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Autore: Stanys    15/11/2013    1 recensioni
...e infine si arrese.
Genere: Fantasy, Sovrannaturale, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Rannicchiato nell'angolo più buio della sua cella, Alfred pensava. Non che fosse possibile fare molto altro, ma non riusciva a distogliere la sua mente dal pensiero di cosa sarebbe successo il giorno successivo, quando il sole che sarebbe sorto di lì a poche ore, nonostante per la stragrande maggioranza delle altre persone avrebbe significato l'inizio di un altro giorno, sarebbe stato l'ultimo che avrebbe visto. Sicuramente non sarebbe stata lui l'unica persona a morire sulla faccia della terra quel giorno, ma la differenza tra lui e gli altri era che sapeva che sarebbe morto. Nessuna grazia, nessuna telefonata dell'ultimo momento avrebbe impedito al boia di azionare il circuito della sedia che un sadico secondino tempo prima gli aveva descritto come "una vera comodità, di quelle che quando provi non riesci più a separartene".
Aveva ammesso ogni sua colpa, e le prove raccolte coincidevano con la sua storia. Probabilmente quello di confessare era stato l'atto più coraggioso della sua non lunghissima esistenza (era solito dire che un uomo di quarantatré anni non può certo considerare lunga la sua vita), eppure, da qualche parte tra le pieghe della sua coscienza che a fatica si faceva largo tra i corpi che la sua mano aveva spezzato, sentiva che non avrebbe dovuto pentirsi del suo gesto, cosa che lo faceva rabbrividire e considerare l'idea di essere sulla via della pazzia. Ma subito si tranquillizzava, pensando che non avrebbe avuto il tempo di impazzire completamente: ci avrebbe pensato la Giustizia a resettargli il cervello. Era continuamente combattuto tra una miriade di desideri contrastanti ed emozioni una più devastante dell'altra: dai climax di paura e terrore agli eccessi d'isteria, fino alla noncuranza. Aveva un disperato bisogno di dormire, lo sentiva, ma anche in quel caso la risposta che ad alta voce la sua testa gli suggeriva era: che importa? Avrò tempo per dormire, tutto il tempo che voglio.
La notte procedeva inesorabile, e la pioggia leggera che dal pomeriggio aveva cominciato a cadere sul carcere si era trasformata in una tremenda tromba d'aria: l'acqua spinta dalle raffiche di vento entrava senza alcun pudore dalla finestra, attraversando in modo ridicolmente semplice la grata che costringeva Alfred, quando si affacciava al mondo esterno, ad una visione a quadretti del già di per sé non idilliaco paesaggio, nonché a patire il freddo in notti come quelle. Una di queste folate d'acqua e vento lo colpì in pieno viso, scuotendolo finalmente dai suoi pensieri, aiutato dal tuono che arrivò subito dopo alle sue orecchie, con una potenza tale da farlo sobbalzare di paura. Dopo essersi ripreso dallo spavento ed asciugato il viso con una manica della divisa da prigioniero, si alzò imbufalito e coprì d'un sol balzo la breve distanza che lo separava dalla finestra e, afferrata la grata, urlò contro la pioggia «Va bene, va bene, rotto in culo! Ho finito, contento? Che cazzo vuoi ancora, eh?»
La sua rabbia non aveva un destinatario preciso, ma non sapeva più come gestirla, eruttando in modo imprevedibile. L'isolamento dal mondo e dagli altri prigionieri non aveva fatto altro che indurirlo ancora di più.
In quel momento un lampo cadde esattamente nella zona ricreativa del penitenziario, attratta dagli innumerevoli attrezzi metallici lasciati ad arrugginire dagli inservienti
sempre troppo poco zelanti, a meno che il compito non fosse quello di percuotere i detenuti. In quello erano davvero imbattibili. Il rombo che ne scaturì fu ancora più imponente del precedente, e Alfred quella volta ebbe davvero paura. Ma anche in quella occasione, la stessa parte della sua coscienza che prima lo spingeva lontano dal pentimento, ora lo incitava subdolamente a rimanere lì aggrappato a quella grata ad inveire non si sa contro chi o cosa, né tantomeno sapendo perché, visto che le sue urla erano ampiamente coperte dal vento e dalla pioggia. Ciò nonostante, urlava con tutto il fiato che aveva in corpo, e la rabbia montava ad ogni respiro. Quella volta decise di prendersela col soggetto più facile da aggredire.
«Avanti! Sono qui, cosa aspetti? Non sai fare di meglio? Bastardo Onnipotente dei miei coglioni, dove sei?»
Sapeva che dall'altro lato di qualunque cosa verso la quale si stesse rivolgendo, fosse la pioggia, il carcere, o le nuvole ed il cielo stesso, c'era qualcosa che lo stava ascoltando, e voleva, anzi pretendeva che venisse da lui. Aveva troppe domande da sottoporre che esigevano intransigenti una risposta. E qualcosa in effetti arrivò, anche se non esattamente come Alfred se l'aspettava. La pioggia, o chi per essa, gli rispose con un altro lampo, stavolta ad una manciata di metri dalla sua cella. Il prigioniero fu sbalzato indietro dall'onda d'urto, acciecato dalla fortissima luce. Indietreggiando, scivolò su dell'acqua accumulatasi sul pavimento e cadde rovinosamente a terra, battendo la testa. Il mondo da bianco divenne nero, e perse i sensi.


Quando riprese conoscenza non solo stava ancora piovendo ma, come ebbe modo di appurare appena riacquistò i sensi, la pioggia gli stava cadendo addosso, e anche da parecchio tempo, a giudicare dai vestiti bagnati fradici. Ma quella scoperta fu niente in confronto alla sorpresa che lo accolse quando finalmente, dopo essersi girato su un fianco, aprì gli occhi: non era più nella sua cella.
Si era risvegliato in quello che sembrava essere un vicolo, con tutto il suo bagaglio di sporcizia e degrado. Tutto quello che riusciva a vedere da terra nel buio della notte era il lampione acceso appena fuori dal vicolo, un faro in fondo a quel tunnel che sembrava indicargli una via che non aveva neanche deciso di prendere. Cercò di mettersi in piedi, ma il dolore dietro la nuca gli impedì di andare oltre lo stare seduto, così si appoggiò al muro più vicino. Respirava a fatica, aveva un freddo cane, e l'unico pensiero che aveva in mente gli uscì dalla bocca come dotato di vita propria.
«Ma dove diavolo sono?»
Un'altra volta, la risposta arrivò in modo particolare. Alle sue parole, diverse ombre fecero capolino all'ingresso del vicolo, accompagnate da passi duri e frettolosi. Il cuore di Alfred ebbe un sobbalzo, e gli impose istintivamente di appiattirsi il più possibile contro il muro. Apparvero nel cono di luce del lampione quattro uomini in divisa (una divisa mai vista prima da Alfred, completamente nera con ricami dorati) accompagnati da un cane che uno di loro teneva al guinzaglio. Le quattro figure si fermarono davanti al vicolo in attesa del cane, che si era fermato e stava evidentemente fiutando qualcosa. Alfred pregò con tutte le sue forze che non fosse lui ciò che stavano cercando sebbene, a giudicare dal fatto che era un condannato a morte che all'alba sarebbe stato giustiziato, e non si trovava più nella sua cella, ne fosse quasi certo. Il cane finì di fiutare e, alzando il collo, puntò il muso esattamente contro Alfred, il quale decise che in fondo non era proprio così necessario respirare in quel momento. Il fuggiasco e l'animale rimasero a fissarsi per interminabili secondi prima che l'uomo che teneva il cane al guinzaglio lo interrogasse: «Allora, è qui o no? Rufus, vai a controllare»
«Io?» rispose l'uomo in fondo al gruppetto. «Il cane non ha abbaiato, quindi io là dentro non ci vado!»
L'uomo col cane si girò verso Rufus e con un sorriso quantomai beffardo gli disse «Rufus, sei proprio un cagasotto. Andiamo, dai»
Si rimisero in cammino e, usciti dall'illuminazione del lampione, sparirono tanto velocemente quanto erano comparsi.
Passò un'eternità prima che Alfred decidesse di separarsi dal muro al quale si era incollato, ormai convinto di aver scavato un buco delle sue esatte fattezze. Prese così coscienza del fatto che ormai non poteva stare a vegetare in quel vicolo in eterno, quindi raccolse le sue forze e si levò in piedi. L'incredulità aveva ormai da tempo ceduto il posto al terrore e al panico: cosa avrebbe fatto? Dove sarebbe andato? Difficile anche solo tentare di rispondere, visto che non aveva la più pallida idea di dove si trovasse. Decise quindi che quella sarebbe stata la prima voce della sua nuova lista di cose da fare.
Sfortunatamente per lui, si rese subito conto che non sarebbe stato un compito facile. Uscito dal vicolo infatti si trovò su un lunghissimo viale che si distendeva a perdita d'occhio in entrambe le direzioni, sul quale affacciavano schiere di alti casermoni color rosso mattone, tutti dannatamente uguali, tranne che per una specie di numero civico, composto da lettere e numeri. Nessuna indicazione stradale, o circa la strada in cui si trovava. I palazzi erano chiusi a chiave, separati gli uni dagli altri tramite piccoli vicoli come quello in cui si era svegliato, anche loro tutti uguali in squallore e sporcizia. Lo scenario era di una desolazione disarmante: non un passante, non una luce accesa nelle case, non una macchina né altro trasporto. Nel camminare, Alfred perse la cognizione del tempo, e stava per cominciare ad avere nostalgia della sua cella quando, girandosi ormai stancamente verso l'ennesimo vicolo cieco, si accorse che questo era più stretto degli altri e, cosa più importante, non era cieco. Senza pensarci due volte, pur di abbandonare quella terrificante visione, lo imboccò volentieri. Mentre si faceva strada tra le mura dei due palazzi, che ad ogni passo si avvicinavano sempre più, diceva: «Devo essere sicuramente impazzito, o quantomeno quella caduta deve avermi mandato in coma e questo è tutto un sogno fottutamente verosimile. Vorrei proprio vederla ora, la faccia di quello stronzo di Governatore, chissà se mi farà ammazzare lo stesso oppure mi terranno a vegetare nel letto di un ospedale. Figurati, e chi le paga poi le spese, lo Stato?»
Il sorriso amaro che nacque da quella breve riflessione fu completamente abbattuto da ciò che vide una volta arrivato all'altro capo del vicolo: un enorme spiazzo si apriva davanti a lui, completamente lastricato di un marmo bianchissimo che lo costrinse, nonostante la poca luce ed il maltempo, a socchiudere gli occhi per poter osservare meglio, come se quel pavimento brillasse di luce propria. Al centro della piazza si ergeva una struttura maestosa, anch'essa completamente bianca, simile ad una chiesa, ma in qualche modo diversa. La facciata ricordava una cattedrale gotica, affollata di statue allegoriche e con un grande rosone ricco di colori al centro, ma ai lati aveva altre due strutture basse e lunghe, sormontate da archi rampanti che andavano a poggiarsi sulla struttura principale, in corrispondenza di sei torri che contornavano il corpo principale di quello strano complesso. Una settima torre svettava dal centro del tetto, più alta delle altre, ma sulla sua sommità al posto delle campane era stato costruito una specie di baldacchino, che riparava dalla pioggia la statua di un uomo seduto su un trono, o almeno così sembrava vista da terra.
«Sicuramente da quell'altezza riuscirei finalmente a farmi un'idea di cosa c'è qui intorno» disse Alfred, quindi si incamminò verso l'ingresso. Giunto agli alti battenti della chiesa, notò come la pioggia non avesse minimamente intaccato il candore del marmo, anzi sembrava quasi che l'acqua non riuscisse a bagnarlo. Poggiando una mano su uno dei battenti, anch'essi bianchi, al tatto lo sentì asciutto, dall'aspetto possente, eppure leggero quasi in modo innaturale mentre si muoveva. Una volta entrato, se lo chiuse alle spalle, e dopo fu solo silenzio.

   
 
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