Capitolo Terzo
Alta marea
Canzone ascoltata da Lorenzo: http://www.youtube.com/watch?v=0bpkkTlUMg8
Dopo la cena che neanche
ero riuscito a gustarmi, me ne scappai in spiaggia, addosso ancora i postumi
del drink del pomeriggio e già un alone di fumo che mi avvolgeva come un'aura
mistica. Lorenzo sembrava essere lì già da un pezzo, e se ne stava a gambe
incrociate ad ascoltare la musica in un paio di cuffie più grandi di lui.
Quando si accorse della mia presenza, si avvicinò per farmi sentire la musica
che stava ascoltando.
«Bella. Cos'è?» chiesi
schiacciando la sigaretta nella sabbia.
«Parla di mare e cielo.
Di come ognuno rifletta i colori dell'altro, anche se non possono mai
abbracciarsi. Ma sanno che da qualche parte, forse all'infinito, i loro
orizzonti si toccano e che vivranno per sempre l'uno vicino all'altro.»
«Come siamo romantici,»
sdrammatizzai alzando le sopracciglia.
«Sì, purtroppo sono
romantico!» fece lui piuttosto rammaricato.
«Purtroppo?»
«Sì. Più si è romantici
e sensibili, più sono le possibilità di intristirsi o arrabbiarsi o agitarsi o
deprimersi o cambiare umore da un momento all'altro. La gente ci rimane
malissimo quando mi agito di colpo, nonostante fossi calmo sino a qualche
minuto prima. Un romantico tende ad essere lunatico. E' per questo che penso
che tu non lo sia. Romantico, intendo. Il tuo umore non è mai cambiato da
quando ti ho parlato la prima volta.»
«Ci conosciamo da tre
giorni, eh.»
«Che vuol dire? In tre
giorni una persona ha il tempo di innamorarsi,» mi fece l'occhiolino e pensò a
spegnere il suo lettore mp3. Dopo il romanticismo iniziale, Lorenzo iniziò a
scherzare come mai l'avevo visto fare in presenza dei suoi amici, e più io gli
davo corda, più quello si inventava nuove battute senza senso, col risultato di
sembrare un buffone e basta. Pareva così di buonumore che si bagnava i capelli
e poi veniva a schizzarmi, sicuro che io non mi sarei schiodato dalla mia
posizione. Il culo mi pesava troppo. Quando io fumavo, lui si allontanava e
finiva per fare l'equilibrista per finta sul bagnasciuga, convinto che, in ogni
caso, non avrei smesso di fumare se me l'avesse chiesto lui.
Le sere seguenti furono tutte uguali, eppure erano gli unici momenti della
giornata che riuscivo davvero ad apprezzare. Anche se prima di uscire di casa
mi lasciavo scivolare in gola un paio di pillole, tanto per non rischiare di
cadere in depressione. Quando iniziammo a prendere un po' di confidenza, lui mi
chiese come andasse con la mia presunta fidanzata e io, dopo aver speso qualche
minuto a ricordare chi fosse quella ragazza di cui parlava, gli dissi che era
arrabbiata con me perché non volevo sposarla. Lui fece una risata mal
trattenuta e mi diede una gomitata che però mi arrivò leggera come uno schizzo
d'acqua.
«Come crede che tu possa
dirle di sì con quella faccia da schiaffi che ti ritrovi?»
«Pensi di essere
divertente?» gli chiesi retoricamente, serio come la morte. Ma la mia
espressione seria non fece altro che divertirlo, e mi scoppiò a ridere in
faccia tenendosi la pancia.
«Hai davvero la faccia
da schiaffi,» si asciugò una lacrima. «Non rido così tanto da mesi,» ammise, e
non appena si accorse della mia guardia ormai abbassata, diede un colpetto alla
mia mano e i filtrini che tentavo di sistemare nel pacchetto
si sparsero nella sabbia scura e umida. Detestavo quell'individuo, più di tutti
gli altri. Mi alzai per dargli un pugno, ma quello era già sgusciato via e
pretendeva che lo inseguissi, che gli facessi vedere di cosa ero capace. E di
nuovo, mi sembrava più piccolo dell'età che diceva di avere.
Quando lo acciuffai - e
ammisi che fu piuttosto faticoso, vista la mia mancanza di fiato -, lo
trascinai nel punto in cui aveva fatto cadere i filtrini
e gli ordinai di raccoglierli uno per uno, con l'ausilio della sola luce del
cellulare. Lui obbedì col broncio, e io lo guardavo divertito mentre fumavo
l'ennesima sigaretta e incrociavo le braccia.
Un'altra di quelle sere, lui se ne stava sulla spiaggia sin dal tramonto ad
ascoltare la solita canzone del mare e del cielo, e quando mi sentì accomodarmi
accanto a lui, non fece altro che dire: «Vorrei andare lassù,» guardando il
cielo, quella notte coperto da minacciosi nuvoloni.
«Quando diventerai un
pilota ci vivrai, lassù,» gli dissi io non troppo interessato.
«Non succederà mai,»
fece lui riportando gli occhi sul mare e le gambe al petto.
«Non essere così pessimist-»
«E' impossibile, non
capisci?» mi interruppe spazientito, quasi fosse ben conscio del fatto che non
avrei mai potuto condividere quella sua sofferenza. Non mi azzardai ad
aggiungere altro, a quanto pareva quella sera non era dell'umore adatto. Aveva
ragione quando diceva di essere piuttosto lunatico. Mi venne un'idea, l'unica
che mi potesse venire, quindi mi impegnai a rigirare per bene due spinelli e ne
diedi uno a lui, che sembrò svegliarsi di colpo dal suo torpore.
«No, io non-»
«Vuoi volare sì o no?
Questa è un'ottima alternativa,» gli dissi senza troppo trasporto, dopodiché lo
aiutai ad accendere il bastoncino bianco.
Dopo la sua fumata molto
più che liberatoria, Lorenzo iniziò a parlare a vanvera, la lingua che gli si
scioglieva di minuto in minuto, le palpebre che minacciavano di abbassarsi del
tutto ogni volta che accennava a uno sbadiglio.
«Non ti senti
galleggiare in aria?» gli chiesi, particolarmente divertito.
«Per niente. Quante
balle racconti?» fece quello storpiando le parole, poi sbadigliò ancora un paio
di volte e si abbandonò su di me con tutto il corpo, quasi l'avesse preso in
pieno un colpo di sonno. E in effetti il suo era il respiro di qualcuno che
dormiva di sasso. Lo sollevai con una cura che non pensavo di avere e lasciai
che poggiasse il capo sulle mie gambe incrociate, mentre io rimanevo solo con
il mare, che da quando Lorenzo aveva smesso di parlare sembrava alquanto
silenzioso. A quanto pareva, la presenza di quel tizio non troppo normale
iniziava addirittura a piacermi.
Mi accorgevo di
svegliarmi ogni mattina con la voglia che fosse già sera, per poter passare
quelle tre ore seduto a vaneggiare con Lorenzo. Probabilmente era una delle
poche persone di cui apprezzavo la compagnia e che ancora non ero riuscito a
mandare a quel paese. Arrivai a pensare di non poterlo mai fare, che quel tipo
in realtà mi andava tanto a genio che non riuscivo neanche ad affibbiargli un
qualche difetto. Mi andava bene così com'era, nessun aggettivo negativo gli
lampeggiava sulla fronte, il che fu una piacevole novità per me.
Una di quelle sere, in
cui entrambi eravamo piuttosto alticci, lui portò nei nostri discorsi senza un
senso logico la sua comitiva estiva. Era una delle poche volte che parlava di
qualcosa esterna a noi due, a quel pezzo di spiaggia e al mare. Mi disse che le
due ragazze russe - di cui io m'ero completamente scordato - si erano fissate
con me e volevano il mio numero di telefono. Gli dissi che "Ma neanche per
idea", e tornai a farmi gli affari miei, sperando non insistesse.
«Ti prego, o non mi
lasceranno più in pace!» implorò invece, tradendo le mie speranze. Mi limitai a
negare una seconda volta e buttai il fumo sulla stessa sigaretta, illuminandone
la punta. Lui sospirò e raccolse le gambe al petto, poi tornò a guardarmi e
immaginai si stesse inventando qualcosa per convincermi a sganciargli quel
benedetto numero.
«Facciamo così... Tu lo
dai a me e io non lo do a loro,» disse, credendo davvero di aver avanzato una
proposta sensata.
«Non ha senso quello che
hai appena detto,» borbottai infatti, e quello alzò le spalle e distese le
gambe sulla sabbia.
«Certo che non ce l'ha,
dopo quello che mi hai fatto fumare,» ribatté, e quella frase, invece, un senso
ce l'aveva eccome.
«Quindi io dovrei
credere che, una volta che ti darò il mio numero, non lo spaccerai in giro?»
«Esatto.»
La sua convinzione mi
fece sorridere.
«Chi mi garantisce che
non lo farai?» gli domandai col sopracciglio alzato, e quello alzò di nuovo le
spalle, gesto che, avevo notato, faceva quando non si sentiva troppo a suo agio
o era un po' nervoso.
«Devi solo fidarti di
me.»
Lo guardai di sottecchi,
poi scossi la testa e mi leccai le labbra fingendo di pensarci. Dopodiché gli
dettai il numero velocemente, e quello fece le acrobazie per tirare fuori il
cellulare dai pantaloni e segnare in fretta il tutto. Mi ringraziò mentre
salvava e, tenendo sempre gli occhi sullo schermo luminoso, mi comunicò che il
numero lo voleva per lui, e io gli dissi che l'avevo capito e che avrebbe
potuto chiedermelo senza troppi giri di parole. Gliel'avrei dato senza pensarci
due volte. Si grattò la guancia imbarazzato dalla situazione, si alzò piuttosto
in fretta e barcollò leggermente, poi si piegò per prendere le ciabatte.
«Facciamo che torno a
casa, sono già le due,» disse senza neanche guardare l'orologio, quasi
riuscisse a dedurre l'orario dalla posizione della luna nel cielo.
«Vuoi che ti
accompagni?»
«Cos-, perché?»
«Fatichi a reggerti in
piedi.»
«Non è che tu mi saresti
d'aiuto.» rise scuotendo la testa. Si diede due schiaffetti sulle guance come
per darsi un contegno. «Ce la faccio. Ci vediamo domani?»
---
Ma la sera dopo non ci
incontrammo. La mia cannetta pomeridiana quella volta non mi fu troppo d'aiuto,
benché meno le due pasticche che avevo mandato giù dopo pranzo scambiandole per
digestivi. In spiaggia il mio gruppo e quello dei gemelli avevano organizzato
un torneo di beach volley, a cui io non avevo ovviamente partecipato a causa
della vista offuscata e del caldo che mi urlava di buttarmi a mare. Ma prima
che potessi farlo, mi adocchiò Roberta, la sorella di Lorenzo, che pure non
aveva troppa voglia di giocare. Mi chiese se avessi voglia, invece, di andare
con lei alla Luna blu, ché alcuni dei suoi la aspettavano lì. Il mare
sinceramente mi attraeva di più, ma non ero troppo sicuro di stare così bene da
avventurarmi tra le onde che trascinavano dentro. Quindi accettai, salii sullo
scooter con lei e ci fermammo davanti all'insegna evanescente anche di giorno.
O magari ero io a rendere evanescente tutto ciò su cui posavo gli occhi. Fuori
i tavoli erano vuoti, se non per un paio di vecchietti che fumavano sigari e
giocavano a briscola, mentre dentro l'unico tavolo abbastanza grande era
occupato da un gruppetto di ragazzi che non avevo mai visto - o che,
probabilmente, non ricordavo di aver visto. Lei li salutò allegramente, io a
malapena feci un cenno, e quelli mi rivolsero un sorriso, tutti a parte un tipo
barbuto e con un piercing ad anello al naso che spostò lo sguardo da me a
Roberta con fare non molto amichevole e un ragazzo che se ne stava con la
faccia appoggiata alle mani e i gomiti sul tavolo a fissare il suo cappuccino.
E quelli non era nient'altri che Lorenzo, ovviamente. Se c'era qualcuno di
vagamente depresso o asociale in una stanza, doveva essere lui per forza. Mi
sedetti accanto a lui, visto che non mi pareva di conoscere nessuno, e quando
quello si accorse della mia presenza mi salutò con poca convinzione, poi prese
a girare e rigirare il suo cappuccino ormai diventato simile a una brodaglia.
Roberta prese posto accanto al ragazzo barbuto, ma fece la sostenuta quando
quello tentò di abbracciarla e baciarla sulle guance. Mi lanciava certe
occhiatacce, quel tizio, manco gli avessi ammazzato il gatto. Alzai le spalle
perplesso e tentai di fare conversazione col tipo alla mia sinistra, visto che
Lorenzo sembrava volermi ignorare, ma quello mi guardò strano quasi fossi sporco
di dentifricio o avessi la forfora nei capelli. Allora lasciai perdere, e stavo
meditando di andare in spiaggia, piuttosto che starmene lì a perdere tempo,
quando Lorenzo mi avvicinò il cappuccino e mi chiese se lo volessi, ché a lui
non andava. Mi chiesi cosa avesse questa volta, se davvero era tanto lunatico
come sembrava, ma non rifiutai la sua offerta e mi portai la tazza ormai fredda
alla bocca. Lorenzo seguì tutti i miei movimenti con lo sguardo e, trovato il
momento adatto per agire, diede un colpo alla tazza rovesciandomi il cappuccino
addosso. Mi alzai d'istinto scrollandomi di dosso il liquido scivolato sulle
braccia, mentre quello se la rideva alla grande, quasi non avesse assistito a
nulla di più divertente prima. Prima che potessi bestemmiare in turco e
insultargli la famiglia, lo vidi fuggire via dal bar ridendo, forse
aspettandosi che lo rincorressi per sculacciarlo.
«Ma guarda che casino!»
esclamò Roberta raggiungendomi e puntandomi la canottiera bianca ora marchiata
da una macchia marroncina non indifferente. Ma, con
sua grande sorpresa, io presi a ridere. Senza controllo. Come poche volte avevo
fatto.
«Tuo fratello è un
personaggio,» dissi tra le lacrime, mangiandomi le parole, e lei mi guardò
perplessa.
«Come?» chiese, mentre
gli altri ridevano sotto i baffi, probabilmente a causa dell'ilarità che
provocava la mia sanità mentale ormai andata a farsi fottere. «Vieni, ti aiuto
a pulirti.»
«Non ce n'è bisogno,» le
dissi mentre tentavo di fermare la mia risata anormale.
«Se aspettiamo ancora un
po' non verrà più via. Fidati, vieni con me,» mi rassicurò prendendomi dal
polso e trascinandomi fuori, mentre il tizio barbuto ci seguiva con uno sguardo
che metteva i brividi. Quando arrivammo all'incrocio con la sua via sospirò e
mi chiese scusa per avermi costretto a seguirla, ma non aveva più voglia di
starsene con quello lì, il ragazzo barbuto. Ma disse che comunque, già che
eravamo vicini a casa sua, mi avrebbe davvero aiutato a far venir via la
macchia dalla canottiera. Sorpassammo il cancello che alla luce del giorno
sembrava più verde che blu e mi fece strada in casa sua dopo essere passati
dalla veranda spaziosa e dal pavimento decorato da pietre dal verde al nero,
dal bianco al grigio al rosa pallido, posizionate in modo da formare una sorta
di mosaico disordinato. Non mi sembrava di aver notato un pavimento del genere
quando ero andato con Lorenzo a prendere il suo scooter la seconda sera, ma
c'era anche da dire che era piuttosto buio e io ero piuttosto fumato. Barcollai
fino in cucina facendo poco caso a quello che mi circondava, ma per educazione
– quella sconosciuta - feci comunque i complimenti per la casa.
«Era dei miei nonni, poi
l'hanno lasciata a mia madre. Quest'anno però sono venuta prima al mare perché
loro hanno le ferie solo da metà agosto.» mi spiegò, credendo che potesse
importarmene qualcosa, e intanto cercava qualcosa sotto il lavandino con cui
smacchiarmi la canottiera.
«Avete fatto bene,» mi
limitai a dire, probabilmente troppo piano perché potesse sentirmi. Mi
appoggiai con la schiena al tavolo, ché non riuscivo a stare dritto in piedi, e
quando lei si voltò con una spugna e uno spruzzo simile a quello utilizzato da
mia madre per pulire il bagno, mi disse: «Ecco, stai lì.» Si accovacciò e iniziò
a spruzzare e strofinare, e io ancora dovevo capire per quale assurdo motivo
stesse facendo la buona samaritana. Il motivo mi venne lampante quando quella
si incantò un attimo sulla mia canottiera adesso bagnata che aderiva a una
porzione di pelle sottostante. Certo, come avevo fatto a non pensarci? Macchia
di cappuccino, urgenza di lavarla via, casa vicina e vuota, soprattutto,
sguardo cattivo del ragazzo barbuto. La cosa buffa è che non ero io a tampinare
le ragazze; loro tampinavano me. Come se il mondo si fosse capovolto e
dovessero essere le donne a fare il primo passo con gli uomini, e non il
contrario. Finì di strofinare e si alzò lentamente, tenendo il viso sempre
molto vicino al mio corpo, e io guardai di lato, più scocciato che imbarazzato
dai suoi movimenti quasi volesse ballare il tuca tuca. Stavo già pensando a come svignarmela, ma quando il
suo sguardo incrociò il mio ne rimasi un attimo abbagliato. Era così vicina che
potevo dire di riuscire a contare le lentiggini che aveva sparse sul naso. E
non le avevo mai neanche notate, quelle lentiggini. C'era qualcosa in quella
faccia che mi metteva a mio agio, mi lasciava un senso di serenità inquietante.
E avevo davvero intenzione di pensare a cos'è che mi attraesse così tanto di
quella ragazza, ma ormai eravamo già lì a mangiarci la faccia sul tavolo della
cucina. Era anche vero che, per quanto le mie intenzioni fossero buone, non
riuscivo mai a tirarmi indietro. Forse la droga ti toglie anche quell'accenno
di buona volontà che hai la decenza di conservare. Fatto sta che dopo neanche
dieci minuti finimmo per chiuderci in camera sua, tutta rosa e bianca, che
quasi mi dava il voltastomaco.
Quando mi resi conto di quello che avevo fatto, non ebbi la reazione che si
addice ad ogni diciannovenne con gli ormoni in subbuglio: non pensai alla mia
nuova conquista, non aggiunsi una tacca mentale alle persone con cui avevo
fatto sesso, non mi guardai compiaciuto allo specchio facendomi i complimenti
da solo e magari mandando un bacio alla mia immagine riflessa. Pensai soltanto
che qualcosa fosse fuori posto. C'era un dettaglio che mi sfuggiva, ma non
avevo troppa voglia di pensarci. Avevo ancora il fumo in circolo, e mi chiesi
come potesse essere possibile. Mi lavai la faccia in bagno e uscii senza
asciugarmela. Roberta era rimasta a sonnecchiare sul letto con le lenzuola a
pois, e io avevo intenzione di andarmene senza fare troppo rumore: magari si
sarebbe svegliata e avrebbe pensato che fosse stato tutto un sogno. In cuor mio
lo speravo, lo speravo davvero, ma quando andai in cucina per riprendermi la
canottiera che avevo lanciato da qualche parte, la speranza di non avere
testimoni del misfatto sfumò. Lì in piedi sulla porta se ne stava Lorenzo, e mi
fece prendere un colpo, visto che neanche l'avevo sentito entrare. Era scuro in
volto, faceva quasi paura, e il suo sguardo inquisitorio non era da meno. Mi
percorse da capo a piedi, e i suoi occhi sembravano mettermi a nudo. Mi sentivo
un verme, e non sapevo darmene un motivo plausibile.
«Che ci fai qui?» mi
chiese a denti stretti, anche se probabilmente sapeva già la risposta. Ero più
nudo che vestito, e per terra giacevano anche i pantaloncini della sorella.
«Me ne stavo andando,»
ammisi cercando di riprendermi e darmi una mossa. Raccolsi la canottiera e me
la infilai con i suoi occhi ancora addosso. «Ciao,» salutai poi sbrigativo, e
me ne andai di corsa, quasi fossi un criminale che fuggiva dal luogo del
delitto.
***
Spero di
avervi intrattenuto adeguatamente fino a questo punto, e di poter fare altrettanto
con i pochi capitoli rimasti. Alla prossima!
Mirokia