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Autore: Judee    06/12/2013    2 recensioni
Vedo la curva del suo mento, i denti bianchi perfettamente allineati, le labbra sottili, pura ambrosia, esplosione di dolcezza, zucchero senza colpa, che ammaliano, e quando le guardi riesci solo a pensare a come deve essere baciarle, assaggiarle, sentirle su di te. Vedo la fessura tra di esse, il naso dritto, le guance morbide, le fossette. Due piccole incavature, che circondano il suo sorriso, aggiungendo nettare al miele. Sta sorridendo.
“Annie”
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Genere: Fantasy, Guerra, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Annie Cresta, Finnick Odair, Johanna Mason, Katniss Everdeen, Peeta Mellark
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO PRIMO 
- little miss sunshine e ragazzo occhi cielo - 
 


Seduta in riva al mare, affondo i piedi nella sabbia, lasciando che i granelli mi solletichino i polpacci. Il sole di Agosto, ora fermo a metà del cielo, mi scalda la pelle, facendola quasi
bruciare, mentre socchiudo gli occhi e la salsedine annoda i miei capelli. Strigo le mani tra di loro, per stiracchiarmi: sento i muscoli che si distendono, mentre sulla superficie del mio corpo tante piccole squame si disegnano. Tutto è immobile. Tengo gli occhi ancora chiusi: quando sono sola mi piace ascoltare il silenzio.  Lo sciabordio delle onde, la risacca del mare, il rombo sordo del vento che fa increspare l’acqua e le fronde degli alberi sono quasi lontani, un sottofondo, mentre nella mia testa sento solo il silenzio. Oggi riesco a non pensare a niente. La luce accecante del sole riesce ad oltrepassare la barriera delle mie palpebre socchiuse e confondono le mie pupille così poco dilatate da sembrare quelle di un gatto, mentre nella mia mente esplode il bianco. È così intenso, brillante, che sembra quasi avvolgermi tutte le membra, mentre le labbra seccate dalla salsedine cominciano a muoversi articolando le parole di una canzone, una ninna nanna, vecchia nenia, come quelle che le nonne amano raccontare ai loro nipoti prima di portarli a letto per farli dormire, per far riaccendere la loro energia. La canticchio tutta, ballando solo con la testa, che oscilla a destra e sinistra. La voce è bassa, quasi sorda, e solo i gabbiani fanno da spettatori: è pomeriggio, troppo presto perché i pescatori escano con le loro barche. Quando l’ultima strofa si dissolve nell’aria, dischiudo leggermente le palpebre: la luce mi rende per un momento cieca, e mentre i miei occhi gli si abituano, sento qualcuno che si avvicina. È un passo leggero, quasi di gatto, ma percepisco lo stesso la sabbia che si muove quando solleva i piedi, e le mani che giocherellano tra di loro, stringendo ora il ciondolo che porta sopra al cuore, ora l’anello attorno al dito, in un’ansia sottile ma costante, che non lo abbandona mai. È così da quando è tornato. Si siede accanto a me, e le dita affusolate delle sue mani urtano leggermente la pelle rovente delle mie cosce, in un tocco che sembra quasi il fremito di una farfalla. Stringo di nuovo le palpebre, ma anche così posso vederlo: il ciuffo biondo sempre spettinato, color del miele, gli occhi dolci, spaventosamente profondi, l’azzurro cielo terso delle iridi contro il nero di cenere delle pupille. Vedo la curva del suo mento, i denti bianchi perfettamente allineati, le labbra sottili, pura ambrosia, esplosione di dolcezza, zucchero senza colpa, che ammaliano, e quando le guardi riesci solo a pensare a come deve essere baciarle, assaggiarle, sentirle su di te. Vedo la fessura tra di esse, il naso dritto, le guance morbide, le fossette. Due piccole incavature, che circondano il suo sorriso, aggiungendo nettare al miele. Sta sorridendo.
“Annie”
Apro gli occhi. Ora la testa è rivolta verso di me, le labbra hanno appena articolato il mio nome.
“Finnick”
Anche io lo guardo. Le mani continuano a muoversi nervosamente. Avvolgo le dite sulle sue, fermandolo.
“Come stai?”
“Esattamente come ieri”
Silenzio. Non è venuto qui per cercare parole, ma silenzio. Pace. Quiete. Le sue mani si sottraggono alla mia presa, e ricominciano il loro gioco di ansia.
Osserviamo le onde. S’infrangono sugli scogli, conquistano sprazzi di sabbia e tornano indietro, in una continua danza, antica come il mondo. Di sottecchi, lo osservo: anche lui, come me poco fa, è fermo, isola in mezzo alla tempesta, e aspetta che il sole arroventi la sua pelle, scacciando il freddo che sente dentro. Alcuni ciuffi di capelli  mi solleticano il viso, marrone terra contro bianco latte: la mia pelle è stranamente di Luna, per essere un’abitante del distretto Quattro. Con la mano li ricaccio indietro. Sento Finnick muoversi.
“Cosa farai questa sera?” chiede, socchiudendo le palpebre perché il sole è esattamente alle mie spalle.
“Non lo so. Tu?”
“Non lo so”
Lo osservo. È stanco. Come al solito.
“Perché non andiamo in biblioteca?”
“In biblioteca?”
“Sì. È un bel posto”
“Un bel posto? Pieno di libri?”
“I libri possono essere un grande mistero, una volta che li si apre”
Sorride.
“E queste perle di saggezza da dove escono?”
Sorrido.
“La verità è che sono un’aliena”.

***

Un urlo mi sveglia. È un urlo lungo, violento, profondo, terrificante, terrorizzante. Lo sento penetrarmi la carne, i muscoli, le ossa, entrare nelle mie vene, legarsi al sangue, circolare per tutto il corpo, fino a quando non ne sono interamente fatta prigioniera. Stringo i pugni, li porto sulla testa, mentre brividi gelati che hanno ormai preso il posto delle lacrime iniziano a espandersi per tutto il corpo, al ritmo incessante dei battiti del cuore. Se solo smettesse di battere… ora non sarei qui. Non in una cella buia, fredda… porto le mani sulle orecchie: non voglio sentire, non voglio parlare, voglio morire. Le urla sono sempre più frequenti. Alcune di esse sono anche le mie. Vengono a prendermi, mi trascinano fuori, mi portano in una stanzetta tutta gialla, è un giallo strano, brutto, da vomito, che fa schifo, che fa paura. Poi devo sdraiarmi su un letto di legno, e poi liberano degli insetti terribili, cha pungono, fanno male, e io voglio solo scappare, andare via, ma non posso muovermi, perché il letto ha tanti chiodi, che spingono sulla mia pelle, la bucano, fanno uscire sangue, e fa male… Urlo, urlo, urlo che la gola mi fa male, urlo che le labbra si spaccano per quanto la bocca è aperta, urlo che gli altri devono uscire dalla stanza perché fa troppo male stare lì a sentire…
Poi svengo. Vado via. Scivolo lontana. Il dolore svanisce, non sento più il sangue che scorre sulle tempie, non  sento più i pungiglioni sugli occhi… sono scivolata via.
Credo mi riportino indietro trascinandomi sul pavimento, perché quando mi risveglio la mia stanza è sempre piena di strisciate di sangue. E allora vomito. Vomito tutto il mio odio, la mia rabbia, il mio dolore. Non so più quanti anni ho. Da quanto tempo sono qui. Chi sono. E fa male. Tutti i giorni devo elencare ciò che ricordo del mio passato, perché non voglio dimenticarlo.
Vengo da un posto vicino al mare.
Mi piace il mare.
Ho i capelli marroni.
Mi chiamo Annie.
Annie Cresta.
E sono prigioniera.




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Angolino della vergogna

Visto che ho pubblicato questa cosa in un momento di rapsus freudiano, vi do solo un piccolo avvertimento: nella prima parte chi parla è Annie adolescente, nella seconda Annie prigioniera di Capitol City. Dal momento che è già pazza, ho cercato di usare un linguaggio più concitato, e spero di essere riuscita almeno un po' nell'intento :)
Detto ciò, ringrazio chiunque passerà a dare una sbiarcitina, ed ora... mi eclisso. 

Judee 

  
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