“Fuori fuori tutti fuori!!!!!” urlò Morgan, gettandosi contro una
finestra.
Poi seguì
un boato fortissimo e un silenzio irreale che regnò sovrano per qualche
istante.
Fu lo
strepito delle sirene e delle autopompe dei pompieri a spezzare l’incantesimo.
Faticava
a respirare, la polvere gli ostruiva i polmoni e lo rendeva cieco. Riuscì a
stento a riaprire gli occhi e si guardò rapidamente intorno per individuare i
suoi colleghi.
Con la
coda di un occhio notò Jj che si allontanava con
passo malfermo, ma tutta intera, sostenuta da Prentiss. I vestiti laceri e i
capelli in disordine, come non l’aveva mai vista prima. Loro erano state
fortunate, al momento del crollo erano ancora all’esterno.
La sua
visuale si spostò sul lato destro dello spiazzo dove Hotch, in piedi su uno dei
mezzi della polizia, con i capelli sporchi di cenere grigia, stava già
cominciando a organizzare i soccorsi. Gideon invece, il volto spettrale e
leggermente contuso, parlava con uno dei soccorritori indicando qualcosa.
Mancava
solo…
“Reid!”
gridò, ma dalla sua gola uscì solo un verso strozzato.
Qualcuno
gli fu subito accanto aiutandolo a rialzarsi.
Cercò di
opporsi “n-no..non me… non…” .
Si
divincolò, reggendosi malfermo sulle gambe, ma lo riacciuffarono. Un uomo di
cui non riuscì a scorgere il volto gli applicò una mascherina per l’ossigeno.
Un altro
boato, probabilmente gli enormi piani di cemento che si stabilizzavano.
“Reid!!” si sforzò di nuovo di urlare.
Inutilmente.
Mentre lo
trascinavano via, su una barella, riuscì
a sporgersi con la testa e ringraziò il fatto di trovarsi disteso, perché
altrimenti avrebbe avuto di sicuro un mancamento.
Il
palazzo dove lui e Reid sostavano poco prima era completamente crollato. Non
rimanevano che rovine di cemento e nuvole bianche di una scena apocalittica in
cui non potevano esserci sopravvissuti.
“Reid”mormorò
di nuovo attraverso la mascherina d’ossigeno.
E infine
la vide.
Era una
sagoma che avanzava zoppicando leggermente reggendo una coperta tra le braccia.
Era Reid.
Ufficio
del B.A.U. Quantico. Due giorni dopo
“E bravo
il nostro ragazzo!!!” esclamò Morgan assestandogli un’ amichevole pacca sulla
spalla.
“Ehi
Morgan vacci piano!!” fece Reid massaggiandosi lievemente la parte offesa.
“E chi
l’avrebbe mai detto che sei così fotogenico?!” osservò Garcia sfogliando il
giornale che teneva in mano con uno sguardo languido da dietro gli occhiali a
forma di cuore.
La prima
pagina del Washington Journal era occupata da una foto che ritraeva Reid
nell’esatta posa in cui l’aveva visto Morgan, poco prima di venir caricato su
un’ambulanza diretta all’ospedale più vicino.
“Eroico
agente dell’Fbi salva una bambina dal crollo di un
edificio!” lesse ad alta voce Prentiss a tutti i presenti.
Reid
scrollò le spalle, arrossendo leggermente.
Sperava
che quella storia finisse presto. Non gli piaceva quell’ondata di notorietà.
In quel
momento Gideon fece il suo ingresso in ufficio diretto in sala riunioni, con un
voluminoso fascicolo tra le mani.
E questo
poteva dire solo una cosa: lavoro.
“L’ultimo
che arriva paga il caffè per tutti!” gridò Reid lanciandosi dietro a Gideon.
Si fermò
a raccogliere alcuni libri che intendeva leggere quella sera e a sistemare dei
documenti che gli sarebbero serviti il giorno seguente. Mentre si trovava
indaffarato in quelle faccende notò un’ombra sui suoi fogli.
Rialzò lo
sguardo e notò Gideon fermo davanti alla sua scrivania.
“Tutto
bene?” domandò con noncuranza.
Lui
annuì.
“Partita
a scacchi da me?”.
“Ok solo un momento”
Reid si alzò e si avviò verso l’uscita insieme al suo superiore.
“E così
adesso sei diventato un eroe, come ci si sente?”domandò Gideon mentre si dirigevano
verso la sua macchina.
“Oh non è
poi così diverso da prima”.
“Si
calmerà in fretta, vedrai”.
Fu solo
oltre i cancelli che li avvistarono.
Orde di
giornalisti e telecamere, tutti premuti contro l’auto di Gideon.
Reid si
portò una mano davanti agli occhi per ripararsi dai flash “Qualcosa mi dice che
non finirà…così in fretta”.
Ufficio
del B.A.U. Quantico. Il giorno seguente
“Allora?
Sono ancora lì fuori?” domandò Prentiss a JJ.
La
giovane annuì “sì, pare che vogliano intervistarlo…”.
“Se non
se ne vanno in fretta dovrò andare a dir loro due paroline” intervenne Morgan
con aria minacciosa.
“Lascia
stare Morgan” osservò Reid dalla sua scrivania, “prima o poi si stuferanno”.
“E se non
lo faranno gli daremo qualche incentivo per farlo” fece Hotch convocandoli in
sala riunioni.
“Spero si
tratti di un nuovo caso e non di una semplice consulenza come ieri!” esclamò
Morgan passando davanti alla scrivania di Reid, mentre si dirigeva verso la
sala riunioni.
Il
giovane fece per alzarsi quando il telefono dell’ufficio squillò.
Quando
riabbassò la cornetta gli parve che fosse trascorsa un’eternità. Un momento
prima era tutto preso da un referto su un caso di due anni prima e un istante
dopo…
Strinse
gli occhi per intravedere la figura che si stava avvicinando, attraverso le
schermate a vetri dell’ufficio, mentre anche lui muoveva qualche passo per
andargli incontro.
Jj
che gli passava accanto si fermò di colpo “tutto bene Reid?”.
Il
giovane annuì “d-devo incontrare una persona scusa…”
“Ah va
bene, allora dirò agli altri che ci raggiungerai in seguito”.
“S-sì ecco non so se ce la farò”.
JJ lo
guardò più da vicino “sicuro di stare bene, chi è la persona che devi
incontrare?”
Reid
mosse ancora qualche passo avviandosi verso l’uscita “mio padre”.
JJ sostò
per un momento fuori dalla porta della sala riunioni prima di entrare. Si voltò
indietro ma Reid se n’era già andato.
“Bene
dolcezza, se ci siamo tutti puoi chiudere la porta” cinguettò Garcia
sfrecciandole accanto.
“Ah sì
ecco…”.
Garcia si
fermò alzando le sopracciglia preoccupata “manca qualcuno?”
“Solo
Reid…”
“Come
mai?”
”E’ arrivato suo padre” mormorò Jj incerta. Non
l’aveva mai sentito parlare del padre e per discrezione non gli aveva chiesto
nulla. Ora si stava chiedendo se avesse fatto bene.
“Suo
padre??!”fece Garcia alzando un po’ la voce “strano… non lo vede da quindici
anni!” esclamò chiudendosi la porta dietro di sé e spingendo dentro Jj.
Se non
gli avessero detto chi era, non l’avrebbe riconosciuto.
Curioso
come, a distanza di anni, fosse stato una persona estranea, l’addetto al
centralino, a definire quell’uomo come suo padre.
Lo
ricordava più alto, più magro e, per quello che poteva ricordare, decisamente
senza barba.
Si fermò
davanti a lui senza dire niente.
Anche
William Reid taceva.
Dentro di
sé Reid si disse che almeno questa soddisfazione non gliel’avrebbe lasciata.
Non
avrebbe aperto bocca prima di lui.
Una
segretaria passò tra loro due carica di fogli e Reid si spostò leggermente per
farla passare.
“Non sei
cambiato” sussurrò Reid senior.
Reid
scrollò le spalle “Non restiamo qui, vieni. Usciamo”.
“Ehi Jj hai visto Reid prima della riunione?” domandò Gideon
alla ragazza mentre uscivano dall’ufficio.
Lei annuì
“era...un po’ strano, non so…”.
“Sarà per
il padre” si lasciò sfuggire Garcia passando loro accanto e avviandosi verso il
suo ufficio.
“Come?”
fece Gideon rivolgendosi a Jj.
“Mi ha
detto così…che era arrivato suo padre. E’ tutto quello che so”.
Gideon
volse lo sguardo preoccupato verso l’uscita, ma non c’era nulla che potesse
fare, al momento.
Erano già
dieci minuti buoni che camminavano in silenzio lungo il marciapiede che
conduceva verso il centro, quando ad un tratto Reid si fermò di colpo e domandò
tagliente “allora cosa vuoi?”
“Perché
pensi che voglia qualcosa?”.
“Oh
andiamo…” esclamò Reid spalancando le lunghe braccia “quindici…quind…ah lasciamo perdere” e riprese a camminare a lunghe
falcate, seguito dal padre.
“Credi
che ci sia sempre una ragione precisa per tutto quello che facciamo?”
Reid si
fermò di nuovo “è così che la pensi? Guarda che non ho più dieci anni”.
“Lo so,
scusa non volevo offenderti” esclamò William in tono pacato “avanti entriamo
qui”.
Erano
giunti davanti a un piccolo bar nei pressi di un incrocio.
Presero
posto a ridosso di una delle ampie finestre. Il silenzio calò nuovamente tra
loro.
È
invecchiato, non è solo la barba, sono…
Gideon
gli aveva ripetuto spesso che molte cose si potevano dedurre dagli occhi di una
persona. E non solo se mentiva o stava dicendo la verità. C’era anche
qualcos’altro.
Ha
sofferto...si trovò a pensare Reid non senza un pizzico di compiacimento.
Ma allora
cosa voleva da lui?
Dopo
tutti quegli anni per giunta… mai una lettera, mai uno squillo. Niente.
Reid si
rese conto di non sapere quasi nulla di lui, conservava solo qualche pallido
ricordo, inerente soprattutto al momento in cui li aveva mollati. Lui e sua
madre.
Da quel
giorno non avevano più avuto sue notizie.
E, se ci
pensava bene, non riusciva nemmeno a ricordare un momento in cui gli fosse
veramente mancato, in cui avesse sentito l’esigenza di averlo accanto. Forse
perché la distanza tra di loro esisteva già da ben prima che Reid senior
lasciasse la sua casa in Empton street per andare in
un altrove dove non aveva una moglie schizofrenica e un figlio prodigio.
Chissà
che peso dobbiamo essere stati per lui, in tutti quegli anni, pensò Reid
facendo finta di sfogliare il menù.
Non
riusciva a rammentare un singolo giorno trascorso da solo con lui, o che
avessero mai fatto qualcosa come ad
esempio erano soliti fare Billy, il suo vicino di
casa, e suo padre.
No,
decisamente quell’uomo che aveva la pretestuosa arroganza di definirsi suo
padre non gli era mai mancato.
È
cambiato.
Ovvio,
erano passati quindici anni, ormai era un uomo.
Ma no,
non era solo questo.
Lo
ricordava come un ragazzino petulante, a cui aveva voluto sì bene, ma senza per
questo trovarlo eccessivamente simpatico. E, se doveva dire tutta la verità,
non gli era mancato troppo, dopo averlo lasciato.
Lui e sua
madre: Diana Reid.
Diana,
Diana…si erano incontrati a un convegno per giovani professori del Nevada e si
erano piaciuti subito.
Di lei lo
affascinavano il suo spirito vivace, il suo anticonformismo, la sua smania di
vita, di esperienze…
All’epoca
lui trovava molto affascinante tutto questo, ma non sapeva che dietro a quella
sua ansia di esperienze si annidava lo spettro della malattia.
A
distanza di anni poi era diventato tutto chiaro, le sparizioni, i periodi in
cui diventava improvvisamente strana, intrattabile e poi il suo umore che
cambiava in un batter d’occhio. Erano tutti segnali, segnali che lui non aveva
saputo interpretare.
Lei
invece sapeva…sua madre soffriva della stessa malattia, ma Diana non parlava
mai della madre morta quando aveva dodici anni. Probabilmente Spencer ne
ignorava addirittura l’esistenza.
E così si
erano sposati. Giovani, felici, ambiziosi e inconsapevoli di una malattia che
pian piano stava divorando uno dei due.
Era stato
con la gravidanza che le cose avevano cominciato a peggiorare irreversibilmente.
Erano
andati dagli specialisti, solo per farsi confermare la diagnosi di cui lei era
già a conoscenza, ma che si era premurata di nascondergli.
Forse
pensava che avrebbe reagito diversamente, che, in una situazione simile,
avrebbe saputo fronteggiare l’emergenza, ma non ci era riuscito.
E, nel
corso degli anni, la situazione era peggiorata, finché non aveva visto altra
via d’uscita che la fuga.
William
Reid si schiarì la voce.
Ma il
figlio lo anticipò “avanti voglio proprio sapere cosa ti ha tenuto lontano per
quindici anni, per tua conoscenza non ci siamo trasferiti. L’indirizzo è sempre
quello e anche il numero di telefono, se te lo fossi scordato”.
Detto
questo incrociò le braccia sul petto e rimase in attesa.
“I-io non so come scusarmi Spencer” cominciò l’uomo incerto,
leggermente a disagio “però devi sapere che non è stata solo una
mia...decisione…”
“Ah sì a
me sembra che quella valigia in camera da letto fosse proprio la
tua...eh…vediamo” fece finta di ricordare, quando invece quelle parole erano
rimaste stampate nella sua mente per anni” non sei stato tu a dire ci
vediamo?...probabilmente abbiamo diverse opinioni sul significato di questo
parola”.
L’uomo
scosse la testa grattandosi il mento “a quell’epoca tu eri soltanto un bambino
Spencer non puoi ricordare tutto”.
Quest’ultimo
commento lo punse sul vivo “se te lo sei dimenticato ti ricordo che…”
“Sì, sì
lo so” fece l’uomo con un movimento della mano, per spazzare via quella
puntualizzazione inutile “la memoria infallibile certo, ma pur sempre quella di
un ragazzino di dieci anni”.
“Sentiamo,
cosa avrei tralasciato di così indispensabile che non sia la tua fuga quando la
mamma ti chiese esplicitamente di rimanere?” fece intrecciando le mani sul
tavolo e sporgendosi verso di lui.
“Non
trattarlo come un bambino!”quante volte gliel’aveva detto Diana.
Lui non
lo sopportava.
Diana
pretendeva di trattare Spencer come un adulto, quando non era così. Sì certo,
era un ragazzo prodigio, questo lo sapeva benissimo, ma pur sempre un bambino.
E invece no, per lei, il suo cervello era la garanzia che potesse capire tutto,
anzi che dovesse capire tutto.
Quante
volte le aveva detto che era meglio iscriverlo a qualche corso che non fosse
strettamente scolastico? Quante volte le aveva suggerito di tenerlo fuori dai
loro discorsi, che lui non poteva capire…e invece no.
Ad essere
sinceri ogni volta che muoveva una critica al suo preziosissimo Spencer veniva
sempre e invariabilmente bloccato da lei, che lo difendeva a spada tratta.
Non era
stato facile, oh no, per niente: con gli insegnanti che premevano per corsi
speciali e simili, Diana e lui che invece avrebbe voluto soltanto che
conducessero una vita normale.
“Tu non
sai tutto Spencer” mormorò William Reid.
“Allora
dimmelo, dimmi quello che non so, adesso puoi. Quindici anni fa non ci hai
fatto questa cortesia, hai fatto le valige e lasciato una lettera, questo me lo
ricordo benissimo…anzi mi chiedo se non te ne sei saltato fuori solo per
questo.”
L’uomo
scosse la testa, riusciva ancora a trovarlo irritante.
“Non puoi
capire”…bofonchiò abbassando lo sguardo.
“Che
diavolo non posso capire?” gridò Reid alzando la voce e facendo sobbalzare
tutti i clienti del caffè “che cosa che non sia prendersi cura di una persona
con problemi mentali quando hai solo undici anni? Mamma aveva ragione, sei
sempre stato un debole!” gridò levandosi in piedi.
“Maledizione
siediti!” sibilò William Reid “è proprio per questo genere di cose che…”.
Reid
inspirò profondamente e si accomodò sulla poltroncina del caffè in attesa di
una spiegazione.
“Io e tua
madre avevamo dei problemi”.
Reid
emise un lungo fischio “è come dire che Noè ebbe dei
problemi con l’arca, vediamo se non sono troppo acuto potrebbero avere qualcosa
a che fare con la malattia di mamma…”.
“Sì
anche, ma non è stato solo quello…oh …è complicato”.
“Non sai
quanto” gli fece eco Reid.
Furono
entrambi contenti che il cameriere arrivasse proprio in quel momento. Questo
diede loro l’occasione di prendersi una breve pausa.
Reid ne approfittò
per dare un’occhiata fuori dalla vetrate: lì tutto trascorreva tranquillo, i
passanti presi dalle rispettive occupazioni, ignari delle discussioni che si
svolgevano in quel piccolo locale.
Ognuno
preso da sé, già…per molto tempo non aveva più avuto fiducia in nessuno,
abituato a cavarsela da solo in ogni situazione e anzi, il farsi carico di un
genitore con problemi aveva sviluppato il suo istinto di sopravvivenza in modo
da poter fare a meno pressocché di chiunque.
Quindi,
benché sempre cordiale e gentile con tutti, si teneva a debita distanza da
tutto quello che poteva comportare un eccessivo coinvolgimento nella vita di
chicchessia.
E così
era stato finché non era entrato nella squadra e aveva incontrato Gideon e gli
altri.
Spesso di
domandava cosa avrebbe fatto se non li avesse mai conosciuti. Erano stati la
sua casa, la sua famiglia e, questo era sicuro, teneva molto più a ciascuno di
loro che non all’individuo sconosciuto che gli sedeva davanti.
“Tua
madre e io avevamo problemi ancora prima che la sua malattia si manifestasse…”
“È sempre
stata malata” ribattè lui deciso, guardandolo dritto
negli occhi “la schizofrenia è…”
“Sì, lo
so benissimo” lo interruppe William.
Reid
tacque.
William
riprese “ quello che volevo dire è che lei non mi aveva detto di essere malata,
finché…”
“Stai
forse dicendo che non l’avresti mai sposata se avessi saputo?” gli domandò Reid
diretto.
Quella
conversazione cominciava decisamente a dargli sui nervi. Era un tentativo di
riavvicinamento alquanto patetico di un individuo che per lui era poco più di
un nome.
“Oh
maledizione, perché devi sempre mettere tutto in modo…” fece l’uomo agitandosi.
“...tecnico?”
osservò Reid inclinando un po’ la testa di lato “bè,
forse a te darà parecchio fastidio, ma sai una cosa? Non mi importa niente, né
di quello che hai da dire, né delle tue patetiche spiegazioni. Ne ho
abbastanza. Non ci sei stato per quindici anni e non vedo perché ripresentarsi
adesso, quindi…” detto questo Reid si alzò e si avviò verso l’uscita.
“Aspetta
Spencer! Aspetta!”.
“Prendi almeno Spencer con te” la sentiva ancora talvolta, il
tono supplicante, lei che era sempre stata così orgogliosa.
Non
poteva perdonarglielo. Semplicemente non poteva.
Aprì la
porta che tintinnò e uscì.
Fuori il
freddo pungente gli sferzava il volto.
Ma c’era
abituato.
“Spencer
andiamo! Voglio solo parlare con te!”
“Parliamone William...prendilo con
te…”.
Non lo
sopportava. Non voleva più ascoltarlo.
“Non
aveva dato loro nessuna possibilità e adesso ne chiedeva una a lui”. Non se la
meritava.
“Spencer
per piacere!”
Non ne
poteva più.
Attraversò
la strada all’improvviso e chiamò un taxi. Con la coda dell’occhio notò William
Reid arrancare per stargli dietro, ma non disse all’autista di fermarsi.
“C’è
qualcosa che non va?” domandò Morgan volgendosi verso di lui, mentre sedevano
all’interno dell’auto che li conduceva sul luogo del ritrovamento di un
cadavere.
Era da un
po’ che tacevano, cosa strana peraltro, perché di solito chiacchieravano molto
durante quei tragitti in auto, solo per ricacciare indietro la noia, solo per
condividere le prime opinioni sul caso…
L’avevano
ragguagliato dettagliatamente poco prima, ma stranamente, Reid non aveva fatto
osservazioni sul caso. Non aveva citato statistiche, fatto paragoni, nominato
vecchi casi.
Era
arrivato appena in tempo, da chissà dove,senza dare spiegazioni. Morgan l’aveva
fatto salire, mentre gli altri si erano già avviati. Ma da allora non si erano
detti molto.
“Reid ehi
Reid”.
I
giovane, che fissava il panorama circostante sobbalzò lievemente “Sì, ci sono
scusa”.
Morgan
fece un lungo respiro “tutto bene?”
Lui
scrollò le spalle “quanti hai detto che erano gli aggressori?”
Bray, dintorni di Washington
“Non ci
sono segni di effrazione” osservò Prentiss facendo il giro delle casa.
“E questo
ci dice solo una cosa” aggiunse Morgan
“Conosceva
la persona che l’ha portata via”terminò Reid in un soffio.
“Cosa ne
pensi?”
“Del
caso? Oh che la soluzione potrebbe essere più semplice” esclamò. Gideon
chinandosi ad osservare alcune tracce.
“No
intendevo a proposito di Reid” lo interruppe Hotch.
“Sembra
essersi ripreso bene…”
“Sei
sicuro che possa partecipare alle indagini?” domandò Hotch con una lieve
traccia di preoccupazione nella voce.
“Gideon
annuì “ sì, gli farà bene. Comunque dopo gli parlerò”.
Washington
“Quanti
anni sono trascorsi dall’ultima volta che l’hai visto?”
Reid
rialzò la testa dai fogli che stava leggendo “chi?...Ah..” sbuffò leggermente
“qui non si riesce proprio a mantenere un segreto eh? Comunque va tutto…a
meraviglia” terminò con un’alzata di spalle e tornando a sfogliare il
fascicolo.
“Va bene
“ mormorò Gideon assorto e continuando a fissare Reid.
Il
giovane depose nuovamente l’incartamento che aveva tra le mani “Eh invece non
va bene…insomma non crede di aver fatto già abbastanza danni andandosene in
quel modo? E invece no, deve tornare dopo quindici anni e…io non riesco più
a…non so…non so cosa vuole sentirsi dire, che diavolo vuole da me…non… ah!”
Tutto
questo praticamente lo gridò andando avanti e indietro intorno alla sua scrivania.
Gideon lo
lasciò sfogare.
“Forse
non vuole niente in particolare...” azzardò.
“E allora
perché oh…..” fece Reid mettendosi le mani sulla nuca “ senti” aggiunse dopo un
breve pausa “ potremmo non pensarci per il resto della giornata?”
Gideon
annuì “ ma mi devi una partita a scacchi ricordatelo”.
Reid
annuì sforzandosi di sorridere.
Las
Vegas Nevada
“Ciao
mamma come stai?”
Sedevano
nel parco del centro di cure dove Diana Reid era ospite fissa da otto anni.
“Oh io
molto bene e tu? Ti vedo un po’ sciupato” rispose la donna accarezzandogli i
folti capelli castani.
Dentro di
sé Reid tirò un sospiro di sollievo. Sua madre sembrava essere in uno di quei
momenti in cui si riusciva a dialogare con lei abbastanza bene.
“Anch’io
grazie” fece Reid con un sorriso tirato.
Non
sapeva da dove cominciare e soprattutto ignorava la reazione che avrebbe potuto
avere sua madre a sentir parlare di un uomo che non vedeva da quasi vent’anni.
Certo, i dottori gli avevano assicurato che in quel periodo stava piuttosto bene,
che non aveva avuto crisi acute da quasi un mese, ma nessuna assicurazione
poteva bastargli, niente gli dava la certezza su come sua madre l’avrebbe
presa.
Si fece
coraggio, era per questo che era venuto.
“Senti…”
cominciò tamburellando nervosamente con le mani sulle ginocchia.
Diana
Reid si volse verso di lui attenta.
“..io.ho-ho incontrato papà” che suono strano aveva quella
parola tra le sue labbra.
Si
aspettava una crisi, un pianto, delle urla e quasi rimase deluso.
Non
accadde niente di tutto questo.
“Non
trovi che sia una splendida giornata?” osservò Diana, come se quanto le fosse
stato appena detto non l’avesse nemmeno lontanamente raggiunta.
“Non non…”aveva trovato il coraggio per formulare quella frase,
ma non credeva di averne di riserva per ripeterla” mamma ascolta…”
“Oggi
Stuart mi ha portato dei fiori. Carino non trovi?” e gli sorrise speranzosa.
Inutile.
Sarebbe potuto andare avanti per ore, senza ricavarne nulla. Le sorrise di
rimando “vorresti mostrarmeli?.
Washington
“Qualche
novità da tua madre?”
Reid
scosse la testa leggermente sconfortato “niente, non capisco se non voglia o…”
si strinse nelle spalle “chissà…forse non se lo ricorda nemmeno” finì spostando
una pedina due caselle in avanti.
“Pensi
che potrebbe nasconderti qualcosa?” riprese Gideon facendo arretrare il suo
alfiere.
“Non lo
so…” rispose Reid ponderando attentamente la sua prossima mossa.
“E tuo
padre? Non si è più fatto sentire?”
“N-no…dopo quella giornata non mi ha più cercato” e
questo,soprattutto, lo insospettiva. Si era aspettato che lo attendesse
nuovamente fuori dall’ufficio o che lo seguisse fino a casa per un ulteriore
colloquio, ma niente. Cinque giorni di assoluto silenzio.
“Forse
sta cercando…un altro approccio” disse Gideon muovendo il cavallo.
“Può
darsi, ma ah…” si era accorto troppo tardi di aver perso la partita“ e ad ogni
modo a te non resta che attendere giusto?”.