» aveva concluso, in un sussurro.
«Già, è c’è una cosa che dovresti sapere a questo proposito.» Lestrade s’interruppe, per un attimo aveva avuto la sensazione che Sherlock stesse per chiedergli qualcosa. Anche se sapeva perfettamente che non era mai stato uomo da sprecare parole, esattamente come Mycroft, poneva esclusivamente delle domande strettamente necessarie. Pertanto, dopo una breve pausa, continuò mentre si dava dello stupido per aver anche solo creduto che Sherlock Holmes si mettesse a domandare l’ovvio.
«Si tratta di John» proseguì «io e lui ci siamo incontrarti la scorsa settimana. Adesso ha uno studio a Notting Hill. Mi ha detto d’essersi fidanzato con una ragazza, una certa Mary. Vuole chiederle di sposarlo e temo che lo farà presto.»
«Prevedibile» mormorò Sherlock, laconico, senza distogliere lo sguardo dal panorama che brillava al di fuori di quella finestra.
«No, non credo che avessi preventivato una cosa del genere, tu non hai idea di come stia. I suoi occhi sono stanchi, tristi e poi se ne va in giro con un bastone: zoppica vistosamente.»
«Avevo immaginato anche questo» annuì.
«E poi è furente perché ti sei suicidato, dice che ti odia e che hai preferito ucciderti e smettere di lottare, piuttosto che stare con lui. Ti sarebbe stato accanto nonostante tutto. Ciò che l’ha ferito di più però, è che gli hai detto una bugia, che hai dato ragione a Moriarty prima di gettarti dal tetto.»
«Ho dovuto agire in quel modo, per allontanarlo da me. Per farlo smettere di amarmi.» La confusione si dipinse sul viso di Greg nel sentire quelle parole, ciò che diceva non aveva affatto senso.
«Se sapevi che ti amava, perché non hai mai fatto niente per cambiare le cose?»
«E che avrei dovuto fare?» urlò Sherlock in risposta, voltandosi e guardandolo finalmente negli occhi.
«Dirgli che anche per te era la stessa cosa, stupido idiota.»

Per istanti che parvero interminabili, nella stanza calò il silenzio. Mentre le parole pronunciate da Lestrade ancora riecheggiavano, il detective Sherlock Holmes disse ciò che, per davvero, dimorava nel suo cuore.
«Amore, è un termine così riduttivo. Non capisco come voi idioti facciate a rapportarvi con le persone, avendo delle definizioni alle quali sottostare. Amicizia, amore, fratellanza, odio, gay, etero, bianco, nero… Non ho idea di che significato abbiano per voi, e non so che termine utilizzare per definire la mia relazione con John. La sola cosa che so, è che lui stava con me. Ho fatto tutto questo per proteggerlo, per far sì che non gli accadesse nulla di male e non mi pento affatto di come ho agito.»
«Ognuno ha il sacrosanto diritto di vivere e pensare ciò che gli pare, Sherlock: hai ragione. Ma ti devi rendere conto che adesso, il dottore s sta costruendo una vita con un’altra persona. So che non ragioni come noi comuni mortali, ma nel prossimo futuro ti ritroverai costretto a ridurre il tuo rapporto con lui ad un termine. Amicizia o amore. Se avessi chiarito tutto prima, ora…»
«Se glielo avessi detto anni fa» proruppe il detective, interrompendolo «noi avremmo instaurato una relazione sentimentale e lui avrebbe sofferto ancora di più, il giorno in cui io lo avessi lasciato. Sapevo che avrei dovuto concludere la faccenda con Moriarty, ma non avevo idea di che cosa avrei dovuto sacrificare. Pertanto, ho deciso di non legarmi a nessuno e di sacrificare me stesso.»
«L’hai tenuto lontano da te, perché altrimenti avrebbe sofferto se mai avessi finto la tua morte? È questo il motivo? Lo hai amato in silenzio per tutto quel tempo, guardandolo mentre si prendeva e lasciava con altre persone, solo per lui?»
«Non ripetere le mie parole per rimarcare il concetto, Lestrade: è ciò che ho detto e se lo dici anche tu, non vale di più.»
«Oh, Sherlock, quello che hai fatto è…»
«Sbagliato» intervenne il maggiore degli Holmes.

Greg portò lo sguardo su di lui, se ne stava ancora seduto composto sul divano, nella stessa identica posizione di pochi istanti prima. E per tutto quel tempo lo sguardo di suo marito non si era mosso. Aveva fissato suo fratello, ma solo in quel momento si era deciso ad intervenire. Di sicuro, non credeva che Mycroft avesse mai intenzione di mettersi in mezzo a quella discussione. Ogni qual volta, in passato, avevano parlato del rapporto che c’era tra Watson e Sherlock, lui non si era mai sbilanciato, anzi, aveva sempre smorzato la situazione. Ora però, non pareva tanto desideroso di ascoltare in disparte.
«No, My, non penso che…» intervenne Greg, provando a smorzare la tensione che percepiva. Sherlock non si era voltato, tuttavia aveva notato distintamente una qual certa rigidità nella postura. Inoltre, lo sguardo di Mycroft era mutato, ma non era freddo, probabilmente era… ecco: deciso e determinato ad avere ciò che desiderava. E, di nuovo, Lestrade non aveva la minima idea di che cosa fosse.
«Ti conosco, Sherlock» esordì il maggiore degli Holmes, poco più tardi. «Non la pensi affatto così, è vero che hai cercato di allontanarlo dall’idea che aveva di te, quando gli hai mentito. Ma non ridurre tutto soltanto a questo. Il motivo per il quale non ti sei mai deciso a dichiarare il tuo amore per il dottore, non ha a che vedere con Moriarty.»
«Sbagli!» esclamò il detective, a voce un po’ più alta.
«E invece sono nel giusto e tu lo sai» gridò Mycroft in risposta. «Hai vissuto nell’incertezza per tutto questo tempo. Ti sei crogiolato nei dubbi e non sei mai riuscito a prendere una decisione che fosse una. Amavi il dottore e la cosa ti sconvolgeva! Perché John è stata la prima e unica persona a cui hai tenuto per davvero in tutta la tua vita. E non capivi, non riuscivi a comprendere che cosa avesse quell’uomo di tanto speciale da attirarti o, piuttosto, non annoiarti. Come avesse fatto a tenerti lontano dalla droga e persino dalle sigarette, è un qualcosa che domandi tuttora e che ti ha scioccato, sempre. Sapevi di volerlo accanto a te, non riuscivi a rinunciare alla sua presenza, ma allo stesso tempo eri conscio del fatto che se lo avessi lasciato andare, John sarebbe stato lontano dalle insidie che il vivere con te comportava. Solo quando lo hai saputo in reale ed immediato pericolo, hai deciso di attuare questo piano. Ma adesso sei alla resa dei conti, Sherlock: il dottore ha trovato una donna da sposare ed è brava, bella, comprensiva, spiritosa, intelligente e addirittura dotata di una discreta cultura. Sarebbe la moglie perfetta e potrebbe seriamente renderlo felice. Ma quello che adesso ti stai domandando è: sarebbe entusiasta di quella vita, così come lo sarebbe se stesse con te? Se ti mettessi in mezzo saresti egoista o altruista? Gli regaleresti la vita che vorrebbe? Ed ecco che si ripresenta l’indecisione: hai la possibilità di lasciarlo andare; ma è la cosa giusta da fare? Dovrai decidere, Sherlock e farlo una volta per tutte.»

Il silenzio calò in quella grande suite dell’One by the five. Gli occhi azzurri del presunto morto Sherlock Holmes, vestito in abiti che lo rendevano irriconoscibile, scrutavano i tetti di Parigi. Se l’avesse potuto guardare direttamente negli occhi, Lestrade avrebbe senz’altro visto che erano fissi sulla Tour Eiffel. Di una cosa però Greg era più che sicuro, del fatto che non stesse ammirando la bellezza della città, non in quel momento. Le parole di Mycroft avevano colpito lui per primo, gli erano arrivate in pieno petto, mettendogli in subbuglio il cuore. Non aveva idea in quale delle due versioni che i fratelli Holmes gli avevano fornito, e che riguardavano l’amore di Sherlock per John, esprimesse in maniera più chiara la portata del sentimento che li legava, perché entrambe erano valide motivazioni. Comunque la pensasse Sherlock, il suo amore per Watson era più che evidente. Già, proprio John… Era ridicolo il fatto che la sola persona che avrebbe dovuto ascoltare quei discorsi, fosse l’unica assente. Da un lato, Lestrade si sentiva decisamente di troppo. Quei pensieri facevano parte quel lato di Sherlock Holmes che era tanto intimo, da esserlo stato a tutto e a tutti fino ad allora. Era però anche vero che era ben felice di sapere, finalmente, quali fossero i reali sentimenti del detective. Che avesse sempre provato dell’affetto per Watson, era cosa risaputa e ne avevano anche discusso una volta, a Pendleton House. Ma solo in quel momento ne aveva capito la portata.

E ora, che doveva fare? Cosa avrebbe potuto dire all’uomo più intelligente d’Inghilterra e al suo sociopatico fratello, per sedare quella che, lui, stava interpretando come una lite.

Lestrade riportò lo sguardo su Sherlock, proprio mentre si voltava. Il suo viso adesso era una maschera di indifferenza, ma era abituato ad interpretare. A scorgere i sentimenti, le paure, i timori e l’amore attraverso spessi strati di ghiaccio. La sua bocca era serrata, le mani incrociate dietro la schiena, il corpo era più disteso e le spalle non più tirate come lo erano state poco prima. Anche gli occhi sembravano gelidi, ma lui qualcosa la vedeva nettamente. Lo sapeva, era lì, ben nascosta per fare in modo che i distratti, gli idioti come li chiamava Sherlock, non la notassero. Era tristezza. Ma soprattutto, era la prova di quanto Mycroft avesse colto nel segno.
«E dovei accettare le tue prediche, fratellino caro?» domandò poco dopo. «Tu, che ti sposi con Lestrade dopo avermi detto e ripetuto che preoccuparsi non è un vantaggio? Che ad amare qualcuno non si ha alcun ricavo se non la certezza di soffrire; non mi hai sempre detto questo, Mycroft?» tuonò, con disprezzo. «Tu eri proprio l’ultima persona al mondo che immaginavo spostata, che pensavo si sarebbe preoccupata per qualcuno che non fosse lui stesso.»
«Io mi sono sempre preoccupato per qualcuno, Sherlock, da che i nostri genitori ci hanno lasciati soli, per l’esattezza. È da quando sono bambino che mi preoccupo per te e lo farò sempre, che ti piaccia o meno. Il fatto è che preoccuparsi non è un vantaggio, ma è necessario il doverlo fare. Ad amare qualcuno molto spesso non si ha nulla in cambio, nemmeno un pallido affetto, ma non vi si può rinunciare semplicemente volendolo. Spesso è inevitabile e per quanto tu ti sia sempre opposto ai sentimenti, non potrai farlo per il resto della tua esistenza. Gregory sa che non amo intervenire nelle tue faccende private, infatti non ho mai dato la mia opinione in merito ai sentimenti legano te e il dottore, nonostante mio marito mi abbia esortato molte volte a dirgli come la pensavo. Ritenevo infatti, e così ora, che il tuo rapporto con John fosse una tua faccenda. Ma adesso non posso starmene in disparte a guardare, mentre commetti gli stessi sbagli che hai fatto anni fa. Mi sento responsabile per questo, del fatto che tu sia cresciuto con l’idea che non si deve amare nessuno. Ma devi capire che le cose cambiano, le idee cambiano quando le persone maturano e che è altamente illogico che un individuo si imponga di rimanere sempre uguale a sé stesso. Non so cosa significhi essere nella tua situazione, Sherlock e dover avere sulle proprie spalle il peso di una simile decisione, ma ti esorto a farlo. Infine, mi sembra inutile il ricordarti che io e Gregory saremo sempre qui, qualora tu avessi bisogno di consigliarti. Ovviamente, entrambi confidiamo a che tu faccia ritorno presto a Londra e al tuo appartamento di Baker Street, che ho tenuto libero per te.»

Le parole di Mycroft avevano riecheggiato nella stanza per qualche breve istante, dopodiché il silenzio era calato, di nuovo. Lestrade aveva lasciato che il proprio sguardo vagasse tra suo marito e suo cognato. Sapeva che entrambi non avrebbero aggiunto nient’altro, ma non avrebbe mai creduto che Sherlock se ne andasse. Per qualche momento aveva sperato di poter stare con lui ancora un poco…

Il detective sorrise impercettibilmente dopo aver mormorato un flebile grazie, aveva fatto dietro front. Le porte dell’ascensore si erano aperte rapidamente e poco prima che si richiudessero le avevano sentite, quelle parole che avevano scaldato i loro cuori.
«Dite alla signora Hudson di dare una ripulita.»

E così com’era venuto, Sherlock Holmes, se n’era andato. Di nuovo scomparso, correva per i vicoli di Montparnasse, mascherato da chissà cosa.

Greg e Mycroft si guardarono e non poterono che sorridersi. Non ebbero bisogno di aggiungere altre parole. Era stato detto tutto quanto. Entrambi sapevano già tutto: emozioni, pensieri, sentimenti, preoccupazioni… Non era necessario parlarsi a voce, lo avevano già fatto con lo sguardo. Quel lungo ed interminabile sguardo, che si erano scambiati dopo che le porte dell’ascensore si erano richiuse e Sherlock era sparito.

Presto il detective sarebbe tornato, la sola cosa che speravano era che né lui, né il dottore soffrissero troppo.

Perché non c’era scelta sbagliata e non si trattava di errori. Che John Watson sposasse Mary Morstan non era poi così terribile. Se le cose fossero andate in questa maniera, Sherlock avrebbe semplicemente messo la sua relazione con John, su un piano differente. Qualunque cosa avesse deciso per le loro vite, i sentimenti di entrambi non sarebbero cambiati. Anche se, forse, Greg Lestrade non era la persona più adatta per fare simili discorsi. Lui che era sposato e felice, innamorato e ricambiato, non poteva permettersi di affermare che l’amore è amore a prescindere, anche se non vivi in una relazione romantica. Probabilmente era autorizzato ad affermarlo perché sapeva che, anche da amici ‒ definendoli con uno di quei termini che suo cognato odiava ‒ Sherlock e John si sarebbero amati ugualmente. Perché la cosa più sorprendente di tutte, non era il fatto che Sherlock Holmes amasse John Waston in quanto tale, ma che fosse in grado di dubitare, sacrificarsi e soprattutto, di mettere quell’uomo al primo posto.

Di amare.

Decisamente notevole, per un sociopatico.

 
Continua…

 

[1] “È stato un gioco, il nostro, un gioco d’ombre: abbiamo giocato al gatto col topo io e Moran.” Frase che richiama “Game of Shadow” di Guy Ritchie.
   
 
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