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Autore: RomanticaLuna    19/11/2013    1 recensioni
Erik Phelps, 17 anni, Distretto 1, figlio unico. Il ragazzo atletico, bello e muscoloso che tutte le ragazze vorrebbero al proprio fianco.
Rosaline Smith, 17 anni, Distretto 4, terza di quattro fratelli. Robusta, intelligente, atletica ed espansiva.
Jasmine Brave, 16 anni, Distretto 8, prima di sei fratelli. Mingherlina, paurosa e timida.
Oliver Parker, 16 anni, Distretto 10, una sorellina da mantenere, una grande forza d’animo, coraggio da vendere, amichevole ed affettuoso.
Quattro ragazzi, un solo destino: partecipare ai 60°Hunger Games. Quattro sogni, quattro caratteri, differenti ambizioni e passioni, differenti Distretti ed abitudini, ma la stessa missione: vincere e non essere uccisi. Quattro storie che si legano nell’arena, una sfida che affronteranno insieme.
Che i sessantesimi Hunger Games abbiano inizio e che la Fortuna vi assista!
Genere: Azione, Guerra, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri tributi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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8 - Gli ibridi





Passarono intere giornate senza che qualcuno morisse. I Tributi non avevano nessun’intenzione di uscire dai loro nascondigli per affrontare gli altri e poi morire. Era praticamente certo che la capitale si stesse annoiando, in poco tempo sarebbe ricorsa alle sue tecnologie.
Rosaline ed Erik cacciavano sott’acqua, quel giorno, mentre Jasmine pensava al fuoco. Ogni tanto buttava l’occhio nella loro direzione e sorrideva fra sé. In quei pochi giorni di terrore aveva trovato la felicità e doveva ringraziare quel ragazzo ancora così misterioso per lei ma pur sempre così perfetto. Erik la faceva sentire viva.
Il rumore di rami spezzati invase la foresta prima silenziosa. Jasmine afferrò al volo i suoi pugnali e si girò nella direzione dei rumori, pronta a colpire. Attese in silenzio e con il fiato sospeso, ma non uscì nulla. Forse si era sbagliata. Tornò con la mente al fuocherello acceso, lo smosse con un bastone e poi si stese a pancia in su e chiuse gli occhi per qualche secondo. Un dolore lancinante le perforo la gamba, lanciò un urlo acuto ed aprì gli occhi di scatto. Un grosso orso grigio stava ritto su due zampe, gli artigli insanguinati e pronti a colpire un’altra volta. Aveva due profondi occhi verdi ed un piccolo braccialetto argento veramente famigliare intorno al polso. Provò ad alzarsi per sfuggire alla nuova zampata, ma non fu abbastanza veloce e la forza con cui la colpì l’orso la mandò a sbattere contro una pietra. Svenne all’istante.
Sentendo le urla di allarme, Rosaline ed Erik corsero subito a difendere l’amica. Si bloccò il cuore ad entrambi quando videro l’immenso animale che pattugliava la zona. Rosaline cercò l’arco ed incoccò una freccia, insicura di riuscire a colpire qualche organo vitale, Erik recuperò la lancia e qualcuno dei coltelli di Jasmine. L’orso si girò nello stesso momento in cui il ragazzo afferrò l’arma. I suoi occhi verdi e profondi gli erano famigliari e quel braccialetto argento poteva essere stato fabbricato solamente nel suo Distretto. Dentro di sé sapeva chi fosse quell’essere, o per lo meno chi era prima della trasformazione ad opera di Capitol City.
“Emily” disse piano. L’ibrido lo guardò fisso un attimo, poi mostrò le zanne e stese gli artigli, dirigendosi nella sua direzione. Indietreggiò di qualche passo, nonostante sapesse che quella cosa non era la sua vecchia compagna, non riusciva ad ucciderla. Fu Rosaline ad attaccare. Nello stesso momento in cui l’orso le diede le spalle. Si aggrappò alla sua schiena e si arrampicò fino a raggiungere il cranio. Con molta fatica gli infilzò l’occhio con una freccia. Sangue nero sgorgava dalla ferita, ma il dolore non fermò l’animale anzi, lo rese ancora più cattivo. Buttò a terra la ragazza e la trafisse con i suoi artigli. Ci vollero diversi secondi prima che Erik si decidesse a reagire. Spinto dalla sete di vendetta contro la capitale si buttò contro l’ibrido, la lancia davanti a sé, e trafisse il suo stomaco. L’occhio verde si spense subito, un grugnito d’odio segnò la morte della creatura. Con un sospiro di sollievo, Erik si gettò sul corpo delle sue amiche. Sentì il polso di Rosaline, capendo subito che per lei non c’era più nulla da fare: era morta. Poi si spostò su Jasmine. Lei respirava ancora nonostante fiotti di sangue uscissero dalla sua gamba, la ferita era profonda e si era già infettata. Il ragazzo si strappò una manica della felpa e la strinse su quel mare di sangue. Provò a svegliare la giovane, ma non ci riuscì. Allora decise di nasconderla nella capanna, lontana da insetti fastidiosi o animali curiosi e corse verso il lago in cerca di acqua. Doveva riuscire a disinfettargliela, come lei aveva curato lui quando era in fin di vita. L’unico problema era che lui non era un medico e non sapeva nulla sulle piante. Prese delle foglie da un albero e cercò di tamponare il sangue, mentre con l’acqua pulì i detriti di terra e sporco. Una cosa la sapeva: per cicatrizzare, il fuoco può essere un buon aiutante. E Jasmine era ancora svenuta, non avrebbe sentito troppo male. Ravvivò le fiamme e, con l’aiuto del braccialetto d’argento dell’orso, cercò di fermare il flusso di sangue. Provò a fare quell’operazione tre volte e, quando stava per darsi per vinto, vide che l’emorragia era terminata. Con un sospiro di sollievo si stese vicino a lei, ancora completamente sommersa nel mondo dell’oscurità. E si addormentò, nella speranza che nessun altro ibrido di Capitol City sarebbe venuto a reclamare le loro anime o, per meglio dire, i loro corpi succulenti.
Jasmine lottava contro i suoi spiriti interiori. Si trovava a casa, nel campo in cui aveva visto una volta sua madre. Guardava come spettatrice esterna una discussione che avveniva tra i suoi genitori, una bambina di circa quattro anni guardava nascosta dietro ad un masso. E piangeva. Jasmine provò ad avvicinarsi a lei.
“Cosa fai qui?” le chiese, ma non ottenne una risposta. La bambina non si girò nemmeno verso di lei, come se non l’avesse sentita.
“Ehi, piccola” disse ancora, cercando di smuoverla per la spalla. Ma la sua mano non era più solida, trapassò il corpo della bimba senza causarle il benché minimo cambiamento. Era diventata un fantasma? Fino a pochi minuti prima si trovava nell’arena degli Hunger Games, aveva lottato contro un orso e, probabilmente, era morta. Vedeva sua madre, ragione in più per credere di essere in un altro mondo. Ma perché suo padre era lì? Era deceduto anche lui? E la bambina? Le ricordava qualcosa, come un pezzo del suo passato. Le…le somigliava. Sembrava lei all’età di quattro anni. Poi capì: era un ricordo. L’unico litigio tra i suoi genitori, l’unico che vide in prima persona. Suo padre che picchiava sua madre, la fiaschetta d’argento che si scolò andandosene. Sua madre che piangeva. Lei che andava a consolarla. Lo rivedeva con i suoi occhi, lo riviveva un’altra volta e, come la prima, stava male. Era riuscita a seppellire quel ricordo, era riuscita a dimenticare i lividi sul corpo di sua madre. Ma non poteva dimenticare il fatto che, da quando sua madre era morta, lei era diventata il bersaglio preferito del padre. Pianse. Poi il paesaggio cambiò. Erano al funerale di sua madre. Jasmine aveva già otto anni, teneva per mano Isidore, la sorella di sei anni. Tutti gli amici del Distretto li accerchiavano. L’unico a non essere presente era il padre.
“Dove va mamma?” le aveva chiesto Andrew, il fratellino di soli quattro anni.
“Va nello stesso posto in cui stanno i nonni. E Tobias” e gli sorrise. Nonostante la vita la voleva buttare a terra, lei sorrideva sempre, era sempre stata forte. Forse doveva seguire quell’esempio. Avrebbe dovuto risvegliarsi, tornare da Erik e Rosaline, che la stavano sicuramente assistendo. Chiuse gli occhi e li riaprì, ma non successe nulla. Ci riprovò, ancora ed ancora, ma rimase in quel cimitero scarno, senza fiori e senza nulla di vivo. Allungò la mano verso la sua versione in miniatura ed i personaggi di quel sogno scomparvero. Una nuova scena: erano a casa. Lei apparecchiava la tavola, sorrideva e ballava mentre spazzava i pavimenti. I suoi fratelli giocavano fuori dalla finestra, il sole era alto ed i fiori davano colore a tutta la casa. La se stessa del ricordo aveva più o meno quindici anni, quindi era un ricordo vicino. La porta sbatté con forza, suo padre entrò. Ricordava quella scena.
“Via, scappa” urlò piangendo, ma la Jasmine in bianco e nero non poteva sentirla, era solo un ricordo e non poteva cambiare.
“Ti prego, vattene” continuò, cadendo a terra, nascondendo il viso tra le mani.
“Papà, sei già tornato” disse la Jasmine del ricordo. Lui la guardò, puzzava di alcool ed i suoi occhi erano dispersi nel nulla. Era più che ubriaco, non riusciva nemmeno a capire cosa stesse facendo. Prese la figlia per un polso, bevve un altro sorso dalla sua fiaschetta d’argento e la buttò sul divano, cominciando a spogliarla. Jasmine si coprì le orecchie, non voleva ricordare le urla di terrore o quelle di eccitazione del padre. Voleva andarsene da quel ricordo. Provò ad uscire dalla porta, ma non riuscì, era come in trappola.
“Basta!” urlò, seppure consapevole che nessuno potesse sentirla.
La scena cambiò ancora. Jasmine si chiese per quanto tempo ancora la sua mente le volesse far del male, prima di lasciarla andare al regno dei morti o riportarla in quello dei vivi. Questa volta si trovava nell’arena. Non erano passati nemmeno tre giorni da quel ricordo: il bacio con Erik.
“Perché vuoi vedere il buono negli altri anche quando non c’è?” chiedeva il ragazzo del ricordo.
“Perché non voglio credere che al mondo ci sia solo male. Ognuno ha qualcosa di eccezionale in sé. Per esempio, Oliver credeva che un giorno sarebbe finita la guerra, Rosaline racconta storie magnifiche, tu sei in grado di proteggere le persone in difficoltà…”
“E tu sei magnifica”. Jasmine era arrossita nuovamente, quelle parole le ridavano coraggio. Non aveva solo i suoi fratelli per cui combattere, aveva anche lui.
Il bacio si sfocò e si ritrovò in un grande prato. Una casetta ben tenuta e di nuova costruzione era animata da voci di diversi bambini. Jasmine si avvicinò. Nel giardino fiorito due bambini giocavano con le spade, una ragazza li guardava sorridente mentre sferruzzava una sciarpa. Una bambina lanciava in cielo la sua bambola e correva nel punto in cui era caduta. Altre due, si spingevano su un’altalena colorata. Le loro risa riempivano l’aria. Una donna guardava la scena compiaciuta, sul grembo aveva un libro aperto.
“Mamma, quando torniamo a casa?” chiese un bambino castano con profondissimi occhi blu.
“Tra qualche minuto, Erik, perché non vai a giocare con gli altri?” disse la donna, con un gigantesco sorriso.
La scena svanì e rimase solamente il buio. Un buio agghiacciante, eppure pieno di vita. Sembrava lo stesso buio di quando si chiudono gli occhi, la sera, quando ci si vuole addormentare. E Jasmine provò ad aprirli. E, dopo i diversi tentativi senza esito, ci riuscì. Rivide i rametti della capanna, rivide l’erba, sentì di nuovo quei profumi che caratterizzavano la foresta. Era ancora viva. Provò a muoversi, ma dovette fermarsi. Un dolore lancinante le pervadeva la gamba ogni volta che cercava di alzarsi. La guardò. Era fasciata, doveva essere stato l’orso. Non ricordava molto dell’attacco, solo che picchiò la testa e svenne. Jasmine si guardò attorno, in cerca di Rosaline o di Erik, ma di loro non c’era nemmeno l’ombra. Provò a buttare un occhio all’esterno, era sera e l’inno di Capitol City stava terminando. Il fuoco scintillava ed emanava uno strato di calore, l’odore di carne bruciata le arrivò subito alle narici, facendo brontolare il suo stomaco.
“Oh, finalmente ti sei svegliata! Credevo che fossi morta!” esultò Erik. Lei lo guardò con un’espressione stupita.
“Dov’è Lin?” chiese solamente. L’espressione del ragazzo si rabbuiò.
“E’ morta. Per uccidere l’orso” disse lui. Jasmine si portò le mani alla bocca, era già la seconda persona che moriva per lei. Che si metteva in mezzo perché lei non morisse. E ancora non capiva il perché. Lei non era fatta per stare nell’arena, avrebbe dovuto morire il primo giorno, per mano di Emily. Tutti quegli amici sacrificati per la sua vita non ci sarebbero stati.
“N-non è colpa tua” continuò Erik, avvicinandosi a lei e stringendola a sé “in ogni modo dovevamo ucciderlo quell’ibrido”
“Ibrido?”
“Si. Un miscuglio di codici genetici. Era un orso, si, ma aveva anche qualcosa di Emily”
Gli occhi, ecco dove li aveva già visti e perché le erano così famigliari.
“Hai fame?” chiese ancora il ragazzo, offrendole la coscia di quello che sembrava un coniglio. Lei annuì, mostrando un falso sorriso. Era viva, eppure dentro era morta, completamente e profondamente morta. Mangiò con voracità, senza assaporare il gusto della preda.
“In quanti rimaniamo?” chiese la ragazza con la bocca piena.
“In quattro” rispose lui, osservandola. Quella ragazza così indifesa riusciva a smuovere un intero mondo. Almeno, il suo mondo di certo. Quando si era offerto alla Mietitura, Erik avrebbe giurato che, se si fosse presentata l’occasione, avrebbe ucciso chiunque, anche Emily. Tutto per arrivare alla vittoria e per essere famoso. Ma in quel momento, vicino a lei, era certo che si sarebbe sacrificato per concederle la vittoria. L’aveva cambiato. Le scostò una ciocca di capelli, le accarezzò il viso e la baciò. Voleva farle capire che lui era vicino e che non se ne sarebbe mai andato. Un corvo gracchiò, il fuoco, lentamente, si spense. Jasmine ed Erik non si staccarono, quel bacio appassionante continuò. Il ragazzo iniziò a slacciare la felpa della giovane che, presa alla sprovvista, si fermò e lo guardò. Quegli occhi neri la rapivano, completamente. Scollegò il cervello e lasciò il cuore al comando. Era negli Hunger Games, non sapeva se fosse sopravvissuta abbastanza a lungo da potersi innamorare ancora. Con calma gli tolse la maglietta, sentendo con le mani i muscoli sul suo torace. Si lasciò baciare e coccolare, sembrava di essere in un altro mondo. Lui diede il tempo, lento, sensuale. Le bisbigliò parole romantiche all’orecchio, facendola ridere. Gli piaceva così tanto il suo sorriso. Ed il suo sapore. Sapeva di fragola. Doveva essere il suo sapore naturale visto che nell’arena non avevano bagnoschiuma o essenze pregiate per lavarsi. Era…buona. Finì di spogliarla, la guardò qualche secondo beandosi della sua espressione e chiedendole il permesso.
 
La nottata romantica terminò con le prime luci del sole. Quando Jasmine aprì gli occhi, Erik non era più al suo fianco. Si rivestì di fretta, cercando di non peggiorare le condizioni della gamba e, lentamente, uscì allo scoperto, stropicciandosi gli occhi a causa della luce intensa. Era strano che fosse così forte in quel punto della foresta, per tutta la settimana passata l’alternanza giorno/notte non si era nemmeno vista. La ragazza si guardò attorno in cerca di nemici o dell’amico scomparso. Sentì un dolce profumo di frutta ed i suoi occhi cristallini incontrarono quelli scuri del compagno.
“Ben svegliata, dormigliona. Ti ho preso qualcosa per fare colazione” disse Erik con un sorriso. Le porse una mela e si sedette al suo fianco, in attesa di nemici da uccidere per proteggerla. Erano quattro i Tributi ancora in gioco, ancora due ragazzi da uccidere. Se non aveva fatto male i conti, all’appello mancavano il ragazzo del Distretto 3 e quello dell’11. Alla Mietitura non erano sembrati forti, ma tutti nascondono qualcosa. L’esempio più vicino era Jasmine. Timida e gentile all’esterno e cacciatrice ribelle all’interno. Le Ghiandaie Imitatrici canticchiarono un motivetto leggero, melodioso. Segno che un Tributo si trovava nelle vicinanze. Erik caricò Jasmine sulla schiena e si allontanò verso il lago, cercando di non fare rumore. Doveva prima capire da dove provenisse il suono, non poteva colpire alla cieca e farsi localizzare. Piano, lasciò scivolare la ragazza verso l’acqua, imbracciò la lancia e saltò nel liquido cristallino. Era necessario il più completo silenzio. Quel che Erik non sapeva, però, era della presenza di un animale pericoloso, nei fondali oscuri del lago. Quella stessa creatura che aveva ucciso il suo primo alleato, Ivan Green.
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