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Autore: northernlight    02/12/2013    1 recensioni
Spin-off che prende vita dal capitolo 29 di Crying Lightning scritta da Lairygirl, consiglio vivamente di leggerla anche se è comprensibile in ogni caso anche così.
"“Ma cosa cazzo stai facendo, Turner?” gli sussurrò Margaret afferrandolo per il bavero della felpa e trascinandolo dentro, nel piccolo ingresso della sua stanza. Spalle al muro, porta chiusa, continuava a ripetergli silenziosamente quella domanda ma senza pronunciare una sola parola, solo guardandolo negli occhi. Occhi vuoti che guardavano fisso le mani di lei aggrappate alla felpa grigia."
Genere: Drammatico, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Alex Turner, Miles Kane, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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You can't forgive
  what you can't forget.


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Il rumore squillante e pungente del cellulare gli si era insinuato tra i pochi neuroni svegli che in quel momento aveva. Affondando la faccia nel cuscino, tastò il comodino in cerca del dispositivo che non voleva proprio saperne di stare zitto.

Dio, poi mi chiedono perché odio la tecnologia’ fu il primo pensiero ad attraversargli la mente quella mattina. Il secondo fu controllare chi fosse e, non avendo dubbi sul mittentevisto l’energico esordio del primo messaggio – ‘Al, stupidissima testa di cazzo…’ – la terza cosa che pensò fu di scagliare quello stupido aggeggio elettronico dall’altro lato della stanza, possibilmente contro un muro. Prima, però, si premurò di controllare l’ora: nove e tredici di mattina. Una mattina piovosa, a giudicare dal rumore che debolmente filtrava attraverso le imposte.
Nove e tredici… e sono in ritardo’ aggiunse. Con un rantolo sommesso, si costrinse a rotolare sulla schiena attorcigliandosi alle lenzuola candide del letto, fissò il soffitto poi si stropicciò lentamente gli occhi nella vana speranza che il mondo attorno a lui smettesse di girare.

Devo aver bevuto un po’ ieri sera’ pensò minimizzando la sua pessima situazione e sapendo che quel po’ non era così poco se era in quelle pietose condizioni. Benedisse mentalmente chi aveva chiuso le tende – perché era sicuro di non essere arrivato da solo in quella stanza, dato che ricordava poco e niente della serata precedente – così ebbe il tempo di realizzare e di mettere a fuoco la situazione senza il pericolo di una qualsiasi fonte di luce a trapanargli la vista. Aveva appurato di essere nella sua camera d’albergo pur non sapendoesattamente come ci fosse arrivato, qualcuno gli aveva messo il pigiama e i vestiti della sera prima giacevano maniacalmente ripiegati e sistemati su una sedia accanto la porta del bagno e sorrise notando le sue scarpe perfettamente allineate sotto la sedia; in quel momento, non ebbe più dubbi nel sapere chi l’aveva riportato lì, oltretutto lo faceva ogni volta che lui esagerava come da tacito accordo deciso anni prima. Poggiò i piedi per terra arricciando le dita al freddo contatto col pavimento e si alzò dal letto e, cercando di non cadere e di mantenere una camminata più o meno dignitosa, si diresse verso il bagno. Aveva bisogno di una doccia.

“Dio, Miles, dovrei assumerti come domestica” pronunciò con voce roca, bassa ma divertita passando accanto la sedia e lanciando uno sguardo ai suoi vestiti ripiegati. Senza curarsi di chiudere la porta, si sfilò quello che aveva addosso e si fiondò sotto il getto d’acqua bollente della doccia. Ne riemerse un quarto d’ora dopo, aspetto e umore erano decisamente migliorati compresa la nausea ormai quasi scomparsa. E allora perché si sentiva malissimo? Sentiva una morsa, una morsa alla bocca dello stomaco e non era né dovuto all’alcool né alla fame. C’era qualcosa che non andava, quella sensazione… quella sensazione come se avesse dimenticato qualcosa, come se avesse perso qualcosa di importante senza accorgersene e ora, in qualche modo, ne sentiva inconsapevolmente la mancanza. Scosse la testa cercando di far pulizia nella sua mente, mischiando quei pensieri alle gocce d’acqua che gli permeavano i capelli. Aveva assolutamente bisogno di un tè caldo per riprendersi definitivamente, un tè bollente, nonostante fosse estate. Davanti lo specchio, frizionò i capelli con un asciugamano togliendo l’acqua in eccesso e ignorando il fatto di doverli asciugare meglio se non voleva prendersi un malanno, nonostante fosse estate.Indossò un jeans, una t-shirt bianca, infilò le scarpe e arraffò una felpa grigia appesa all’attaccapanni dietro la porta d’ingresso giusto per sicurezza visto che sentiva freddo nonostante fosse estate. In quel breve soggiorno estivo, Miles era solito aspettarlo per la colazione – puntuale, alle nove –nella sala pranzo dell’albergo dove lo trovava sempre assorto nella lettura sorseggiando la sua prima dose di fidato earl grey. Erano le nove e quarantasette, quindi era davvero in ritardo e, una volta in corridoio, non aspettò l’ascensore e percorse cautamente per sei piani le scale d’emergenza che l’avrebbero portato nella piccola dependance adibita a sala colazione. Scendendo provò a fare mente locale della serata precedente: ricordava, a sprazzi, il fatto di essere andato in quel posto un po’ controvoglia e che era nervoso e taciturno a causa di qualcosa.

O forse qualcuno’ ricordò a se stesso quando il visto di lei, il viso di Margaret, gli balenò davanti agli occhi. Margaret che beveva, Margaret senza pensieri, Margaret che ballava con Miles. Le mani di Miles sui fianchi di lei, i loro corpi che aderivano perfettamente. E lui, lui seduto a guardarli, impotente, seduto ad ingollare litri e litri di alcool. Ecco perché era nervoso e aveva bevuto, ecco perché adesso doveva tenersi quel dannatissimo mal di testa e quella sensazione di mancanza a cui non sapeva dare un nome. Sempre lei, Margaret. Sulla scia cupa di quei pensieri, mise piede nella dependance e si incupì ancora di più notando che Miles non era lì ad aspettarlo. Che avesse davvero fattoeccessivamente ritardo? No, Miles non sarebbe mai andato via prima senza dire niente, al massimo sarebbe passato dalla sua camera e avrebbe bussato finché non gli avesse aperto la porta cosa che, evidentemente, quella mattina non aveva fatto.

Che strano’ constatò davvero spiazzato. Il suo solito tavolo era vuoto, non c’erano tazze o segni che potessero testimoniare il suo passaggio perciò si recò al bar chiedendo alla ragazza che di solito li serviva se l’avesse visto quella mattina.

“No, il signor Kane non è ancora sceso, s-signor Turner” replicò lei arrossendo violentemente come ogni volta che le rivolgeva la parola, lui arrossì di rimando, ordinò velocemente un tè caldo e andò a sedersi al solito posto di Miles. Mise entrambi i gomiti sul tavolo e poggiò la testa sulle mani, teneva nervosamente il ritmo di una stupida canzone di Rihanna che lo tormentava da giorni grazie alla perenne molestia di Matt, canticchiando – o meglio – inventandone le parole.

Quasi quasi propongo a Miles di impararla e di farla live a sorpresa in una prossima apparizione dei Puppets in pubblico, non potrà tirarsi indietro davanti ad una scommessa… se non lo fa dovrà rasarsi i capelli a zero!’ pensò soddisfatto di se stesso mentre annuiva, in segno di ringraziamento, alla ragazza del bar che gli portava il tè. Una volta finita la sua misera colazione, ma tanto gli bastava per riprendersi, decise che Miles non sarebbe mai arrivato e, per una volta, rimpianse di non aver portato con sé il suo cellulare così avrebbe potuto chiamarlo e chiedergli dove diavolo fosse finito.

Vabbè, poco male, passerò in camera sua tornando su’ decise alzandosi. Passò a salutare la ragazza del bar e si diresse verso l’ascensore; quando le porte si chiusero, quella terribile sensazione alla bocca dello stomaco tornò a farsi sentire più forte di prima. Infilò la felpa e tirò su il cappuccio, improvvisamente sentiva freddo, sfregò le mani tra di loro proprio mentre le porte dell’ascensore si aprivano a pochi metri dalla camera di Miles.

602.
Si diresse verso la 608 ignorando il fatto che sarebbe dovuto passare davanti alla 606, la camera di Margaret.

604.
Margaret.
Non la vedeva dalla sera prima – anzi – nemmeno ricordava di averla vista molto la sera prima. Quella morsa, quella cosa alla bocca dello stomaco.

606.
Un passo oltre, pugni serrati e nascosti nelle tasche della felpa, respiro profondo. Un respiro molto profondo, cercando di regolare il battito cardiaco, di riprendere il controllo di se stesso e di capire perché fosse improvvisamente così agitato; e fu allora che lo sentì, leggero, aleggiare nell’aria davanti l’ingresso di quella stanza. Un vago sentore pungente, di limone…si fermò davanti la 606, immobile, pensando e ripensando.

Ma cos’è, Kane, quando finisci di bere il tè ti strusci il limone sotto le ascelle? Odori sempre di limone”: gli tornò alla mente quella discussione di qualche mese prima nell’appartamento di Miles a Londra, quando lui aveva notato, standogli molto vicino, che in qualsiasi momento i suoi vestiti –Miles stesso – avevano quel sentore agrodolce di limone. Si ricordò di aver pensato che era un odore che gli si addiceva, era come la personalità di Miles, o ti piaceva od eri costretto ad odiarlo. Niente vie di mezzo… e in genere tutti sceglievano la prima opzione.

No, non può essere’, mormorò la sua coscienza pur sapendo già che avrebbe riconosciuto quell’odore anche in una stanza piena di calzini sporchi e puzzolenti. Non sapeva precisamente da quanto tempo stava fissando quel 606 sulla porta, non sapeva precisamente cosa stesse aspettando, sapeva solo che si era appoggiato a quell’odore nell’attesa che i suoi piedi si scollassero da lì e lo portassero nella stanza di Miles. Ma i suoi piedi non si mossero al contrario della sua mano destra, serrata in un pugno talmente stretto da conficcare le unghie nella carne del palmo, che iniziò a bussare ripetutamente contro la porta. Nel rumoroso ed innaturale silenzio che regnava in quel corridoio, non riusciva nemmeno a contare i tocchi che stava dando sul legno, non riusciva a percepire il dolore che stava provando nello sfregare le nocche bianche dalla rabbia contro quella superficie ruvida che colpiva con un’ira calmissima, con la sensazione allo stomaco che ormai stava prendendo vita attorno a sé. Non aveva idea del tempo che aveva trascorso davanti a quella porta, ma dopo un po’ iniziò a sentire dei rumori dall’interno: mormorii indistinti, una porta che si chiude, la serratura che scatta, un uragano bisbigliante che gli si scaglia contro. Appena Margaret aprì la porta, ricevette una zaffata di quell’odore direttamente in faccia, come uno schiaffo con un guanto chiodato. Deglutì tutto, rabbia e insulti compresi.

“Ma cosa cazzo stai facendo, Turner?” gli sussurrò Margaret afferrandolo per il bavero della felpa e trascinandolo dentro, nel piccolo ingresso della sua stanza. Spalle al muro, porta chiusa, continuava a ripetergli silenziosamente quella domanda ma senza pronunciare una sola parola, solo guardandolo negli occhi. Occhi vuoti che guardavano fisso le mani di lei aggrappate alla felpa grigia.

“Smettila di ignorarmi e rispondimi, deficiente!” sussurrò lei strattonandolo ancora una volta “ti pare il modo di piombare nel sonno delle persone?”

Ecco perché l’odore era più forte quando Margaret ha aperto la porta, perché ce l’ha addosso’ constatò freddamente la sua mente. Margaret era mezza nuda, aveva notato lui - stranamente - senza pudore alcuno: le gambe lisce e sinuose come quelle di un felino erano coperte solo fino a metà coscia da una camicia che Alex avrebbe riconosciuto ovunque anche solo per i gemelli ai polsi, recanti le lettere M e K bianco su nero, e per la morbidezza di quel tessuto. Miles aveva quella camicia addosso ieri sera e ora se lo ricordava perché prima di uscire gli aveva consigliato di mettersi altro per evitare di macchiarla irrimediabilmente con qualche cocktail. Margaret seguì lo sguardo atterrito di lui sulle sue braccia, le si mozzò il respiro quando capì e tornò a guardarlo negli occhi; non c’era, la dolcezza che aveva sempre incontrato nel suo sguardo anche quando era arrabbiato non c’era più. Andata chissà dove. Lui le prese gentilmente i polsi e la staccò da sé, non voleva farle male, voleva semplicemente allontanarla, voleva semplicemente fuggire via da quella stanza ma i suoi piedi sembravano essere di cemento.

“Alex…” sussurrò Margaret.

È bellissima’ fu l’unica cosa che lui riuscì a pensare in quel momento. Ed era effettivamente bellissima ai suoi occhi, com’era la prima volta che l’aveva vista ballare e cantare sul suo letto, come la prima volta che l’aveva baciata, come tutte le volte che l’aveva insultato e l’aveva fatto sentire minuscolo davanti ai suoi ragionamenti schiaccianti, come la prima volta che aveva provato non–si–sa–ancora–bene–cosa per lei, come quando era geloso di lei per via della sua mezza storia con Matt. Ma lei non era mai stata sua e trovarsi lì, in quella stanza, avvolto da quell’odore ne era la conferma.

“Alex, ti prego, dì qualcosa” implorò Margaret, ormai ad alta voce, spaesata: per la prima volta non aveva la risposta pronta e questo l’aveva gettata nel panico; lui le teneva ancora i polsi, ferma immobile, non osava muoversi. Lui chiuse gli occhi, respirando profondamente e si portò il polso destrodi Margaret al naso inspirando profondamente quel misto di odori che per lui erano una serie di pugnalate nello stomaco, poi le posò un bacio sul polso –sulle vene del polso – e la lasciò andare. Finalmente la guardò davvero negli occhi, ricambiando il suo sguardo e ci vide dentro tutta la sua testardaggine: era sull’orlo delle lacrime, erano lucidi e arrossati e grandi ma non si lasciava andare, non davanti a lui e non in quello stato, nuda fisicamente e mentalmente.

“Alex, io no–…” iniziò a dire Margaret ma questa volta fu interrotta da qualcuno.

“Margaret, hai visto la mia camicia bian–…” esordì Miles raggiungendo Margaret nel piccolo ingresso della stanza. Si bloccò appena vide Alex, l’asciugamani bianco con il quale stava togliendo via l’acqua dai capelli cadde per la sorpresa di trovarlo lì, strattonato da Margaret e con lo sguardo assente, corrucciato, fisso su di lui; era evidentemente appena uscito dalla doccia, aveva addosso solo gli aderenti pantaloni neri della sera prima, notò Alex squadrandolo dalla testa ai piedi. Nella sua testa c’era solo l’immagine di loro due insieme, di tutti gli indizi che aveva percepito durante tutto il tempo insieme ma che non aveva mai preso in considerazione perché… beh, perché era Miles, il suo migliore amico. Riusciva solo a pensare al fatto che Miles l’avesse toccata, baciata e ora stavano lì, in quella stanza che… che odorava diloro. Alex si guardò intorno in preda alla nausea cercando qualcosa dove riversare il contenuto del suo stomaco vuoto ma, ovunque il suo sguardo si poggiasse, rivedeva sempre loro. Per qualche secondo rimasero tutti e tre lì, sospesi, come se fossero in una dimensione spazio-temporale dove tutto era immobile: nessuno fiatava, ognuno era raccolto nei propri pensieri chi cercando una scusa plausibile e chi cercando di arginare il disastro che stava per scatenarsi.

“Bene, Miles, che piacere vedere anche te qui” disse Alex rompendo il silenzio ma non era la sua voce, non era la voce di Alex che parlava, era una voce sarcastica e quasi cattiva “qual buon vento ti ha portato in questa stanza ieri notte?”

Miles boccheggiò in cerca di una risposta, di una spiegazione da dare ad un qualcosa in cui era capitato tra capo e collo senza nemmeno saperlo, poi guardò Margaret – che nel frattempo si era spostata a distanza di sicurezza da tutti e due – per qualche secondo anche se lei non stava ricambiando il suo sguardo, i suoi occhi fiammeggianti erano puntati su Alex.

“Turner, non mi sembra il caso di prendersela con lui e lo sai meglio di me” annunciò lei “se proprio hai voglia di prendertela con qualcuno che non sia te stesso, hai me, urla contro di me”. Parlava continuando a tormentare i polsini della camicia di Miles e Alex pensò che avrebbe voluto dare fuoco a quella camicia perché era su di leiperché era arrivata dove lui non sarebbe mai arrivatodove lui non era mai arrivato in così tanti anni. Scosse la testa, cercando di pensare al fatto che lui avesse una ragazza e che no, non aveva nessun diritto di arrogare pretese su di lei, di qualsivoglia genere fossero. Miles si schiarì la voce.

“Uno dei due, decidete voi chi, può dirmi cosa sta succedendo?” chiese innocentemente.

“Ma come, Turner, è il tuo migliore amico e non gli hai raccontato niente?” chiese Margaret spavalda ma infondo era davvero stupita del fatto che Alex avesse tenuto tutto per sé visto il rapporto che lo legava a Miles.

“Niente riguardo cosa? C’è qualcosa che avrei dovuto sapere prima di – ehm – questa notte visto che ormai è chiaro pure alla moquette quello che è successo qui?” balbettò arrossendo leggermente, l’ennesima cosa che fu solo Alex a notare.

“Non ho dodici anni, Margaret” dichiarò ponendo esagerata enfasi sul nome di lei, assaporandone ogni lettera e ignorando Miles “non ho bisogno di confidarmi come un adolescente e se proprio devo farlo, posso parlare con Matt visto che lui ti conosce e ti conosce fin troppo bene, aggiungerei”. Miles gemette impercettibilmente, Alex sapeva di aver colpito dove voleva colpire, aveva toccato il nervo caldo della loro amicizia che per Miles – e anche per lui prima di quel momento – era qualcosa di sacro ed imprescindibile. Ma Alex era consapevole che non era colpa di Miles perché lui non sapeva davvero niente di quello che Margaret rappresentava per lui, del demone che Margaret era per l’Alex che Miles conosceva, un demone assai seducente che si era infilato lentamente ed inconsapevolmente nella sua testa e nel suo cuore. Margaret era ovunque. Alex aveva cercato di ignorare questa cosa, più che poteva, ma alla fine la situazione gli era esplosa tra le mani e ora ne stava pagando le conseguenze.

È colpa tua, Alex, è inutile che te la prendi con Miles’ ripeté a se stesso ma non ce la faceva, scontare su Miles gli risultava assurdamente più semplice che ammettere i suoi errori, ammettere di aver temporeggiato troppo, ammettere di essersi lasciato sfuggire Margaret dalle mani come se fosse sabbia tra le dita. Era combattuto, cercava le parole adatte per fare del male a lei ma riusciva solo a ferire l’unica persona che in quel casino si era dolcemente abbandonata alle stesse seduzioni da sirena toccate a se stesso tempo prima. Dentro di sé continuava a dire che doveva lasciare stare Miles, che era meglio se li avesse lasciati da soli a finire la discussione ma si sentiva tradito dal suo migliore amico, abbandonato, si sentiva solo attaccato ai fili che Margaret manovrava abilmente. Lei però si accorse dell’effetto che quelle parole ebbero su Miles, notò un velo di tristezza coprirgli lo sguardo che fino a qualche secondo prima era più o meno tranquillo.

“Bene, Turner, hai finito il tuo spettacolino da Otello incazzato? Te ne vai adesso o devi pugnalarmi per farla finita? Sono affari nostri,dimentica questa storia così potrai perdonare chi ti pare e andare avanti” suggerì lei.

“Sta’ zitta, Margaret” urlò Alex dopo qualche secondo e lei si zittì subito, non per il comando impartitole quanto per il tono di voce usato. Capì che per lui non c’era niente di chiuso, al momento.

“Non posso perdonare, a chiunque sia, qualcosa che non riesco a dimenticare, Margaret” precisò freddo il ragazzo di Sheffield.

“Alex, cosa diavolo ti prende?” sbottò Miles improvvisamente adirato muovendo un passo verso di lui, braccia e mani aperte col palmo verso l’alto quasi in segno di resa “non trattarla così, non è da te!”

“E questo” sbottò Alex indicando Margaret che era scivolata per terra, annichilita dalla voce di Alex, annientata da ciò che stava succedendo sotto i suoi occhi “questo è da te, Miles? Portarti a letto una…”
Alex si fermò di colpo, sgranando gli occhi e ragionando su ciò che stava per dire ma non ebbe tempo di ragionare abbastanza perché la mano destra di Margaret gli si stampò sul viso riportandolo nella stanza.

“Una cosa, Turner?” urlò lei spintonandolo, Alex rimase sorpreso per la reazione, soprattutto perché non l’aveva sentita rialzarsi da terra, ma, ovviamente, non reagì in nessun modo se non prendendosi gli spintoni. Miles, dal canto suo, non sapeva cosa fare.

“Una cosa, Turner?” ripeté Margaret provando a tirargli un altro schiaffo, colpo andato a segno, un altro segno rosso sul viso “finisci la frase, andiamo! Dì la verità, dì quello che pensi davvero invece di vergognarti. Di gentiluomo in questa stanza ce n’è uno solo e di certonon sei tu visto che stavi per darmi della puttana!”

“Io non…” provò a mentire Alex tra una spinta e l’altra, tra un ennesimo schiaffo evitato e l’altro.

“Non mentire” disse una Margaret ormai in lacrime e col respiro corto, i capelli arruffati, la candida camicia ormai stropicciata “n-non farlo, non a me… non a me, Alex. Ammettilo, finisci la frase.”

Alex non ebbe più coraggio di aprire bocca; nella reazione di lei, in quelle lacrime, vide qualcosa che per la prima volta, in quel momento, aveva sfiorato la sua coscienza: stava cercando di difendersi, di dimostrargli che non era quello che lui pensava che fosse, che non aveva agito perché voleva fare del male a lui ma l’aveva fatto per se stessa. Forse aveva giudicato troppo presto tuttavia quella cosa che lo spingeva a reagire così, quella sorta di gelosia… ma, nonostante tutto, non riusciva a capire o forse non voleva capire, voleva solo essere l’ennesima vittima di quella ragazza.

“Non parli, vero?” lo accusò Margaret scagliandosi ancora contro di lui, ormai singhiozzava talmente tanto da non riuscire a respirare. Alex cercava di ripararsi dai colpi, non che fosse difficile vista la corporatura di lei ma aveva quasi paura di farle male, non osava sfiorarla. L’unica persona che poteva e doveva intervenire finalmente si decise a farlo. Miles mollò tutte le seghe mentali che si stava facendo e corseda Margaret afferrandola per la vita e trascinandola via da Alex che finalmente riuscì a prendere una boccata d’aria. Alex alzò lo sguardo sugli altri due presenti nella stanza: Miles teneva Margaret stretta al petto, dove lei gli poggiava le spalle e i capelli le coprivano parte del viso ma poteva vedere benissimo le lacrime solcarle le guance. Il suo migliore amico le sussurrava qualcosa all’orecchio nel tentativo di calmarla, Alex non aveva idea - e nemmeno voleva saperlo - di cosa le stava dicendo; Margaret era letteralmente aggrappata a Miles, le loro mani erano intrecciate, le nocche di lei erano bianche dalla rabbia e per violenza di quel pianto che le stava squarciando il petto mozzandole il respiro. Miles aveva gli occhi chiusi mentre Margaret li teneva fissi su Alex come se da un momento all’altro sperasse di vederlo prendere fuoco in quella stanza. Lui, Alex, distolse lo sguardo da quella scena troppo intima e, per la prima volta si sentiva di troppo in quella stanza, si sentiva di troppo tra loro due.


Devo andarmene’ pensò Alex più che altro per non ammettere che era evidente che tra i due ci fosse qualcosa, un qualcosa che lui non aveva ancora conosciuto soprattutto con Margaret, ma ancora una volta i suoi piedi restavano fermi lì, scivolò a sedere per terra, sulla moquette rossa della stanza. Margaret, nel frattempo si era calmata e, sotto consiglio di Miles era andata a cambiarsi e a darsi una rinfrescata. Miles e Alex rimasero da soli nella stanza, evitando di guardarsi, evitando persino di respirare le stesse porzioni di aria. Miles prese a girare in tondo, nervosamente.

“Perché non mi hai detto niente di… di lei? Di voi?”

“Di noi? Non esiste nessun noi, nessun plurale quando si parla di Margaret. E poi cosa avrei dovuto dirti, Miles? Che mi sta consumando lentamente da anni? Che io sto con Alexa ma nonostante tutto Margaret riesce sempre e comunque a entrare nella mia testa e farmi saltare i nervi?”

“Non ti costringerei mai a parlare di qualcosa di cui non vuoi parlare, Al, lo sai” disse Miles tranquillamente “però avrei almeno voluto che mi dicessi quello che stavi provando, del fastidio che sentivi. Sei un pessimo attore e sai anche questo, ma quando si tratta di fingere per te stesso, lì sei molto bravo perché ti chiudi a riccio e non permetti nemmeno a me di entrare” replicò Miles con una semplicità dolorosa. Alex non rispose, perciò Miles proseguì.

“Lei… lei mi piace davvero, Al, e io credo di piacere a lei” confessò Miles rigirandosi un anello che Alex gli aveva regalato poco tempo prima “non capisco se devo giustificarmi o meno, se chiedere scusa o meno anche se non è quello che sento o, perlomeno, quello che ritengo giusto fare in questa situazione. Sei il mio migliore amico, Al, sei quello che… che manca”. Alex lo guardò intensamente, lo sguardo triste e innocente e sincero di Miles gli faceva più male di qualsiasi altra cosa al mondo, pregò qualsiasi dio gli venisse in mente di non vedere più quegli occhi in quel modo. Ma non riusciva a guardare, ad andare oltre.

“Non me ne frega un cazzo, Miles” ribatté Alex alzandosi da dove era seduto, guardò Margaret tornare nella stanza con gli occhi rossi e gonfi, indossava un prendisole bianco che metteva in risalto la leggera abbronzatura presa quei giorni “non me ne frega un cazzo, di nessuno dei due, chiaro? Non voglio sapere cosa avete fatto, non voglio sapere cosa avete intenzione di fare, non voglio sapere più niente di voi - insieme e singolarmente - per sempre”.

“Q-quindi finisce qui?” chiese Margaret.

“Finisce qui cosa precisamente, Margaret? Il tuo potere su di me? Sì, quello finisce qui” disse avviandosi verso la porta salvo poi voltarsi un’ultima volta “sono stanco, sono stanco di vederti scappare via ogni volta che mi avvicino, sono stanco di rincorrerti… perché io ci ho provato sul serio, Margaret, a contrario tuo. Sei l’essere più egoista che io abbia mai avuto il dispiacere di incontrare, non hai mai e dico maifatto niente per me. Prima Matt e ora… ora questo e non hai mai preso in considerazione i miei sentimenti, hai sempre e comunque tratto le tue conclusioni del cazzo decidendo - solo ed esclusivamente per conto tuo - che non valeva la pena fare un tentativo, anni fa. Ho p-provato, ho provato a dimenticarti ma tu, tu ricompari magicamente ogni dannata volta. Ho provato a cancellarti ma compari in ogni verso che scrivo, compari in ogni nota che provo a tirar fuori da quella chitarra del cazzo, compari negli scarabocchi che faccio quando sono assorto nei miei pensieri perché è quello che sei: un disegno confuso, un monocromatico disegno aggrovigliato e no, non sono io che devo sbrogliarti. E probabilmente non è nemmeno Matt o Miles ma, chissà, magari è quello giusto per farti chiudere le gambe una volta per tutte” concluse tutto d’un fiato. Margaret aveva ripreso dignitosamente e silenziosamente a piangere, spalle dritte e testa alta nonostante le facessedavvero male sentirsi dire quelle cose perché sapeva che la parte riguardante Matt era la verità. Barcollò, avvicinandosi a lui, a piedi nudi quasi in punta di piedi. Miles si mosse automaticamente verso di lei come per sorreggerla ma, uno sguardo di Alex e un cenno della mano sinistra di lei, lo inchiodarono al suo posto.

“Intendevo: finisce qui con lui? Davvero taglieresti via una parte del tuo essere a causa mia, Alex? Vi ho osservati, so cosa siete l’uno per l’altro e, credimi, queste lacrime sono più per Miles che per te. Non se lo merita, non ti ha fatto un cazzo di niente e nonostante tutto è qui a chiederti scusa e per cosa? Perché non sei capace di prenderti ciò che vuoi, Turner? Sta chiedendo scusa per una tua mancanza?”

“Margaret, ti prego…” provò ad intervenire Miles ma era come provare a fermare un fiume in piena che rompeva gli argini e finiva ovunque.

“Sai, Alex” disse lei sempre più vicina “ se non fossi tu penserei che è solo una pura e semplice questione di sesso, loro sì e tu no, loro sono arrivati dove tu non arriverai mai, visto che ti compiace tanto insultarmi così gratuitamente. Ho sbagliato, è vero e questo posso dirlo di Matt ma lui… lui no, Turner, non osare minimamente darmi della troia perché sono andata a letto con una persona che mi piace davvero. Non devo giustificarmi, non devo assolutamente dirti come mi sento quando sono con Miles. Mi piace davvero, in tutto e per tutto e tu… tu queste cose non dovresti nemmeno saperle perché non sono cose tue, non sono cazzi che ti riguardano. Io non sono affar tuo da un bel po’ di tempo a questa parte, io non sono tua, Alex” sussurrò ormai a pochi centimetri dalla sua faccia, riusciva a contare le lacrime appese alle sue lunghissime ciglia scure. Profumava di pioggiasaponepelle e rabbia. Nessuno, né Alex e né Miles, osavano muovere un muscolo di fronte ad una leonessa che difendeva il proprio onore.

“Sai, Margaret… sai che c’è, Margaret? C’è che non me ne frega più un cazzo, né di te e né di lui” disse con un cenno del capo verso Miles “non voglio più vedervi, nessuno dei due. Anzi, buona fortuna per tutto” aggiunse incrociando elegantemente le gambe e accennando ad un piccolo e sarcastico inchino prima di posare la mano sulla maniglia della porta. Miles reagì improvvisamente, non voleva assolutamente che Alex passasse quella porta perché sapeva che sarebbe stata la fine.

“Alexander” lo chiamò Miles poggiandogli una mano sul braccio.

“Non toccarmi” disse Alex in un sussurro, con gli occhi sgranati, nessuna emozione nello sguardo.

“Ti prego” implorò l’amico ancora una volta stringendo delicatamente la presa sul braccio. Alex si voltò con estrema calma, poggiò entrambe le mani sulle spalle di Miles percependo il calore della sua pelle che faceva a pugni con la freddezza della situazione e lo spinse violentemente contro il muro alle sue spalle. Margaret lanciò un urlo e provò a fiondarsi tra i due.

“Non… osare, Margaret” le disse Miles alzando il braccio sinistro, indice sollevato. Margaret scoppiò di nuovo a piangere.

Chissà da quant’è che trattiene quelle lacrime’ pensò Alex poco prima di puntare i suoi occhi negli occhi di Miles che no, non erano spaventati e nemmeno in vena di reagire. No, gli occhi di Miles lo stavano fronteggiando, uomo a uomo. Stavano chiedendo scusa, scusa per un qualcosa che aveva tutto il dovere e il potere di fare senza dover pagare le conseguenze che lui, Alex, gli stava riversando addosso in quel momento senza un motivo ben preciso.

“Al, fammi un favore, rompimi il naso se è quello che vuoi… ma parlami” disse Miles tutto d’un fiato temendo l’arrivo del colpo che avrebbe sopportato dignitosamente se fosse servito a far stare meglio Alex.

“Te lo faccio comunque un favore, ma non sarà quello di rovinarti il viso, Miles. Me ne vado” concluse lui assestandogli un’ultima spinta contro il muro, fece qualche passo indietro con le mani alzate e finalmente uscì da quella stanza proprio mentre Margaret urlava il suo nome. Corse a perdifiato lungo tutto il corridoio fino ad arrivare alla sua stanza, con mani tremanti infilò la tessera per aprire la porta, una volta dentro la chiuse alle sue spalle. Vi si poggiò, chiuse gli occhi e scivolò sul pavimento abbracciandosi le ginocchia: doveva andare via e prima che Miles potesse raggiungerlo. Qualche minuto dopo si alzò, prese la prima borsa vuota e vi infilò il necessario per qualche giorno di viaggio; chiamò un taxi poi mandò un sms a James dicendo che per un problema doveva ripartire subito, chiedendo di impacchettare la roba lasciata in camera e di spedirla a casa di sua madre a Sheffield, dopo di che spense il cellulare e lo gettò nel water.  Mise la borsa in spalla, inforcò gli occhiali da sole, alzò il cappuccio della felpa e si preparò ad uscire dall’uscita d’emergenza quando vide la sua chitarra acustica poggiata al muro. Quella chitarra era la prima chitarra che avesse mai ricevuto, la prima chitarra da dove aveva tirato fuori qualcosa lontanamente paragonabile ad una canzone, era parte di sé. Qualche minuto dopo, Alex correva sotto la pioggia verso il taxi che lo aspettava ormai da qualche minuto.

 
          ***

Miles sapeva che avrebbe dovuto lasciarlo stare per almeno qualche ora, faceva sempre così quando si incazzava anche se… anche se quella volta c’era qualcosa di diverso. Margaret finalmente dormiva, si era calmata e addormentata tra le sue braccia mentre le carezzava i capelli dopo aver chiamato Matt e avergli raccontato tutto.

Hanno uno strano modo di intendersi, quei due’ pensò sbadatamente Miles avviandosi verso la sua stanza appena dietro l’angolo dell’ascensore. Si bloccò di scatto alla vista della sua camera, gli occhi gli si riempirono di lacrime. Corse immediatamente verso la stanza: poggiata allo stipite bianco della porta c’era la chitarra di Alex, la sua acustica, quella che portava sempre dietro e suonava raramente.

È come un promemoria, la porto dietro per ricordarmi chi sono” fu la spiegazione di Alex alla domanda di Miles sul perché la portasse dietro, la prima volta che entrarono in studio. Tra le corde era infilato un bigliettino ripiegato frettolosamente, nella morbida scrittura di Alex c’era scritto:
                                                        

Non cercarmi. Ritornerò, un giorno.’ 


Il mondo di Miles ebbe un sussulto e iniziò a sgretolarsi e con lui si sgretolò la forza che aveva nelle gambe. Si sedette per terra vestito di tutto punto come la sera precedente, la testa tra le mani. Guardò la chitarra, quasi quasi riusciva ancora a sentire Alex che suonava. La prese, saggiò la pesantezza, lisciò le corde, toccò ogni venatura di quel legno ormai consumata. Imbracciandola, come quelle prime volte tanti anni fa seduto sul letto di camera sua, la accordò e le sue dita automaticamente tirarono fuori l’unica melodia che poteva urlare al mondo come si sentiva:
 
                             
    So don’t go away, say what you say, say that you'll stay
    forever and a day in the time of my life ‘cos I need more time
   ​yes I need more time just to make things right.

 
  
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