Quando finalmente si fermarono, erano finiti davanti a un enorme castello fatto d’argento e ossidiana.
Sembrava una scultura, Irene ne era veramente impressionata
e non riusciva a non restare a bocca aperta guardandolo, mentre stringeva la
mano del ragazzo.
Sarebbe rimasta a contemplarlo par chissà quanto, ma lui la
trascinò via, continuando a correre verso il portone principale, che spinsero
insieme con non poca fatica affinché si aprisse e loro potessero scorrazzare in
quelle immense stanze luminose che brillavano di luce propria, senza il bisogno
del sole.
E questo le bastava.
Si accasciarono sul pavimento, lei con una mano sulla pancia, intenta a ridere, lui già in piedi, pronto a tenderle la mano per farla alzare.
“Guarda” le disse con un sorriso, mentre la tirava su. Irene
si alzò e appoggiò le mani sul cornicione.
Il paesaggio era indescrivibilmente bello, anche con la
pioggia furiosa che lo annebbiava.
I fulmini illuminavano il cielo, ne squarciavano il
grigiore,e mettevano in risalto il rosso delle chiome dei platani e il verde
dei prati.
“Tu” domandò Irene, incantata “vivevi qui da solo?”
“Sì” le rispose serio il ragazzo, abbracciandola da dietro e
poggiando la testa sulla sua spalla “Sono sempre stato qui ad aspettarti”.
Lei mise le mani sulle sue e sorrise; mentre un lampo
illuminava il bosco, disse: “Adesso sono qui”.
Si voltò a guardarlo e trovò due occhi scuri a fissarla con
dolcezza, ma anche con desiderio.
Quello sguardo racchiudeva tante cose, tante emozioni
represse nel corso del tempo e che in
quel momento stavano uscendo allo scoperto, libere, assolutamente selvagge.
In quel momento, uno tuono terribile colse le sue orecchie
di sorpresa e la fece sobbalzare, nonostante non avesse più paura dei temporali
da un pezzo. Si strinse a lui, che le circondò le spalle con un braccio e
disse: “Vieni, entriamo”, mentre guardava il cielo come se volesse sfidarlo,
come se gli stesse dicendo: “Non toccare la mia principessa, stà lontano”.
Chiuse con decisione la porta- finestra in ferro battuto che
dava sulla terrazza e si voltò, sorprendendo Irene a guardarsi intorno un po’
smarrita.
“E’ la tua stanza?” gli chiese, le braccia che abbracciavano
il busto, come se avesse freddo.
“Sì” confermò lui, togliendosi l’impermeabile e restando con
una semplice camicia nera e i jeans dello stesso colore “Non ti piace?”
“Oh, no no, è che non avevo mai visto una camera da letto in
un… in un castello… così…” balbettò lei, sentendosi goffa e inadeguata. Quella
stanza era grande e un più cupa rispetto alle altre che aveva visto di sfuggita
nel castello, ma soprattutto aveva un letto matrimoniale sfarzoso e con le
lenzuola nere in seta. Era impossibile non notarlo, vista la sua ampiezza.
Il ragazzo sorrise divertito e, dopo essersi seduto proprio
sul bordo del letto, le fece cenno di mettersi accanto a lui; Irene eseguì, un
po’ insicura, senza smettere di guardarsi intorno, e lui le chiese: “Cosa c’è
che non va?”
Il suo disagio era davvero notevole: tutto era successo così
in fretta e in modo così apparentemente insensato che lei ancora non riusciva a
capacitarsi di niente.
“Non so…” rispose, scuotendo dubbiosa la testa “Mi sento
come se fossi nata oggi, non riesco a capire niente…”
Il ragazzo le prese le mani e, guardandola negli occhi, le
disse: “Non c’è niente da capire. Siamo io e te. Qui. Di cos’hai paura?”
Irene esitò prima di rispondere: “… Di tutto! Io non so
niente di te!”
Lui sorrise e dopo essersi avvicinato molto di più alla
ragazza, ribatté: “Ma se mi conosci da sempre… mi hai sempre cercato… mi hai
sempre tenuto dentro di te…”
Sì, ma… io… non so se ce la faccio, se sarò all’altezza di
questa cosa, io…” balbettò lei, stringendo ancora più forte le sue mani,
nonostante il suo pessimismo.
“Irene” la interruppe lui “Io sono tuo. Tu sei mia. Perché
non dovresti essere all’altezza della situazione, se siamo fatti l’uno per
l’altra?”
Vero.
L’uno per l’altra.
Anche se erano stati lontani per vent’anni, ovvero da
sempre.
Anche se quella era la prima volta che si vedevano.
Anche se lui era una celebrità e lei una ragazza comune.
Anche se tutto intorno a loro era così strano.
L’uno per l’altra, oltre l’universo.
“Possiamo fare tutto, noi due insieme… tutto…” le disse dopo
essersi staccato dalle sue labbra, mentre la stringeva e le mani cominciavano a
muoversi sul suo corpo.
Sopra il suo corpo caldo, la mano fredda spostò con calma la
lunga gonna, con movimenti lenti e sicuri. Quando arrivò a sfiorare l’interno
coscia, Irene ebbe un piccolo brivido, ma subito lo dimenticò, iniziando a
sbottonare la camicia di lui, ed allargò di più le gambe.
Nonostante la pioggia fosse visibilmente aumentata e avesse
iniziato a martellare leggermente ma distintamente i vetri della porta-
finestra, i loro gemiti sovrastavano il rumore, da sotto quelle lenzuola nere,
lucide, stropicciate e bagnate.
Soddisfando il desiderio, non facevano altro che
alimentarlo; così, i loro corpi mai stanchi si fondevano più e più volte.
La pelle di Irene scottava e sudava, la sua lingua non aveva
smesso un attimo di catturare quella del suo principe, ma stranamente ogni
centimetro della sua pelle era freddo. Era visibilmente eccitato e chiaramente
coinvolto, ma il suo corpo rimaneva pallido, gelido.
E poi cos’era quella sensazione strana che provava nel cuore
ogni volta che lui la penetrava?
Era come un pizzicotto, un minuscolo ma puntuale dolore che
non era riuscita ad ignorare, nonostante fosse completamente presa da lui,
nelle cui mani si sentiva come argilla.
Sembrava che avesse due lingue, venti dita, quattro gambe e
due bocche.
Non le sembrava umanamente possibile che un ragazzo così
potesse fare l’amore in quel modo per così tante ore,e ancor meno possibile le
sembrava il fatto che anche lei stesse resistendo così a lungo.
D’un tratto, durante un orgasmo, proprio quando tutto era
perfetto e i loro corpi erano aderiti perfettamente, un fulmine cadde sulla
terra, seguito da uno scoppio tremendo e uno dei platani che, colpito, stava
prendendo fuoco.
E il cuore di Irene perse un paio di battiti, lasciandola stordita mentre gridava di piacere.
Restò con gli occhi spalancati, rivolti verso l’albero in fiamme, quelle fiamme che l’acqua non stava vincendo.
Il ragazzo notò le fiamme riflesse nello sguardo di lei e chiese preoccupato: “Che cosa c’è?”
“Irene!!! Irene!!!” lo sentiva gridare, completamente mutato
nella voce che, da carezzevole e seducente, era diventata rabbiosa, spaventosa
come quella di un padrone cattivo che stava per frustare il proprio schiavo.
Quel cuore che batteva impetuoso e vomitava sangue a iosa ad
ogni “tum” da lei percepito.
Le venne da sorridere: ce l’aveva quasi fatta.
“NO!!!” gridò la voce di lui alle sue spalle.
Prima che potesse anche solo pensare di fare qualcosa, si
sentì trascinare brutalmente a terra per i capelli: qualcosa di mostruosamente
forte l’aveva afferrata e la stava tirando indietro.
Irene si voltò per guardarlo e cacciò un urlo di terrore: le sue belle mani curate erano diventate rami neri e secchi, gli stessi che nel bosco nero l’avevano graffiata e che ora la tenevano per i capelli.
I suoi profondi e dolci occhi scuri erano diventate orbite nere e vuote che sprigionavano una cattiveria inaudita.
E il suo alito sapeva di vecchio, di decomposto.
“NO, NO, NO, NO!!!” strillò lei, in preda al panico, iniziando a piangere.
Una voce flebile, ma udibile, che le fece spalancare gli
occhi per la gioia.
Ohne da zu sein…
Alles ich und du…
„Io e te,
io e te,
io e te!”
gridò il suo cuore, pompando più sangue che mai.
Irene mise le mani su quei rami che le stavano schiacciando la testa e con un grido che riecheggiò per tutto il bosco li spezzò.
GEH!
Sentì l’acqua bagnarle la testa e il fuoco sfrigolare.
Wenn du jetzt gehst…
La toccò con una mano e fece appena in tempo a vedere il suo principe, ora deformato, che si accasciava a terra, gridando come un’aquila ferita; la sua pelle era diventata nera come l’asfalto, ormai non aveva più niente di umano.
Non era più il suo principe.