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Autore: Blam_    27/11/2013    1 recensioni
Mi chiedo che senso ha?
Non la vita. La vita non ha nessun senso. Già il parto è una cosa inutile: devi soffrire per regalare al mondo una vita che probabilmente non avrà nessun senso.
Prima dovevi sopravvivere per vivere, ora se sei vivo esisti.
La vita è un peso.
Ma che senso ha?
Si può essere indipendentemente liberi?
Genere: Avventura, Commedia, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Incest
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Conducevo una bella vita dopotutto. Almeno ero felice.
A differenza di tutti i  miei coetanei ero libero, non ero oppresso dal volere di nessuno nemmeno da mia madre. Potevo svegliarmi la mattina e decidere di fare una passeggiata con la mia bicicletta per la pineta o costeggiando le rive del fiume saltando la scuola. Ero libero di prendere un martello e fracassare i mattoni accatastati in giardino, di saltare giù dal primo piano, di correre gridando il testo di una canzone per le vie principali del paese o di insultare tutti quelli che mi parlavano alle spalle. Non lo facevo, non volevo essere uno di quelli che abusano della loro libertà per diventare scimmie ammaestrate. Ero innanzitutto libero di essere me stesso e tutto ciò andava contro la mia natura subdola e pacifica.
Nessuno quindi cercava di impormi qualcosa: non l’avrei fatto per ripicca. Quando i miei coinquilini si lamentavano di qualcosa io semplicemente non sentivo ma le mie orecchie ascoltavano comunque. Non volevo essere presuntuoso o arrogante.
Mi ribellai però quando mia nonna, mia zia  e mia cugina cercarono di scegliere per  me cosa avrei dovuto frequentare dopo le medie. Mia madre sosteneva che ero abbastanza maturo per capire le mie potenzialità e fare “la scelta giusta” ma mia nonna era di un altro parere: per lei io ero ciò che la mia età anagrafica riportava, un  adolescente in piene crisi ormonali e con le idee confuse. Credevo mi conoscesse..insomma passavo più tempo con lei che con chiunque altro. Lei è stata la mia insegnante di piano, sostenitrice di scuse assurde per i miei brutti voti in matematica e narratrice ufficiale di ogni storia prima della nanna (soffrivo di insonnia. Ci rimasi così male che tutte le persone alle quali tenevo di più non mi conoscessero come io credevo: mia zia Talia , Giuly, mia nonna…non mi lasciarono voce in capitolo.
Frustrato quel giorno piansi di rabbia mentre gridavo a tute loro che non avevano alcun diritto di influire sul mio futuro, che non gliel’avrei lasciato fare e che avrei preso comunque una decisione differente dalla loro. Alla fine uscì dalla stanza vociferando un “sono deluso” e sbattendo la porta infuriato.
Sprecai un sabato a rompere cose nella mia stanza: il mappamondo cinese, il corno ungherese, tutte le frecce indù nella faretra in pelle che mi era stata regalata e confezionata personalmete da un Maori in Nuova Zelanda. Continuai ad alternare fracassamento di oggetti al cercare di soffocarmi con  un cuscino. Saltai la cena, dimenticai di dormire, distrussi ogni mia emozione, mi disinteressai completamente alla realtà che mi circondava.
 Ero arrabbiato con la mia personalità gelida e il mio pessimo modo di relazionarmi anche con le persone che mi interessavano e con quelle arpie che non riuscivano a comprendermi, che come tutti prendevano in giro la mia originalità e si beffavano del mio comportamento paziente definito con le loro parole “da fesso”. Diventai un vegetale steso a gambe larghe sul materasso , nutrito ad aria per  tre giorni e due notti finchè Giuly, venuta a sapere del mio confinamento in un buco blu oceano , irruppe nella mia stanza silenziosamente. La ignorai non perché non volessi ma perché avevo abbandonato quel mondo per rifugiarmi nel mio e continuare ad esistere lì. Si piazzò di fronte a me cercando un qualche minimo segno rabbioso o una mia reazione alla sua invasione nel mio sacro tempio a tutti sconosciuto e invalicabile, ignorando i pezzi di vetro a terra ,le punte delle frecce conficcate nel muro e la puzza di emozioni morte in decomposizione.
Alla fine si arrese alla mia apatia da bradipo morto e mi trascinò in bagno per lavarmi e per liberare la mia vescica da tre giorni di astinenza da water. Mi resi conto di dove mi aveva portato solo quando fui di fronte la tazza.
-Piscia.
-Non ne ho bisogno.
-Senti, lo so che sei lì da qualche parte. Ora torna un attimo nel nostro mondo e lavati che puzzi più del vomito di un barbone ubriaco. Piscia!
-Non hai capito: l’ho fatta in una bottiglia sotto il letto. Non ne ho bisogno.
-Bene…vado a …svuotare la bottiglia,questa è la doccia. Doccia ti presento Tom, Tom la doccia.
-Lasciami in pace.
-E dopo ordino anche un po’ di pizza. No, non ti lascio in pace.
E così dicendo iniziò a togliermi la maglietta sporca di sudore e lacrime. Vedendo il mio torace indietreggiò inorridita: i pezzi taglienti  degli oggetti che avevo frantumato che anzitempo si erano posati sullo stesso materasso dove io mi ero steso, mi si erano rivoltati contro e ora avevo minuscoli ma profondi tagli sparsi su tutto il mio corpo malato.
 Prese dall’armadietto del bagno dell’alcool e un pezzo di ovatta. Mi ordinò di spogliarmi e di entrare nella doccia, dopo si sarebbe presa cura della mia stupidità.
Uscì dal bagno, entrai nel box e iniziai a scrostare via il sangue secco dal mio torace e a detergere il resto del corpo. Mi lavai anche i capelli  dopodiché mi sedetti in quel misero spazio ristretto sotto il getto dell’acqua bollente a pensare.
L’acqua su di me ha sempre avuto lo stesso effetto di un tranquillante, potevo rimanere lì a riflettere per ore fino a mutarmi in un pesce rosso e sgusciare via per lo scarico alla ricerca del mio habitat naturale.
Non potevo: c’era una pizza che mi aspettava.
Finita la doccia, uscii avvolto in un alone di vapore e asciugamani. Fuori mi aspettava Giuly con il flacone d’alcool e  le bende. La guardai inorridito spostando gli occhi su tutti e tre.
-Se non ti fai disinfettare puoi dire addio alla pizza.
Sconfitto mi trascinai fino alla mia camera miracolosamente riordinata  e mi sdraiai di nuovo sul mio compagno di sventure appena rifatto a pancia in giù. Stringendo con le mani il bordo del materasso e mordendo il piumino fino ad avere dolore alle meningi, riuscii a sopportare quella dolorosa agonia. Mezzo frastornato, poi mi rigirai per farmi disinfettare anche il petto.
Mia cugina mi si mise cavalcioni. Mi accorsi che la sua mano tremava ogni volta che entrava a contatto con i miei tagli così cercai di sorriderle per incoraggiarla.
Chiuse gli occhi per un attimo cercando di ignorare il sangue e io feci lo stesso pregando che non vomitasse. La mia esperienza con gli effetti dell’emofobia era arrivata a livelli estremi.
-Dai basta. Si vede che ti fa schifo il sangue, faccio io…-. Feci Per alzarmi ma lei mi premette la sua mano sul petto e io caddi di schiena sul materasso.
-Fermo.-
-Hai un’espressione strana, non voglio che mi vomiti in faccia…-
-Stai zitto e fermo. Non voglio sprecare alcool.-
Rimasi fermo.
Sentivo il corpo bruciare, le ferite urlare di dolore. O ero io? La mia pelle, ogni mio nervo, i miei muscoli erano tesi. Ero diventato un elastico rigido.
Chiusi gli occhi.
Nonostante la mia improvvisa sensibilità per tutto ciò che avevo in torno non riuscii a percepire le labbra morbide di mia cugina che cercava uno spiraglio tra le mie, le sue mani, sporche di alcool e sangue secco, tra i miei ricci e il calore del suo corpo sul mio, nudo e infreddolito.
Riaprii gli occhi.
Due sfere ambrate mi fissavano, prendevano il pieno possesso di me ipnotizzato.


Risposi al bacio. 
C’era aria afosa e appiccicaticcia ma io fui letteralmente investito da una corrente refrigerante che mi riscosse i sensi e mi invitò ad agire.
Mi misi seduto, con lei a cavalcioni che pian piano si impossessava del mio corpo, e cercai di muovere le mani. Ero inesperto, impreparato e cercavo di essere più delicato possibile nel toccarla. Avevo paura di rompere l’illusione troppo reale, di far cessare l’oblio in cui ero immerso.
Scordai che fosse mia cugina, i tagli aperti che bruciavano e mia madre in salotto a fare yoga. Dimenticai chi fossi. Non era importante ora. La mia mente cercava solo di entrare ancora più in contatto con quell’essere che cercava il mio corpo, il mio calore.
Mi tuffai dagli scogli e mi lasciai trasportare dalla corrente di alghe. 
  
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