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La
bellezza mi ha sempre preceduta,
ovunque io mi recassi.
Avrei
potuto tenere le mie morbide labbra serrate e sarei stata comunque il centro
indiscusso dell’attenzione.
Avrei
catalizzato sguardi e cuori, anche se è un altro organo maschile il più attivo
in questo casi: il sangue stesso scorda di irrorare tutto il corpo e si lascia
attrarre felice dalla forza di gravità…
La
giovane e bella figlia di Amerigo Treschi, ricco mecenate e mercante conosciuto
e riverito: questo ero per tutti quegli arroganti nobili senza spina dorsale
che si atteggiavano a padroni persino in casa del loro ospite più illustre.
A
nessuno importava che sotto i miei lucenti capelli ci fosse un cervello ben
funzionante, che dietro lo splendido paio d’occhi che li fissavano transitassero
pensieri pungenti e che le labbra ben disegnate facessero da argine ad un fiume
di parole irriverenti.
Ma
questo non m’interessava, avevo mille armi per ridicolizzare gli stolti: cantavo
le mie rime, danzavo sulle mie note, recitavo i miei versi e tutto con una
maestria innata, con la passione delle arti che mi scorreva impetuosa nel
corpo, caldo ed invitante.
Ognuno
era libero di vedermi come una bella bambola, ma solo gli stolti non avrebbero
cambiato idea dopo aver assistito alle mie esibizioni.
Solo
gli sciocchi avrebbero continuato a pensarmi come un involucro vuoto ed
attraente.
Ero
riuscita a convincere mio padre a permettermi di esibirmi, durante le lunghe e
importanti cene d’affari che spesso organizzava nella sua elegante dimora. Il
mio talentuoso fratello minore accompagnava i miei deliziosi vocalizzi con il
suo violino, mentre entrambi ci godevamo gli sguardi ammirati degli presenti.
Nel
mio narcisismo agognavo la perfezione di mente e corpo, desideravo che la mia
bravura fosse riconosciuta, apprezzata ed ammirata. Bramavo che il mio corpo
fosse contemplato, desiderato e posseduto… e non necessariamente le due cose
erano distinte: vi è un’arte in cui le membra e l’abilità sono i migliori
interpreti. Un’arte in cui il movimento diviene selvaggio e violento pur
mantenendo la sua struggente e fragile vibrazione.
Odiavo
l’ipocrisia della nobiltà, detestavo i respiri viscidi e le proposte appena
sussurrate all’orecchio con la voce impastata dalla lussuria trattenuta dal
bisogno di fingersi immuni al desiderio carnale.
Non
sapevano cosa volesse dire comportarsi da uomini, erano solamente bell’imbusti
con troppi soldi in tasca, che avevano fatto perdere loro anche la capacità di
conquistare una donna, abituati com’erano a comprarsela agli angoli delle vie.
Scappavo spesso da quella dorata prigione per cercare svago.
Camminavo
per le strade della mia Venezia, sui romantici ponti, che si affacciano tutt’ora
con i loro dolci archi sulle acque calme della mia città. Rimanevo lì per ore
ad osservare i cambiamenti affascinanti dei flutti.
Di
tanto in tanto mi si affiancava qualche bel giovane, intento a guardare me o la
luna, oppure entrambe le cose quando la signora argentea si rifletteva nei miei
occhi scuri. Accadeva che turisti e viaggiatori mi proponessero serate mondane
all’insegna di sensi confusi e corpi accaldati, ma il più delle volte declinavo
gentilmente l’invito, sorridendo..
Il
più delle volte..
Quando
invece accettavo le loro offerte, una girandola di avvenimenti senza nesso
coerente mi trasportava nelle luminose notti della mia splendida città, li
accompagnavo nei locali più eccentrici di Venezia, ove i divertimenti erano
talmente variopinti e stravaganti che nessuno sarebbe mai potuto rimanerne
deluso! Ero la bella guida della Venezia decadente, il balenio di luci e colori
che attirava i curiosi come le api sui fiori, tutti mi amavano pur senza
conoscere nulla della mia vera vita.
Ballavano
con l’affascinate veneziana delle calli, vestita di semplici stoffe, niente
velluto o seta ad avvolgere il mio morbido corpo nei viottoli allegri di
Venezia, semplicemente il mio splendore a fare di me la più ambita preda degli
artisti scapestrati e briosi. Serenate nel romantico dialetto veneziano mi
riempivano le orecchie ogni qual volta mettevo piede nei locali dei sfavillanti
bassifondi della Serenissima.
Nel
mio edonismo prediligevo il meglio in ogni eccesso. Ero viziata e capricciosa.
Innamorata
di me stessa, tanto che mi perdonavo qualsiasi sbaglio senza portarmi rancore
alcuno.
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Il
salotto quella sera era gremito di persone. Li accomunava solamente la voglia
di mettersi in mostra, di divertirsi mostrando le proprie abilità nei più
svariati campi oppure sfruttando la sfavillante bellezza fisica, che
sfoggiavano abbigliandosi nel modo più eccentrico e provocante che la moda
dell’epoca permetteva.
L’incenso
sparso nelle stanze della grande villa bruciava tranquillo, emanando un dolce
aroma fruttato, che inebriava i sensi dei presenti, accomunato al vino rosso
nei calici di cristallo. Ognuno brindava, suggellando le promesse più
fantasiose, lasciandosi andare, le inibizioni sopite dal rosso liquido
inebriante.
Il
clima gioioso era tipico delle mie feste, dove ognuno era libero di vagare fra
i sensi affinati dall’alcool. Tutto era permesso purché non venisse infranta
mai la libertà del singolo.
La
morale, fra le pareti decorate da deliziosi stucchi della mia dimora, perdeva
di significato.
Persino
camminando negli spaziosi corridoi della mia villa, incappavo in deliziose
coppie di amanti, impegnate ad unire i loro innocenti corpi in uno unico.. La
pelle calda lambita dal tappeto, che copre l’intero pavimento della mia
graziosa casa. I giovani più intraprendenti allungavano addirittura le mani
aggraziate ad afferrarmi dolcemente la caviglia nuda per baciarla con una
passione trascinante.
Le
risate accompagnavano la musica
spensierata dell’orchestra, voci inebriate dall’alcool improvvisavano
cori improbabili, qualcuno cantava il proprio amore per una donna appena
sfiorata.
Ogni
stanza nella mia enorme villa era occupata dagli ospiti, intenti a mettere in
pratica le proprie fantasie più indecorose. Persino il mio adorato fratello era
impegnato con una delle dame, che gemeva e si dimenava sotto il suo corpo
armonioso e scattante. Appena si avvide della mia presenza all’entrata della
stanza, lasciata come suo solito aperta, allungò una mano dalle lunghe dita
delicate verso di me e, sorridendo, mi fece cenno d’avvicinarmi a lui. La
ragazza rideva felice, sentiva il calore passionale di Alessandro infervorarle
le membra, mentre scherzosamente lui le mordeva un polso, la deliziosa
ragazzina m’invitava con ampi movimenti del braccio a partecipare al loro
incantevole incontro..
Mi
limitai a sorridere, la stanza era illuminata solamente da due candele poste
sui comodini ai lati del magnifico letto a baldacchino. Le tende di pesante
velluto carminio lasciavano entrare a
sonnolenti sprazzi la luce delle fiaccole che illuminavano la strada delle
calli di Venezia.
Alessandro
accarezzava distrattamente il seno della giovane, abbandonata fra le sue
braccia, mentre m’invitava con uno sguardo malizioso e acceso ad avvicinarmi a
lui, ad accostarmi al letto.
Non
era la prima volta che mi slacciava il corpetto, decorato di trine e perle,
lasciandolo scivolare sul prezioso tappeto dai colori accesi e brucianti, che
ricopriva il pavimento della stanza. La ragazza mi allentava i lacci della
pesante gonna e dell’elaborata sottoveste , mentre le abili mani del mio
adorato Alessandro percorrevano i dolci contorni della mia schiena. Sollevandomi
le braccia premette possessivamente le calde dita sulla mia pelle vellutata. Le
labbra percorrevano dolci e impertinenti ogni centimetro nudo del mio corpo, la
sua compagna mi accarezzava le gambe, silenziosa e competente, una dolce
marionetta i cui fili erano mossi dal mio bel fratello.
Baci,
carezze ed un morbido materasso per scivolare nella pazzia gemente inflitta da
due caldi corpi il cui unico scopo era dare piacere alla loro amata Rosa Selvaggia…
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Le
labbra mi baciavano il collo, le mani esploravano la mia pelle sotto gli abiti,
mi accarezzavano i capelli, massaggiandomi la nuca, sciogliendo lentamente
l’elaborata acconciatura all’ultima moda..
I
respiri del giovane sconosciuto trasmettevano l’urgenza mentre i movimenti,
lenti e gentili, m’accompagnavano senza fretta verso l’abbandono.
Avvertivo
l’eccitazione del mio compagno, la sentivo inequivocabile in ogni sua carezza,
la fragranza del suo profumo d’ottima marca e del tabacco mi impregnava le
narici, mischiandosi al balsamo dei capelli biondi, che mi sfioravano il collo.
La lingua calda e bagnata mi scorreva sulla pelle, lentamente, soffermandosi
ogni qual volta mi lasciavo andare ad un
brivido di eccitazione..
I
lacci pregiati del mio corpetto venivano slacciati con mani tremanti, quasi fossero
talmente preziosi da temere di poterli rovinare. Lo sentivo ansimare alle mie
spalle, il volto nell’incavo profumato della mia spalla, le braccia attorno
alla mia vita, impegnato ad allentare l’elaborata fibbia della sfarzosa veste
di velluto dorato. Le lusinghe si facevano sempre più sussurrate quasi non
potesse controllare le parole che gli fluivano dalle labbra, atteggiate ad un
sorriso più stupito che soddisfatto..
Era
più giovane di me questo piccolo tesoro che avevo deciso di educare, l’avevo scelto
per la sua bellezza elegante, per lo sguardo imbarazzato che esibiva ogni qual
volta incontrava il mio nella grande sala da ballo. Si era comportato come se i
miei occhi fossero pericolose armi di tortura, ardenti spiragli di bramosia
appena contenuta dalle lunghe ciglia scure. Era assoggettato alla mia bellezza,
senza possibilità di sfuggire al rosso filo del destino che oramai ci univa, in
mio potere.
Non
riuscì ad articolare parola quando mi avvicinai a lui con la semplice,
innocente intenzione di chiedere che mi facesse ballare. Fu in grado solamente
di fissarmi in un tal modo che, se gli ospiti lo avessero guardato, lo
avrebbero immediatamente messo alla porta accusandolo di mancarmi di rispetto.
Sorrisi quando giunsi finalmente di fronte a lui, non parlai neppure, allargai soltanto
le braccia nude, invitandolo con lo sguardo a guidarmi nelle danze.
Mi
rendevo conto di emanare uno splendore quasi materno, non era nelle mie
intenzioni spaventarlo, volevo che si sentisse a suo agio fra le mia braccia,
che rilassasse i muscoli, che sentivo tesi attraverso il velluto della sua
elegante giacca. Anche se non sbagliava neppure un passo di danza il suo corpo
era rigido, come se stesse tenendo fra le braccia una pericolosa pantera che,
da un momento all’altro, gli sarebbe saltata alla gola.
Sentivo
su di me gli sguardi dei miei parenti, se mi fossi presa il disturbo di
voltarmi avrei visto un’aria preoccupata e torbida sul volto del mio potente
padre. Avrei letto come un libro aperto quelle profonde rughe sul suo viso,
scolpito dal tempo e dal sole di Venezia, con una sola occhiata avrei decifrato
la disapprovazione per il mio abbigliamento, per i miei capelli, per i miei
sorrisi, per il mio comportamento smaliziato e sfrontato. Avrei contemplato in
un solo paio d’occhi la più estrema forma di biasimo e condanna mai accollata
ad un solo essere umano.
Ma
non mi girai. Conoscevo già tutti i pensieri del mio autorevole genitore senza
doverli leggere di nuovo nei suoi occhi traboccanti dissenso, danzavo sulle
soavi note di un valzer di Vivaldi, guidata dal giovane patrizio che si
sforzava di non lasciar scivolare lo sguardo nella profonda scollatura del mio
abito, mi lasciai sfuggire una leggera risata mentre rafforzavo la presa del
ragazzo sulla mia vita, trascinandolo nel vivo delle danza. Avvertivo i piccoli
cambiamenti del suo volto fanciullesco, il rossore dovuto alla vergogna
nell’avermi così vicina stava lasciando il posto all’euforia provocata dal
ballo in cui lo stavo inducendo a gettarsi. La mia lunga veste dorata
volteggiava senza posa, scoprendomi addirittura le affusolate gambe candide,
ridevo come non mi era mai accaduto alle noiose feste dei Consiglieri a cui mio
padre portava me e Alessandro, la musica si faceva sensualmente incalzante e il
mio adorabile fanciullo la seguiva con maestria e slancio squisiti. Mi stavo
davvero svagando, come mai avrei sperato di riuscire a fare, e il giovane
aristocratico pareva altrettanto compiaciuto, lo leggevo nei suoi begli occhi
grigi che, ora, mi stavano fissando con ardore e impetuoso desiderio. Non c’era
neppure bisogno che io gli dicessi il mio nome, che gli spiegassi dove poteva
trovarmi se mai avesse voluto rivedermi: ero conosciuta da tutti i nobili di
Venezia, mio padre, pur vergognandosi del mio atteggiamento, non aveva potuto
tenere il mio nome lontano dalle bocche di tutti gli aristocratici della
Serenissima. Sapevo che mi avrebbe cercata, ero certa che avrebbe fatto carte
false per incontrarmi di nuovo, da soli e lontani dagli sguardi di saccenti
giudici ignoranti.
Finita
la melodia che ci aveva legati, mi svincolai dal suo abbraccio e con un sorriso
me ne andai.
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