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Autore: Amens Ophelia    17/11/2013    9 recensioni
[SasuHina]
Hinata ha poche certezze, dietro quegli occhi chiarissimi: sa che il sole sorge e tramonta sempre, anche dietro le nuvole, e che il suo astro personale è un ragazzo biondo, in classe con lei. Purtroppo è anche a conoscenza del fatto che lui non lo saprà mai.
Troppe sono le cose che ignora pericolosamente, come il posto che occupa nei pensieri di Sasuke Uchiha.
(NB: accenno SasuKarin)
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Hinata Hyuuga, Naruto Uzumaki, Neji Hyuuga, Sasuke Uchiha | Coppie: Hinata/Sasuke
Note: AU, Lime | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Nessun contesto
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10. Nessuna solitudine è mai davvero tale
 

 
 
 

Non aveva esitato, davanti al finestrino abbassato di Neji, e aveva tirato dritto fino alla fermata dell’autobus, aspettando il mezzo pubblico per tornare a casa, proprio come decine di altri ragazzi. Aveva ringraziato il cugino, ma declinato con un sorriso quel passaggio offerto un po’ controvoglia, abbracciando ben volentieri l’idea di un viaggio di mezz’ora, stipata in un angolino, in mezzo a una massa di adolescenti. Essere parte di un tutto, a pieno contatto con la normalità, la faceva sentire meglio, un po’ meno fuori dal comune.
            Poteva fingersi spensierata, mentre ascoltava le sue canzoni preferite nelle cuffiette e osservava il consueto paesaggio oltre i finestrini appannati dall’anidride carbonica e dal calore concentrati sul bus, distraendosi, di tanto in tanto, con il profilo di qualche ragazzo che aveva già avuto modo d’intravedere al liceo. Tirava a indovinare che classe frequentasse quel trio di amiche sedute in terza e quarta fila, o se l’Hatake avesse mai punito quel giovane dall’aria afflitta che si fissava le scarpe, di fronte a lei, sperando che la sua tristezza non fosse dovuta a delusioni maggiori.
            Ascoltava la musica a basso volume, per paura di disturbare gli altri con i suoi gusti, e anche per poter ascoltare i dialoghi delle persone, che l’affascinavano tanto. Una bionda stava lamentandosi dei compiti di matematica che avrebbe dovuto svolgere nel pomeriggio, mentre un ragazzo alto raccontava a due più bassi il resoconto del weekend appena trascorso. Adorava le chiacchiere delle persone, le permettevano di sognare di poter anche lei, un giorno, aprirsi davvero con qualcuno e ridere a crepapelle a qualche battuta. Tenten e Kiba erano i suoi due migliori amici, quelli che avevano condiviso con lei momenti lieti e altri meno, che avevano conosciuto la forma armonica del suo sorriso più sincero, ma anche constatato la tristezza delle sue lacrime. Le dispiaceva che non abitassero più vicini e che, paradossalmente, pur frequentandosi da anni, la scuola rimanesse il principale scenario dei loro incontri.
            Le risate di un ragazzo alle sue spalle la distrassero: stava prendendo in giro un amico che aveva puntato tutto sulla vittoria della sua squadra del cuore, che aveva miseramente perso. Il pensiero del gioco d’azzardo la divertiva leggermente perché, seppur non avesse mai frequentato nessun genere di bische, aveva ancora scommesso. Adorava azzardare con se stessa, ad esempio, che, se qualcuno fosse sceso alla fermata successiva, probabilmente sarebbe andato tutto bene, o che se i due quindicenni che abitavano nel suo quartiere avessero suonato il campanello prima di lei, a casa non l’avrebbe attesa alcuna delusione.
           Scrutava con un’ansia ingiustificata la massa di studenti, ma di quei ragazzi, nemmeno l’ombra; sospirò a malincuore e si preparò a prenotare la fermata.
 
Arrivata a casa, pranzò a fatica, al tavolo della cucina. Il salotto era già stato rassettato, dopo che Neji si era concesso un pasto veloce, e Shimoko aveva provveduto ad apparecchiare per la ragazza nella stanza dove lei stava caricando la lavastoviglie.
           Era sua abitudine consumare il pranzo lì, appena tornata da scuola, e amava quel luogo, le trasmetteva pace e calore umano. Là era dove era sempre circolato più amore, fin da quando era bambina e osservava la madre preparare qualche pietanza, insistendo perché la governante non si preoccupasse e la lasciasse divertire un po’, con le mani in pasta. Sua mamma era una donna dolcissima, gentile e sempre pronta a prodigarsi per gli altri, incapace di prendersela con le figlie o arrabbiarsi se Hiashi passasse troppo tempo in ufficio. Hinata avrebbe tanto voluto somigliarle di più, ereditare da lei anche la forza d’animo che si celava dietro i teneri sorrisi. Quel pensiero dolceamaro, accompagnato dai ricordi della sua infanzia, le crearono un nodo in gola che le impedì di finire il piatto di riso.
          «Non ha appetito, signorina?», chiese Shimoko, preoccupata.
          «Ho esagerato a ricreazione; mi hanno offerto una fetta di torta al cioccolato e non ho saputo dire di no», mentì con un sorriso. Non voleva farla preoccupare inutilmente, stava benissimo, se escludeva le riflessioni.
          Eppure l’uomo è un animale razionale, e nemmeno lei poteva evitare di arrovellarsi il cervello. Se prima erano stati gli occhi e i sorrisi della madre a traboccare nel suo cuore, ora era il pensiero del pomeriggio ad angustiarla. Erano le tre e un quarto, il tempo era volato, in cucina, e lei non aveva ancora minimamente considerato che tra poco meno di due ore sarebbe stata in tutt’altro posto.
           Sasuke Uchiha si affacciò sul bordo del suo cervello, guardandola dall’alto in basso. Le incuteva un certo timore, un senso di rispetto, ma anche… protezione. Era quella, la parola giusta? Quando si trovava al suo fianco, niente sembrava potesse tangerla.
            Non sapeva esattamente cosa aspettarsi, da quella specie di appuntamento. Le faceva impressione definire in tal modo il loro incontro, ma, escludendo qualsiasi connotazione riferentesi alla sfera affettiva, quello era un appuntamento, niente di più e niente di meno. Eppure, più se lo ripeteva, meno ci credeva. Perché quegli occhi neri si erano fermati a lungo su di lei, nella mattinata? Perché Sasuke si stava preoccupando tanto per lei, senza che lei facesse nulla per attirare l’attenzione? Si fece un veloce esame di coscienza e, al termine di esso, si sentì colpevole; lo aveva invischiato in faccende di poco conto, che però l’avevano segnato fisicamente. Era tutt’altro che innocente, a dispetto di ciò che la gente pensava. Avrebbe dovuto iniziare a badare a se stessa da sola, a cominciare da subito.
            Inspirò profondamente, strinse il pugno sul tavolo e si decise ad alzarsi.
 
Bussò titubante alla porta dell’ufficio di suo padre e, pur non vedendolo, poté benissimo immaginare la sua espressione scocciata. Non voleva disturbarlo, soltanto chiarire. Aveva interpretato quel piccolo segnale della mattina - il suo nome, pronunciato dopo tanto tempo – come un incoraggiamento a parlare, riprendere i contatti con lui. Forse si sbagliava, ne era quasi certa, ma desiderava provarci; una porta in faccia in più o una in meno, ormai, non avrebbe fatto differenza.
            «Avanti!», sospirò l’uomo, accendendo un piccolo sorriso agli angoli della bocca della ragazza.
            Hinata spinse la porta con delicatezza e si ritrovò addosso gli occhi sorpresi del genitore, gli stessi di quella mattina, più luminosi del solito.
            «N-non volevo infastidirti… papà», mormorò. Le era costata una certa fatica, quell’ultima parola, nonostante l’avesse sempre chiamato con tale appellativo; era come se stavolta fosse diverso, come se concepisse soltanto ora il vero significato di quel titolo.
            «Non c’è problema», tentò di rassicurarla, per quanto la voce risultasse meccanica come al solito. Era paradossale, ma provava meno disagio nel comunicare con Neji, che con la figlia.
            Le indicò la poltroncina rivestita di velluto verde, di fronte a sé, e la giovane vi si accomodò lentamente, cercando di occupare poco spazio, come se bastasse quel gesto a renderla invisibile. Era sempre stata tale, ai suoi occhi, e voleva tornare ad esserlo, ora che si sentiva improvvisamente sotto i riflettori.
            «Volevo ringraziarti per stamattina… ma non lo ritengo necessario. Voglio dire, posso continuare a prendere l’autobus, o andare in bicicletta...», spiegò, osservando le decorazioni ad intaglio dorate del tavolo.
            «Non mi sembra che Neji sia contrariato», tagliò corto l’uomo, tornando ad impugnare la penna.
            «Lo è», precisò Hinata, improvvisamente fissandolo.
            «Beh, gli passerà. È la mia volontà, l’accetterà come ha già fatto in passato».
            Occhi negli occhi, bianco nel bianco; strano come il non colore per eccellenza potesse assumere la somma di tutte le sfumature e cadere nel suo contrario, il nero, la tinta del nulla. Perché quello era ciò che ora lei leggeva nelle iridi del padre e temette che anche le sue potessero riflettere un vuoto assoluto… e che Sasuke l’avesse intravisto, prima o poi. L’oscurità dei suoi occhi, al confronto, era il bagliore di una scintilla di fuoco iridescente.
            «Vorrei chiederti di non… non sovraccaricare Neji. Gli voglio bene, ma non deve disturbarsi tanto per me, ha la sua vita».
            «E io vorrei chiederti di non cacciarti nei guai, Hinata», tuonò l’uomo, facendola trasalire. Non voleva turbarla, ma era più forte di lui, quello era il suo modo di comunicare.
            «Mi dispiace per la festa, avrei dovuto dirtelo. Chiedo scusa, non succederà più», si affrettò a dire lei, stringendo le mani sulle ginocchia.
            «Mi riferivo a Sasuke Uchiha».
            La ragazza sbarrò gli occhi e alzò prontamente il viso, arrossendo. Come era venuto a conoscenza di ciò che il giovane aveva fatto? C’era solo una risposta, era evidente: Neji. Il cugino aveva un filo diretto con suo padre, perciò era quasi scontato che gli avesse riferito ogni cosa, ogni bugia.
            «Mi ha accompagnata lui, sabato. È una brava persona, è mio… amico».
             Sì, per quanto sapesse bene che a malapena erano conoscenti, quella parola le era sfuggita deliberatamente di bocca con la stessa facilità con cui respirava. Sasuke era suo amico, dato che si comportava da tale, nei suoi confronti. Pazienza se era solo una sua riflessione e non la realtà.
             «Se è ciò che vuoi, fa’ pure. Ti ricordo solo che è pericoloso». Sul volto di Hiashi, la calma era forzata, evidentemente falsa. 
             Il labbro inferiore di Hinata tremava visibilmente, mentre lei non riusciva ad articolare una sola parola.
             «Ha ferito Neji», le ricordò il padre, abbassando il capo per tornare a occuparsi della pratica che aveva sottomano.
             La figlia strinse i pugni. «Anche lui l’ha colpito».
             «Aveva degli ottimi motivi, visto che tiene alla tua integrità», commentò atono il capofamiglia, senza degnarla di uno sguardo.
              Le vene della giovane erano percorse da un calore che ribolliva di rabbia e frustrazione. Non poteva permettere che Sasuke passasse come il cattivo della situazione, non era qualcosa di logico, né accettabile. Era l’unico che sembrava davvero attento a lei, in quel preciso istante della sua vita.
             «Ad ogni modo, non posso impedirti di uscire con lui, se è ciò che vuoi».
              Gli era costato uno sforzo non indifferente, ammetterlo, tanto che non aveva alzato il volto in sua direzione. Nelle orecchie gli giravano ancora le parole del gemello, che l’avevano invitato a trattare con maggior riguardo la primogenita, accordandole il permesso di vivere pienamente i suoi diciotto anni. Fra le condizioni sottintese, naturalmente, non poteva mancare l’amore verso un ragazzo.
              «Papà, io non sono innamorata di Sasuke», mormorò lei, riaprendo la mano sul ginocchio.
              Hiashi rialzò il capo, rianimandosi, dopo quella rivelazione. «Davvero?».
              La giovane annuì, anche se arrossendo. Era vero, in fondo, no? Sasuke era a malapena un conoscente. Eppure non capiva come mai si sentisse una bugiarda di prima categoria, improvvisamente.
              «Lo considero un amico», ribadì, incrociando le iridi chiarissime del genitore. Ora veniva, però, la parte difficile. «E sono stata invitata a casa sua, oggi, alle cinque».
               Delle sottili rughe si aggiunsero a quelle dovute all’età, sulla fronte di Hiashi. Non poteva credere a ciò che Hinata aveva appena detto: quel ragazzo le aveva dato appuntamento? Proprio lui, con le migliaia di persone che circolavano a Konoha?
               «Scòrdatelo».
               «M-ma hai appena detto…».
               «E tu hai appena detto di non esserne innamorata!».
               Hinata non riusciva a capire il comportamento del padre: fino a un minuto prima, sembrava averle concesso la libertà di frequentare i suoi amici, ora, invece, le impediva una semplice visita a casa Uchiha. Aveva sospettato di aver fantasticato troppo, o aver dato una lettura troppo ottimistica alle parole di Hiashi, ma, ad ogni modo, proprio non comprendeva quella reazione discordante.
               «M-mi dispiace…», mormorò tristemente, alzandosi in piedi.
                L’uomo la osservava in silenzio, cercando di respirare con regolarità. Per qualche minuto, prima che la loro discussione andasse ad arenarsi su Sasuke, si era illuso di poter costruire un dialogo con la figlia e cominciare un nuovo capitolo della storia, ma ora stava puntualmente strappando la pagina.
               La ragazza si allontanò verso la porta, lentamente, osservando l’orologio a cucù che occupava il lato destro della parete: stava per rintoccare le quattro. Ora cruciale, l’ora della decisione.
              Si voltò di scatto verso il padre, mentre una mano era pronta a tirare la maniglia. Lui la stava ancora fissando e la pacatezza era un sottile velo dipinto sul suo volto.
            «Mi dispiace, papà, ma non ti chiederò il permesso nemmeno stavolta», affermò, prima di uscire.
            Non appena la porta si richiuse, Hiashi si prese la testa fra le mani e serrò gli occhi, massaggiandosi le tempie. Non soffriva di emicrania, ma i pensieri vorticavano tanto violentemente da procurargli una spossatezza dolorosa simile alla cefalea.
            “La perderai, di questo passo”, era il pensiero dominante. Quella voce aveva dannatamente ragione.
            Inspirò profondamente e si alzò, per poi dirigersi alla finestra. Doveva lasciarla andare, era una creatura libera, proprio come tutte le altre, e non era sicuramente stupida; avrebbe capito certamente da sola quali fossero il bene e il male, anche a costo di ferirsi. Dopotutto, era impensabile crescerla sotto una campana di vetro che si rivelava essere una gabbia capace di renderla ancora più fragile e soggetta alle sofferenze. Avrebbe imparato a sue spese, ma sarebbe maturata, facendosi in quel modo le ossa, proprio come il resto del mondo. Nessuna scorciatoia, né ansiosa sorveglianza paterna; Hinata sarebbe diventata autonoma e forte con le proprie gambe. In fondo, questa era la cosa giusta.
            Non ti chiederò il permesso nemmeno stavolta, aveva detto. Se quelle parole potevano essergli parse impudenti, appena pronunciate, ora ne aveva colto il vero senso: era una dichiarazione d’indipendenza, una sfida non verso il padre in sé, ma il destino, il proprio fato, la propria vita. Forse Hinata non era tanto diversa da Haiko, in quanto a forza d’animo e delicatezza, dopotutto.
            Per la prima volta, dopo molti anni, Hiashi sorrise al proprio riflesso.
 
***
 
I marciapiedi erano già ricoperti da un sottile strato di foglie gialle e rosse, le uniche macchie cromatiche nel grigio dell’atmosfera. Non era una cattiva stagione, l’autunno, se poi pensava che vi era nato anche Naruto.
            Hinata camminava verso la fermata del bus, in fondo alla strada, stringendo in pugno una busta in cui aveva accuratamente piegato l’abito nero di sabato; avrebbe voluto lavarlo, ma temeva che Hiashi, girando per casa, l’avrebbe visto steso in lavanderia e chiesto spiegazioni. Forse esagerava, dal momento che il padre non si era mai preoccupato più di tanto del suo guardaroba o di ciò che acquistasse, quelle poche volte che usciva di casa, ma aveva sempre paura di discutere con lui. Anche se, quel pomeriggio, era stata lei stessa a voler chiarirsi con il genitore. Più ripensava al loro dialogo, meno capiva se fosse stata la decisione giusta o sbagliata; l’aveva deluso di nuovo, ne era certa, però non riusciva nemmeno a dispiacersi troppo dell’epilogo, perché, per la prima volta, aveva provato il brivido della risoluzione, della sicurezza. Sì, per la prima volta, era stata in grado di affermare la propria volontà.
            Raggiunta la pensilina, si accomodò sulla panchina e incrociò le braccia, rabbrividendo. Faceva freddo, ma non era solo il clima a farle accapponare la pelle: il pensiero di Sasuke, il dover entrare di nuovo nella sua dimora, stavolta senza l’esuberanza di Naruto a spezzare l’atmosfera, la gettava nel panico. Forse avrebbe dovuto ascoltare suo padre e rimanere a casa, non perché l’Uchiha fosse una pessima persona, tutt’altro, ma perché aveva paura di risultare noiosa, infastidirlo, deluderlo… C’erano centinaia di motivi per cui sarebbe stato meglio starsene chiusa in camera sua, quel lunedì pomeriggio, ma non le erano sembrati abbastanza convincenti. Una parte di lei, per quanto la ragione le ricordasse della promessa fatta a se stessa, voleva rivederlo, sentire di nuovo il suo alone protettivo e scuro attorno alla propria persona, sprofondare in quegli occhi neri che sapevano calmarla meglio di qualunque altra cosa.
            Sospirò e si fissò le scarpe, facendo convergere fra loro le punte dei piedi. Era sbagliato fare affidamento su quel ragazzo, non era corretto nei suoi confronti, né verso i propri, dal momento che avrebbe dovuto cominciare a nutrire più fiducia in se stessa.
 
I fari di un’auto scura, che giungeva nella direzione opposta a quella dov’era lei, la distrassero. La ragazza s’irrigidì, stringendosi nelle spalle e trattenendo il respiro, capendo al volo di chi si trattasse. Alzarsi o restare lì? Fare un cenno con la mano o rimanere composta e sperare che passasse di lì per caso? Sì, per caso! Solo uno stupido avrebbe bazzicato nel quartiere situato dall’altra parte di Konoha, quando, fra venti minuti, aspettava ospiti a casa.
            Sasuke diede un veloce colpo di controsterzo e fece girare rumorosamente le gomme, fermandosi proprio davanti a Hinata. Abbassò il finestrino del lato passeggero e la osservò alcuni secondi, senza parlare.
            Anche lei lo fissava in silenzio, incapace di muoversi o articolare un suono. Non si aspettava che il loro incontro sarebbe addirittura stato anticipato in quel modo.
            «Mi sono ricordato che non guidi, e che Neji è uno stronzo», dichiarò lui con tono tagliente.
            La ragazza sbatté le palpebre e bisbigliò qualche sillaba senza senso, mentre cercava di difendere il cugino.
            «Sali!», la interruppe lui, con quel comando.
            Quella richiesta era stata tanto imperiosa, ma, allo stesso tempo gentile, da non ammettere repliche o opposizioni. Hinata strinse la busta al petto e si accomodò lentamente sul sedile.
            Sì, era “protezione” la parola giusta.
 
L’abitacolo, come sempre, era avvolto da un silenzio interrotto solo dal ruggito del motore e dalla musica di sottofondo, ma quelli non erano suoni, non come li intendeva la Hyuga. Quello di cui aveva bisogno erano parole, frasi, discorsi in grado di farle dimenticare ciò che si stava lasciando alle spalle – una discussione importante con il padre – e ciò cui stava andando incontro – villa Uchiha, l’ignoto. Perciò si sentì in dovere di cominciare per prima.
             «Ti ringrazio, ma non posso accettare il tuo aiuto». Era ripetitiva, sapeva di aver pronunciato quell’affermazione già troppe volte, in sua presenza, e che la pazienza di Sasuke non era infinita. Si chiedeva cosa ancora lo trattenesse dall’urlarle in faccia quanto fosse noiosa, senza spina dorsale e fallita.
             «Mi sembra di averti già detto che ormai è troppo tardi», ribatté lui, alzando il volume dello stereo. Non voleva sentire lo stesso disco deprimente, né doversi ripetere o, peggio ancora, scavare a fondo nel suo animo e portare in superficie sconvolgenti frammenti di sé che non aveva mai intravisto e che, sicuramente, non avrebbe mai voluto mostrare alla ragazza dai capelli blu.
              Hinata rimase sconvolta da quel gesto. Era il suo modo per tapparle la bocca? Non ci stava, non le andava giù. Era sbagliato farsi travolgere dallo sconforto per un nonnulla, ma ancora più errato far ribollire la rabbia nel sangue, soprattutto verso Sasuke.
              Però era stato un gesto poco carino, per quanto giustificabile. Strinse le palpebre e, spinta da chissà quale forza, la mano girò rapidamente la manopola del volume verso sinistra, riportando la musica alle sonorità lievi di prima.
              Il moro si girò a guardarla, stupito; non gli aveva dato fastidio, solo non se l’aspettava. Gli occhi chiarissimi di Hinata erano fermi sul suo viso, stranamente imperscrutabili, mentre le labbra, serrate e rigide, esprimevano in quel modo il suo disappunto. Sembrava, anzi, era sicuramente imbronciata, e lui non poté trattenere un sorriso.
             Cos’era successo alla Hyuga? E cosa stava capitando, pure a lui?
             «Sono stufa di far pena alla gente», sbottò lei, senza abbassare lo sguardo. Era solo una sua impressione, o era riuscita a cogliere di sorpresa quel ragazzo?
             «Tu… non fai pena», mormorò lui, tornando poi a fissare la strada. Forse era una menzogna, perché, almeno inizialmente, era stato intenerito dalla pietà, ma non poteva incolparla per aver ridestato un pizzico di umanità nel suo animo.
             «Nemmeno tu sei molto bravo a mentire».
              L’auto si era fermata nel parcheggio della villa proprio in quel momento e Sasuke si era rapidamente voltato verso la giovane, spegnendo il motore.               La trovò con la testa rivolta verso il finestrino, gli incisivi piantati nel labbro inferiore e il pugno stretto sulla maniglia. Voleva scendere, rimangiarsi tutto, scappare, ma non riusciva a compiere nessuna delle azioni che le pizzicavano il corpo.
              Per la prima volta, Sasuke era intimorito dalla Hyuga, quasi non la riconosceva. Aveva appena colto degli aspetti mai notati prima, in lei. Era umana quanto lui, forse troppo.
             Provocare dolore era sempre stata una sua specialità, ma non vi aveva mai prestato troppa attenzione: calpestava cuori e infrangeva ossa come se niente fosse, di solito; eppure, questa volta voleva rimediare, perché vedere Hinata in quello stato lo sconvolgeva più di qualsiasi altra cosa.
             Proprio mentre stava per schiudere le labbra, lei spalancò la portiera e uscì, lasciandolo a bocca aperta. Rimase a fissarla qualche istante, prima di imitarla e raggiungerla. Le si parò di fronte, trattenendola per le spalle, quando lei cercava di girarsi, chinando il capo. Odiavano entrambi apparire insignificanti ai loro occhi.
              «M-mi dispiace», mugolò, cercando di calmarsi.
              «Entriamo», sussurrò Sasuke, sorridendo.
 
Appena varcò la soglia dell’abitazione, Hinata fu investita da un intenso profumo di mandarini e cannella, e subito si tranquillizzò. “Casa” era la prima parola che le era venuta in mente, dopo quella sensazione olfattiva, pur non essendo un collegamento logico. Il calore che aleggiava nell’aria, le buone vibrazioni scaturite da sorrisi e dialoghi, la rinfrancarono. Probabilmente, parte di quella positività, era dovuta a Itachi.
            Osservò con cura le pareti, i quadri, i mobili… era tutto identico a qualche giorno prima, se non che mancava Naruto. All’improvviso, il benessere si volatilizzò dal suo corpo, costringendola a pensare a quanto fosse sola e insicura, là dentro, senza il biondo. Lui avrebbe senza dubbio spezzato la tensione che li avvolgeva con il fragore di una risata, o una battuta simpatica.
            «Mio fratello è fuori e i miei lavorano fino a tardi», quasi la lesse nel pensiero.
            La Hyuga sentì le gambe cedere, ma abbozzò un sorriso tirato, per rassicurarlo; voleva apparirgli forte e sicura di sé, nonché realmente fiduciosa nei suoi confronti, e riconoscente. Già aveva commesso un’imperdonabile gaffe, in auto, perciò ora desiderava solo migliorare. Se non avesse stretto spasmodicamente la busta con il vestito, fra le mani, sarebbe quasi riuscita ad ingannare l’Uchiha sulla propria imperturbabilità; peccato che il moro fosse un acuto osservatore e, una volta toltole di mano il fardello, la invitò ad accomodarsi in cucina.
            Si guardarono in silenzio per alcuni minuti, ancora ripensando alla scena della macchina. La ragazza si sentiva tremendamente in imbarazzo e avrebbe voluto andarsene, ringraziarlo nuovamente per l’aiuto offertole, ma troncare lì quella specie di sodalizio. Non voleva essere un peso e rivelarsi ancora più stupida di come già non gli apparisse.
            «Da quando ti piace Naruto?», domandò Sasuke, all’improvviso. L’aveva colta di sorpresa e sorrise, perché quello era proprio il suo intento: difficilmente sarebbe riuscita a divagare.
            Hinata tossì leggermente, avvampando, ma cercò di non distogliere lo sguardo dal volto del moro.
            «D-da tempo… dalla prima volta che l’ho visto, quando avevo otto anni», sussurrò finalmente, ripercorrendo con la mente quel giorno.
           
Andava ancora alle elementari, era gennaio, ed era stata presa di mira da Neji e i suoi amici con delle palle di neve. Il cugino aveva ingaggiato una sorta di tiro al bersaglio, stabilendo che avrebbe vinto colui che l’avrebbe centrata in viso; naturalmente, la crudele vittoria sarebbe stata sua, se non fosse intervenuto quell’irritante bambino biondo, a pararsi davanti alla piccola Hinata, beccandosi in faccia quel proiettile di acqua ghiacciata. 
             Neji se n’era andato sbuffando, mentre la Hyuga era rimasta ad osservare sbalordita per alcuni minuti il suo salvatore, che si ripuliva le guance.
            «Stai bene, vero?», le aveva chiesto, girandosi con un sorriso largo e luminoso.
             Lei aveva annuito timidamente e l’aveva ringraziato di cuore, avvicinandosi titubante. 
            Il ragazzino le strinse le mani e si presentò: «Sono Naruto Uzumaki e un giorno ti sposerò, cosicché Neji non ti disturberà mai più». 
            La bambina, ammutolita, l’osservò allontanarsi a tutta velocità verso l’entrata della scuola, dove la maestra stava richiamandolo. Aveva scolpito quella promessa nel suo cuore, ingenuamente, insieme al ritratto sorridente di Naruto. 
           Da quel giorno, lui era diventato il suo punto di riferimento, l’àncora di salvezza, il traguardo da tagliare, la felicità a portata di mano, per quanto irraggiungibile.
 
 
«Non credi che sia una passione deleteria? Anzi, credi davvero che sia passione? Tu sai cos’è, la passione?», chiese Sasuke, riportandola alla realtà.
            Hinata scosse leggermente il capo e sbatté le palpebre, ridestata dal ricordo, e il moro le ripeté la domanda.
            «No… sì, credo», mormorò confusa.
            «La prima risposta è quella che conta, dicono».
            «Io… non lo so», ammise affranta.
            Sasuke si alzò di scatto e provocò una fitta di disagio nel petto della Hyuga. Aveva detto qualcosa di sbagliato? Lo osservò avvicinarsi alla cucina e accendere il fornello, dove era già stato posizionato un bollitore. Era strano vederlo muoversi in un ambiente tanto domestico: non si sarebbe mai aspettata di poter ammirare l’Uchiha preparare il thè, un giorno.
             «La passione è qualcosa che ti consuma, che occupa totalmente i pensieri. Qualcosa che vorresti soddisfare, ma che, allo stesso tempo, hai paura di affrontare. Ti brucia dentro, nel sangue, ma non lo consuma, anzi, ne pompa sempre di più e lo rinnova. È peggio di qualsiasi tortura. Questa è la passione», spiegò deciso, spegnendo la fiamma prima ancora che il bollitore potesse fischiare. Non aveva pazienza, eccone un’altra prova. Eppure, con lei stava conoscendo una calma inconsueta.
             Versò l’acqua calda in due tazze e gliene appoggiò una di fronte, senza chiederle che gusto avesse gradito. Nell’aria si stava vaporizzando quell’aroma di mandarino e cannella che le aveva colpito l’olfatto appena era entrata in casa, e lei sorrise, mescolando la bevanda. Senza nemmeno accorgersene, probabilmente, il ragazzo l’aveva messa a proprio agio. Anche se durò poco.
             «È questo che provi per lui?», le chiese, sorseggiando lentamente l’infuso.
              La Hyuga non era così sicura della sua risposta. Si mordicchiò il labbro, prendendo la tazza fra le mani. Sì, no, forse? Qual era l’esatta sentenza a quell’interrogativo? Se non ci avesse pensato, avrebbe sicuramente affermato di essere attraversata da una passione sconvolgente, verso Naruto, ma qualcosa le aveva fatto cambiare idea. O meglio, qualcuno, a questo punto. Qualcuno che la conosceva meglio dell’Uzumaki, ad esempio, e che stava facendo il possibile per aiutarla, senza porsi problemi se lei fosse tanto timida ed irritante.
            «E poi, credi che la passione si possa misurare in anni? Ritieni che un amore possa essere più vero di un altro soltanto perché è da più tempo che si conserva nel cuore?», tornò all’attacco lui, fissando il contenuto della propria tazza. «Io credo proprio di no».
            Voleva chiedergli perché lo stesse pensando, come potesse esserne tanto sicuro, ma una parte di lei aveva paura di apprendere la risposta, forse perché già la conosceva. Amava Naruto? Sì, l’amava, ma solo se non ci rifletteva poteva esserne del tutto certa.
 
Hinata si alzò e posò la tazza nel lavandino, irrigidendosi quando si trovò affianco Sasuke. Si girò lentamente verso di lui e scoprì il suo sguardo profondo puntato negli occhi. Perché, all’improvviso, faceva così male, guardarlo? Quand’era diventato così bello e vicino? A differenza dell’Uzumaki, l’amore della sua adolescenza, l’Uchiha era incredibilmente attiguo, raggiungibile. Sasuke c’era, era lì, con lei. La vedeva, l’ascoltava, si prendeva cura di lei, a modo suo.
            Il cuore le batteva all’impazzata e lei dovette abbassare lo sguardo di qualche centimetro, per non stramazzare a terra. Osservò la sua bocca deturpata dal pugno di Neji, e rabbrividì.
            «M-mi dispiace per il tuo labbro», balbettò.
            «Fa il paio con il tuo livido… anche se sembra andare meglio, a quanto pare», sorrise sottilmente lui, sfiorandole la guancia.
            Era fresca; la ferita, ormai, non pulsava più e la pelle si stava uniformando, cicatrizzando la lesione. Quella chiazza scura, per quanto deprecabile, era un bellissimo contrasto, sul suo volto diafano, che metteva in risalto gli occhi chiarissimi e il bisogno di essere protetta.
            “Ci penserò io, a lei”, promise la sua voce interiore, con una sicurezza tanto forte da voler esplodere dalle labbra; ma non sarebbe riuscito a dirglielo apertamente, non ora.
            «Quali idee ti sei fatta, su di me?», le chiese, sistemandole una ciocca di capelli dietro le orecchie.
            «Che sei una brava persona… troppo buona con me», rispose lei, non senza imbarazzo. Ma era la verità, non voleva di certo adularlo. «E tu?». Non sapeva nemmeno perché glielo avesse domandato, dato che poteva benissimo immaginare che il suo pensiero non fosse molto diverso da quello degli altri. Inoltre, già in auto, lei stessa aveva affermato che era riuscita ad impietosire anche lui. Perché rivangare quel ricordo? Si maledisse, stringendo i pugni.
            Il moro sorrise, guardandola. Se non era ardita, era comunque furba, perché l’aveva appena spinto in un pantano.
            «Penso troppe cose, e tutte sbagliate», mormorò.
            Se erano erronee, forse voleva dire che, in parte, erano giuste.
            Hinata tremò, sentendosi accarezzare la guancia. Chiuse gli occhi, incapace di guardare Sasuke e il futuro che si stava appianando insistente dentro le pupille. Per quanto si sentisse a disagio, improvvisamente al centro dell’attenzione, gli era grata, perché mai aveva provato tanta sicurezza al fianco di qualcuno. Era stupido pensarlo, se ne rendeva conto, perché non erano nemmeno amici, eppure era così, non trovava altri modi per spiegarsi quella sensazione contrastante di imbarazzo e benessere.
            Sasuke colse quelle palpebre abbassate come un segnale per compiere un passo avanti. Era assurdo pensare che la Hyuga stesse volontariamente calando le proprie difese davanti a lui, ma non poteva interpretare diversamente la sua reazione.
            Hinata sentiva le sue mani calde sfiorarle il collo, e il respiro solitamente controllato del moro farsi più rapido e incredibilmente vicino alla sua pelle. Era incapace di aprire gli occhi, figuriamoci di opporsi a parole o gesti. Perché una parte di lei, in fondo, non voleva scostarsi.
            «Vuoi sapere che cosa penso di te? Che vorrei dimenticarti, delle volte. Che sei debole, ma onnipresente… e che ora vorrei terribilmente fare equitazione, con te».
             Lei non aveva capito perfettamente cosa c’entrassero cavalli e maneggi, ma aveva tremato quando una mano del ragazzo era scesa verso i bottoni della camicetta, rigirandone uno fra le dita, e le sue labbra avevano finalmente lambito la candida pelle del suo collo. L’attesa di poter saggiare il profumo della sua carne con la bocca lo aveva lentamente logorato, da sabato sera e, per quanto la ragione gli continuasse a ricordare che quella era Hinata, la dolce e indifesa Hinata, la sua anima nera gli impediva di fermarsi.
            Aveva risalito a suon di lievi baci il collo della giovane, per arrivare al mento, e finalmente lei aveva aperto gli occhi, sussultando. Un campanello d’allarme era suonato nel cervello, ma non era abbastanza saggia per ascoltarlo, in quel momento. La mente se n’era deliberatamente andata in vacanza, portando con sé il buonsenso. Riuscì solo ad afferrare saldamente la mano dell’Uchiha, proprio prima che s’insediasse sotto la camicetta ormai mezza sbottonata.
            «È un esperimento», sussurrò lui, verso il suo orecchio, con tono suadente.
            «Non… non mi piace», mormorò lei. Non era nemmeno sicura che le cose stessero così, ma non sarebbe mai riuscita a lasciarsi andare, non avrebbe mai voluto pentirsi di qualcosa che non aveva mai attraversato l’anticamera dei suoi pensieri, prima di quel pomeriggio. Per lei era esistito sempre e solo Naruto, e non aveva mai immaginato situazioni del genere.
            «Oh, lo vedremo», sorrise sinistramente, guardandola negli occhi, prima di tornare a sfiorarle il collo con le labbra e farla vacillare.
            «Sa-Sasuke…», mormorò impietrita.
            Quei baci l'avevano gettata al confine del piacere illecito. Si sentiva tremendamente in colpa, nel tradire l'aspirazione della propria anima, che tendeva costantemente a Naruto, ma non riusciva nemmeno a bloccare quella sensazione appagante che correva sotto le labbra del moro. 
            Nessuna si era mai opposta al suo appetito molesto, nemmeno Hinata si stava sforzando più di tanto per fermarlo. Era timida, una preda fin troppo facile. Sospirò, staccandosi da lei e dandole le spalle, improvvisamente incapace di proseguire. Non voleva approfittarsi di lei, né contaminare la sua purezza in modo tanto deplorevole; la Hyuga era un premio da conquistare e meritarsi, non poteva essere paragonata a qualcuno come Karin, che si era lasciata ghermire senza troppi preamboli. Aveva sbagliato, ma non riusciva a dispiacersene troppo.
            «Rivestiti!», le ordinò, osservando il riflesso immobile della giovane, nel vetro della finestra. Aveva ancora la camicetta semi-sbottonata, da cui s’intravedeva la pelle candida e il reggiseno lilla, e lui si sentiva un dannato porco di prima categoria, un depravato senza un minimo di morale.
            Come se non bastasse, notò l’auto di suo fratello giungere nel parcheggio. Sospirò sonoramente e si sedette su una sedia, senza degnare Hinata di uno sguardo. La poveretta, imbarazzata e incapace di muoversi, osservava le reazioni del moro e si domandava se l’avesse offeso. Era quasi pronta a chiedergli scusa, ma per fortuna un briciolo di cervello le era rimasto, giusto per ricordarle che la parte offesa era lei e che ci mancava solo l’ennesima richiesta di perdono, da parte sua, per mandare Sasuke su tutte le furie.
             Si abbottonò rapidamente la camicia, indossò la giacca e rimase ferma al suo posto.
 
«Sono a casa!», esclamò Itachi, comparendo sulla soglia della cucina. «Ciao, Hinata!». Era sorpreso nel vederla lì, ma anche sottilmente compiaciuto, nonostante non riuscisse a capire se avesse appena interrotto qualcosa di importante o salvato la situazione.
            La Hyuga trasse da quell’arrivo provvidenziale un frammento di coraggio, quel tanto che le bastasse per non rimanere inerme e travolta dagli eventi. Non appena il maggiore degli Uchiha si allontanò per posare il cappotto, prese un respiro profondo e si voltò verso Sasuke, che si era intanto alzato.
            «Devo rientrare», era riuscita a mormorare.
            «Sì, devi. È meglio», confermò lui, appoggiandosi al lavandino, dandole le spalle.
            Sapeva che non avrebbe resistito ancora a lungo, quella bestia famelica dentro di lui. Anche se, per quanto non gliene fosse mai importato nulla dei sentimenti altrui, adesso qualcosa era cambiato.
            Non voleva ferirla, non meritava il trattamento riservato alle altre che gli cascavano ai piedi. Hinata era attraente, troppo bella perché non riuscisse a provare un istinto naturale nei suoi confronti. Era la sua natura di uomo e di bastardo, ma avrebbe fatto il possibile per starle alla larga, per non abusare della sua purezza. In fondo, aveva schiere di fanciulle pronte a soddisfare ogni suo desiderio più recondito, perché intestardirsi su quel capriccio fugace? Su quella Hyuga che aveva solo un viso angelico e un bel corpo, nulla di più. Su quella ragazza che aveva meno personalità di una farfalla – e molta meno libertà.  Su quella splendida diciottenne che possedeva un’aura serafica, affascinante, per quanto sofferente, e che aveva espressamente bisogno di lui.
             E poi, diamine, era Hinata! Era timida, candida, perdutamente innamorata del suo migliore amico. Certi pensieri non dovevano nemmeno attraversargli l’anticamera del cervello! La Hyuga era l’ultima fanciulla al mondo con cui un ragazzo popolare, rispettato e sfrontato come lui sarebbe mai dovuto stare.
            Decisamente, doveva starle alla larga, per il bene di tutti. Anche perché non provava niente per lei, no? Aveva promesso che l’avrebbe aiutata, fintanto che ne sarebbe stato in grado, e non si sarebbe mai rimangiato la parola data, però la situazione gli stava sfuggendo di mano. Si era cacciato in un guaio, incrociando quelle meravigliose iridi di perla, senza nemmeno rendersene conto. Stare a contatto con Hinata era un grande rischio, perché possedeva l’incantevole bellezza e il periglioso destino di una sirena.
            «Itachi, accompagnala a casa!», ordinò al fratello, che capì al volo il messaggio cifrato dietro quel comando. Tirava una cattiva aria, meglio non invischiarsi nel tentativo di riappacificare l’animo dell’otouto.
            Prima di seguire il ragazzo dai lunghi capelli corvini, lei si girò verso Sasuke. Occhi neri, più scuri della notte, la fissavano con la bramosia di un naufrago approdato a casa, dopo anni di rovinose traversie su zattere. “Vattene, scappa finché sei in tempo”, sembravano dirle, “perché non avresti scampo”.
            Nessun saluto, nessuna parola; solo sguardi, silenzio e frasi inespresse che venivano assorbite da un certo caos dentro l’anima.
            Hinata uscì dalla porta della villa con un turbamento che le spezzava il fiato. Perché quell’odio improvviso, nei suoi confronti, anche da parte di Sasuke? Cosa gli aveva fatto?
 
Entrambi avevano appena sfiorato il bordo di una tentazione sublime, piacevole, ma mortale, come qualsiasi maledizione. Avevano raggiunto un punto simile a quello di non-ritorno, e non sapevano se proseguire nella nebbia, fianco a fianco, o tornare indietro, da soli. Nemmeno si rendevano conto che le loro solitudini avevano appena trovato un modo per non essere più definite tali.
           
Appena l’auto di Itachi ripartì, Sasuke affondò violentemente il pugno destro nel muro. Difficilmente le cose sarebbero tornate come prima, con Hinata.
            Osservava il sangue colare lungo le nocche e toccare terra; capì che, dopotutto, era stato inevitabile giungere a quel punto, rischiare di perderla per tenerla stretta a sé, perché, prima o poi, i nodi sarebbero comunque venuti al pettine.
            Nonostante si ritenesse un pessimo amico, un infame, uno sporco approfittatore, aveva appena deciso che avrebbe fatto il possibile per renderla felice. Per farlo, però, aveva bisogno di nuove certezze.
            Estrasse il cellulare di tasca e chiamò l’unica persona che poteva estinguere i suoi dubbi.

 





Mi prostro ai vostri piedi, cospargendomi il capo di cenere. Chiedo perdono per aver lasciato passare tanto tempo dall’ultimo aggiornamento, e non voglio tediarvi ulteriormente adducendo i motivi del ritardo nell’aggiornamento, perché sarebbero i soliti, ahimè.
Questo capitolo ha avuto una gestazione lunga, c’è ancora qualcosa che non mi convince troppo, ma ci rinuncio XD Lo posto così com’è, ormai ho la nausea ahah Spero comunque che sia stato abbastanza decente, benché spropositatamente lungo!
(D’accordo, alzo la mano: quella che ascolta i vostri discorsi in autobus, con l’iPod rigorosamente basso, sono io! Sono io la vostra stalker di pensieri XD)
Vi ringrazio tutti, dal primo all’ultimo, per aver letto e recensito i precedenti: siete sempre di una gentilezza abnorme! *-* Grazie anche per le letture silenziose, le preferenze e i click nelle ricordate e seguite! Davvero, grazie!
Un ringraziamento doveroso va a Rhain_1992_ARM perché, oltre al sostegno e le bellissime art che crea per la storia (le trovate qui), mi ha fatto conoscere una splendida canzone (Running Away, Midnight Hour), senza la quale i pensieri non sarebbero fluiti nel capitolo :D
Farò il possibile per aggiornare presto, sperando di avere più tempo libero, in settimana ;)
Grazie ancora!
Baci ❤
 
Ophelia
   
 
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