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Autore: Codivilla    14/12/2013    4 recensioni
Si dice che non sempre nella vita sia tutto rose e fiori.
Per Mya Mercer, giovane e unica figlia di Anthony Mercer, pare proprio che invece sia così. Bella, intelligente e ricca grazie alla società di proprietà della sua famiglia, la Mercer Pharma Inc., vive nel lusso dorato della New York benestante. Talentuosa musicista e cantante, allieva modello alla Juilliard School, la sua unica preoccupazione è l'esibirsi sempre al meglio alle serate di gala organizzate da suo padre. Legato sentimentalmente a lei, c'è William Spencer, facoltoso imprenditore londinese e maggior finanziatore della società stessa. Integerrimo e compìto come solo un Inglese sa essere, dotato di un innato charme e savoir fare, è d'altro canto ambizioso per natura e stacanovista sul lavoro, tanto da trascurare spesso tutto il resto, Mya compresa.
Tutto nelle loro vite sembra cambiare, in un battito di ciglia, quando una improvvisa tragedia farà da entr'acte ad una serie di inaspettate scoperte.
«Mya aveva tutto quello che una donna potesse desiderare: bellezza, talento, e l'amore incondizionato di un uomo che la chiamava 'Mimì' con la raffinatezza degna di un principe delle fiabe».
Genere: Drammatico, Romantico, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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VII - Requiem

Si intende per Requiem una Messa in musica
cantata e suonata in onore di un defunto.

 

 
Una volta ti ho chiesto perché Dio permettesse che succedessero tante cose tristi nel mondo.
 Ero solo un bambina. Mi guardasti e mi rispondesti che non era colpa sua, ma di quell’altro,
che voleva governare il mondo con la distruzione e la disperazione.
Tu non ti disperavi mai, papà. Ti rimboccavi le maniche ed andavi avanti, sempre.
Mi hai insegnato che nessun dolore sarà mai così forte da impedirmi di vivere la mia vita.
Eppure, adesso, l’intero mio mondo si è dissolto
come un castello di carte esposto ad una folata di vento.
Tu non che non amavi sprecare parole, ne avevi sempre una buona per tutti.
Le sto cercando, quelle adatte per dirti quanto mi mancherai, ma nessuna riesce ad esprimere
 quello che ho dentro oggi. Per cui, papà, lascio che siano altre parole a parlare per me.
L’avresti apprezzato, e ad esse affido tutto l’amore che mi ha legata a te fin dalla mia nascita.
 
«Ho tante cose che ti voglio dire, 
o una sola, ma grande come il mare, 
come il mare profonda ed infinita... 
Sei il mio amore e tutta la mia vita!» [1]
 
Ti voglio bene.
 
Mya rilesse più e più volte quelle righe, messe nero su bianco sul foglio che aveva davanti agli occhi. La grafia spigolosa e poco curata, con mille cancellature rabbiose – tanto che in alcuni punti la penna era arrivata a bucare il foglio stesso – la diceva lunga sulla confusione e l’angoscia che permeavano la sua anima quando le aveva buttate giù, nel silenzio dello studio oramai vuoto di suo padre. Avrebbe voluto leggerle ad alta voce, al funerale, quando le avevano chiesto di salire sul pulpito per pronunciare qualche parola. Ci aveva provato. Ma nell’attimo esatto in cui aveva schiuso le labbra per cominciare a leggere, aveva sentito il cuore contrarsi dolorosamente nel petto come se qualcuno glielo stesse stringendo in una morsa d’acciaio. Il respiro le era venuto meno e gli occhi le si erano riempiti di lacrime. Qualcuna era caduta sul foglio e aveva sciolto l’inchiostro, lasciandosi dietro un alone scuro come scuri e cupi erano i pensieri che le si erano affollati nella mente.
Chi era, quella folla di sconosciuti che la osservava, attendendo che parlasse? Quanti di loro conoscevano davvero suo padre, a quanti importava davvero che non ci fosse più? L’intera situazione incarnava perfettamente la fiera della decadenza e della ipocrita vanità. Era stata costretta a mettersi addosso uno dei suoi abiti più eleganti, quando avrebbe preferito non guardarsi neanche allo specchio. Il proprio volto pallido e sofferente per il poco sonno le sembrava una sconfitta nei riguardi di quello che suo padre le aveva sempre insegnato. Lui non si sarebbe permesso una tale trascuratezza. Avrebbe incanalato la sua sofferenza nelle sue passioni, come faceva da sempre, come aveva fatto anche nel momento del dolore più estremo.
Era nel ricordo di quelle raccomandazioni a non lasciarsi mai sfuggire di mano la propria vita che aveva corretto le occhiaie col trucco, legato i capelli nell’acconciatura più modesta e sobria possibile e aveva indossato i gioielli di sua madre. Se fosse dipeso unicamente da lei, avrebbe volentieri deciso per il chiudersi nella propria stanza, rifiutandosi di vedere tutti coloro che erano accorsi a porre le proprie, sentite condoglianze.
Quando però si era ritrovata davanti, dall’alto del pulpito, tutta quella oscena ostentazione di eleganza, lusso e indifferenza, l’intero suo corpo si era ribellato al rendere pubblici quei pensieri d’amore scritti su carta. Non c’era bisogno che quelle iene li conoscessero. Sarebbe stato solo un ulteriore spunto per ricamare sciatte e false parole di conforto, quando il loro unico interesse era sapere come sarebbero cambiate le carte in tavola per la Mercer Pharma, dopo la dipartita del suo presidente. Aveva ripreso fiato e ricacciato indietro le lacrime, negando alle vecchie comari imbellettate la soddisfazione di vederla, anche solo di striscio, lacerata da quel dolore che le spezzava la spina dorsale, tanto da chiedersi come riuscisse a restare in piedi. Un sommesso, ma chiaro “Scusatemi”, ed era scesa da quel pulpito che la faceva sentire esposta, osservata, come un animale allo zoo, pronta ad essere ferocemente azzannata alla carotide e giudicata criticamente per ogni singolo suo gesto, perfino per un suo respiro troppo rumoroso. Suo padre conosceva i suoi sentimenti e tanto le bastava per essere in pace con sé stessa, senza ricorrere a quella ostentata messinscena. Era tornata al suo posto, nella prima fila delle sedie approntate per il funerale nel giardino di casa Mercer, accanto a William. Si era aggrappata al suo braccio e lui l’aveva stretta a sé, mentre la funzione continuava il suo corso nel pomeriggio tiepido. Il pastore decantò in mille parole, nel suo lungo discorso, le virtù del defunto, ma lei non ne aveva ascoltata una. Aveva rifiutato di indossare gli occhiali neri per coprire il proprio volto: i suoi occhi erano quanto di più prezioso suo padre le avesse lasciato, e quei turchesi fissarono per tutto il tempo la bara sospesa sopra la buca scavata appositamente, rifiutandosi di concentrarsi su altro che non fosse il ricordo di suo padre.
Tutto quel che stava accadendo sembrava un vivido incubo da cui sapeva non si sarebbe risvegliata mai. Era fin troppo piantata coi piedi a terra per permettersi il lusso di lasciarsi andare, anche per un solo attimo, all’illusione che la morte di suo padre non fosse qualcosa di estremamente reale. Le pareva di sentire ancora la sensazione della terra secca e friabile nel palmo della mano. Aveva gettato il primo pugno della sepoltura, e mentre i giardinieri continuavano nell’opera, si era lasciata sfuggire un’unica, singola lacrima alla vista della lapide di suo padre così vicina a quella di sua madre. Anthony non aveva mai lasciato direttive in merito al luogo della sua sepoltura, ma Mya sapeva che avrebbe voluto riposare per sempre accanto all’unica donna della sua vita.
Strinse rabbiosamente il foglio accartocciandolo e scaraventandolo nel cestino sotto la scrivania. Gli incisivi affondarono nella carne morbida del labbro inferiore, e contro la muraglia parata dai suoi denti soffocò gutturalmente un grido di dolore. Chinò il capo in avanti, nascondendo il viso fra le mani e sfregandosi gli occhi gonfi e rossi dal pianto solitario che si era concessa una volta che era riuscita a scappare nella propria camera da letto.
«Non piangere, bambina mia. Lascia che il sole tramonti sul dolore e sulla rabbia, sei giovane, devi vivere la tua vita. Lui avrebbe voluto così».
Le vecchie mani rugose di Tata Betty fecero scorrere amorevolmente, per l’ennesima volta, la spazzola fra i lunghi capelli della ragazza. Mya sospirò singhiozzando sommessamente.
«Non ci riesco ora, Tata. Ho finto, davanti a tutti, perché nessuno deve captare la minima debolezza da parte mia, non con il cognome che porto. Ma adesso vorrei solo gridare fino a restare senza voce!»
L’anziana donna le carezzò pian piano la testa, mentre un nuovo accesso di pianto scuoteva le spalle di Mya. Non disse una parola di più, limitandosi a quel gesto affettuoso che la ragazza immaginava da sempre come quanto di più vicino ci fosse alle carezze di una madre.
D’un tratto, qualcuno bussò discretamente alla porta della stanza.
«Mimì, sono io».
Mya rialzò il capo, asciugandosi in fretta e furia le lacrime col dorso della mano.
«Entra pure, Will», disse, cercando di controllare la voce incrinata dal pianto.
Il viso di William fece capolino dall’uscio. Tata Betty si voltò a guardarlo e chinò leggermente il capo, uscendo silenziosamente dalla stanza. L’uomo si chiuse la porta dietro le spalle, avvicinandosi poi alla scrivania, mentre Mya si alzava lentamente voltandosi verso di lui.
«Sono andati tutti via, Will?»
L’Inglese annuì restando in silenzio. Le sopracciglia folte erano lievemente aggrottate sugli occhi castani, assorti in quella loro solita piega severa. Vi fu un lungo attimo di silenzio, durante il quale lui non smise neanche per un secondo di fissarla.
«Lo so che sei arrabbiato con me», mormorò la ragazza, facendosi più vicina a lui.
«Non sono arrabbiato, Mimì, solo che…», l’uomo scosse la testa, azzerando le distanze e accarezzando delicatamente la fronte della ragazza. «È stato scortese da parte tua sparire, dopo la funzione. Non è educato. Erano tutti qui per te».
«Erano qui perché dovevano. E quando si tratta di dovere, non c’è nessuno come te. Sono certa che hai fatto una figura molto migliore di quella che avrei fatto io».
«Ma io non sono Mya Mercer», tagliò corto lui, con un sospiro. «Avresti potuto farti vedere almeno per un attimo, al rinfresco».
Mya scosse il capo, sorridendo ironicamente a quelle parole.
«Possiamo non litigare, almeno oggi, Will? Non ce la faccio. Non ce la faccio proprio».
Posò la testa sul suo petto. Lui la strinse a sé tacendo. La cullò dolcemente cercando di acquietare gli spasmi di pianto che la facevano tremare. Guardò dritto davanti a sé, oltre la finestra sopra la scrivania, che lasciava intravedere un poco del sole che tramontava dolcemente su quella tragica giornata. In quella direzione, erano le tombe dei coniugi Mercer. Ora che anche Anthony non c’era più, Mya non aveva altri al mondo che lui. Chiuse gli occhi lasciandosi andare a quell’abbraccio.
«Ti prego, perdonami. Non è stato facile, neanche per me. Non immagini neanche quanto», sussurrò dolcemente chinando il capo verso l’orecchio della ragazza.
La sentì annuire contro il proprio petto. Quando, poi, lei rialzò il viso, si perse a guardare in quegli occhi azzurri, che trovava belli come non mai nonostante il rossore e il pianto. Cercò con dolcezza le sue labbra, sfiorandole in un bacio appena accennato.
Lei lo abbraccio più strettamente, accarezzandogli la schiena coperta dalla giacca nera.
«Lo so, Will. Adesso toccherà a te prendere ufficialmente le redini di tutto», mormorò, accoccolandosi nuovamente sul suo petto.
«Ci penseremo domani, amore mio. Ora voglio soltanto che tu stia tranquilla e che ti riposi».
«Resta con me, stanotte».
«Non vado da nessuna parte. Sono qui».
Uno spiraglio di sole, attraverso il vetro della finestra, illuminò quell’abbraccio riempiendo la stanza di un ultimo bagliore rosso fuoco, prima di lasciare il passo alla notte che avanzava. L’oscurità che scendeva pian piano avrebbe presto avuto fine con l’arrivo del nuovo mattino, e questo Mya lo sapeva bene. Quel che non sapeva era quanto ci sarebbe voluto perché sfumasse via, lentamente, l’oscurità dolorosa che le opprimeva il cuore, in quella prima notte priva dell’abbraccio solito di suo padre.
 
*** 
 
La lama di un tagliacarte d’argento tagliò di netto una busta sigillata, stretta nelle mani del notaio Franklin. Mya sospirò stringendo forte la mano di William, seduto accanto a lei nell’austero studio tappezzato di scaffalature in mogano, talmente ripiene di libri da sembrare che potessero esplodere da un momento all’altro. Deglutì cercando di sciogliere il nodo che aveva alla gola. Suo padre era stato seppellito appena poche ore prima, e il suo ricordo gioviale ed allegro strideva pesantemente con l’aria severa e abbottonata che regnava in quella stanza.
Il notaio dispiegò il testamento di Anthony Mercer, scorrendone le righe con attenzione, per poi osservare ad uno ad uno i presenti nella stanza. Oltre a Mya e William, c’era l’avvocato Traven, convocato ufficialmente alla lettura del testamento in veste di legale della Mercer Pharma. Si schiarì leggermente la voce.
«Il signor Mercer è stato molto chiaro, riguardo le sue ultime volontà e i suoi lasciti. Vado dunque a leggere le sue testuali parole».
Seguì un attimo di silenzio, durante il quale nessuno osò rifiatare. Il notaio, un uomo sulla mezza età dall’aria cortese e corti capelli bigi e ben tenuti, si carezzò leggermente il pizzetto riprendendo a parlare.
«Alla mia unica figlia Mya lascio in eredità il mio intero patrimonio, tutti i miei averi e possedimenti, perché ne disponga come meglio crede e come ritiene più opportuno. So per certo che ne farà il miglior uso possibile e manterrà le tradizioni portate avanti dal sottoscritto negli anni».
Mya annuì sospirando. Sapeva bene che suo padre si riferiva al mantenere le cospicue donazioni annuali in favore dei ragazzi dell’orfanotrofio sulla sessantanovesima [2]. Guardò William, che accennò a un lieve sorriso in risposta al suo sguardo mesto e ancora segnato dal lutto.
Michael si stava contorcendo sulla sedia, non trovando pace, come se fosse seduto sui carboni ardenti. Osservò il notaio socchiudendo le palpebre sugli occhi vispi e attenti, attendendo il verdetto che gli stava maggiormente a cuore e che, lo sapeva per certo, anche William stava attendendo con impazienza.
Il notaio lesse silenziosamente fra sé e sé alcune righe .
«Andiamo dunque alla questione più delicata. Devo dire che il signor Mercer ha sempre tenuto separate le sue volontà circa quel che riguardasse la Mercer Pharma da tutto il resto. Proprio ultimamente mi aveva chiesto di rifinire il testamento in merito», disse, rigirandosi le carte fra le mani e lasciando cadere il silenzio per un lungo attimo.
Michael inarcò un sopracciglio, cercando lo sguardo di William, che dal canto suo sembrava assorto nell’ascoltare il discorso del funzionario. Mya guardava distrattamente fuori dalla finestra, al cielo terso che contrastava decisamente con la tristezza del suo animo. Sospirò quieta. Una cosa era certa: nessuno al mondo sarebbe stato in gamba quanto suo padre negli affari. Neanche William, nonostante tutte le sue qualifiche e le innate capacità. Ma sarebbe stato un buon sostituto, ce l’avrebbe messa tutta per riuscire sempre al meglio.
«Molto è stato il tempo che nella mia vita ho dedicato alla mia società. Forse anche troppo, per dirla tutta. È con la speranza che egli non perda mai di vista le vere priorità che nomino il mio futuro genero, William Spencer, vice-presidente della Mercer Pharma, con tutti gli onori e gli oneri che tale titolo comporta».
La voce di Michael irruppe bruscamente e prepotentemente nel discorso.
«Vice-presidente? Che significa?!», sbottò, alzandosi in piedi.
William tacque imperterrito. Nulla nel suo aspetto sembrava tradire la minima emozione, se non quel rapido stringersi dei palmi ai braccioli della poltroncina, come se vi si afferrasse per restare più saldo. Mya ruotò lentamente la testa in direzione di Michael, stupita da quel comportamento. Aggrottò le sopracciglia, alternando lo sguardo sui tre.
Il notaio sospirò, invitando Michael a sedersi.
«Significa che c’è ancora dell’altro che devo esporvi, signori. Il signor Mercer è stato ben chiaro, avvocato Traven, non resta che attendere qualche momento, sempre se non le è di troppo disturbo».
Michael si sedette nuovamente, come un cane bastonato, limitandosi ad un cenno della mano a voler confermare all'uomo che poteva continuare.
«So che era ben altro quello che ti aspettavi, William. Ma perdonerai la malinconica sentimentalità di un povero vecchio. Non sono pronto all’idea che il nome dei Mercer venga sostituito a capo della società, probabilmente non lo sarei mai stato. È per questo che delego la carica di presidente a Mya. Lei sarà la firmataria unica e unica responsabile. Confido che l’appoggerai e la guiderai nel suo operato, e che le starai vicino come hai sempre fatto».
Mya schiuse le labbra come per dire qualcosa che morì sul nascere. Volse gli occhi azzurri sul viso teso di William, che dal canto suo continuava a guardare il notaio come se neanche si stesse rendendo conto davvero di quello che stava accadendo.
«È assurdo», articolò l’Inglese, scuotendo il capo. «Mya non ha la minima idea di come gestire un simile colosso».
«Il signor Mercer lo sapeva bene, signor Spencer. È proprio per questo che lascia ancora qualche parola, rivolta ad entrambi».
Michael sbottò in una sorta di risata isterica, scuotendo il capo. Continuava a ripetere qualcosa a mezza bocca - È inaudito. Inconcepibile! - tormentandosi le dita affusolate delle mani. Il notaio lo fulminò con un’occhiata, prima di continuare a parlare.
«Mya, durante questi anni ti ho sempre tenuta fuori dagli affari della società. Non volevo buttarti in quella mischia frenetica di squali assetati di soldi, così gentile e buona come sei. Sei in tutto e per tutto la fotocopia di tua madre, lo vedo ogni giorno, l’ho percepito guardandoti crescere. Ed è per questo che so che troverai il modo di far funzionare la cosa. Sono certo che William saprà starti vicina. Ogni mattone della società, figlia mia, io l’ho guadagnato col mio sudore e la mia fatica. Tocca a te, adesso, tenere alto il nome dei Mercer, come ho fatto io per tutti questi anni. Ad entrambi auguro tutta la felicità di questo mondo: sappiate tenervi ben strette le cose importanti della vita».
Le ultime parole del notaio rimbombarono nella testa di Mya. Fissò lungamente William. Si ritrovò a stringergli convulsamente la stoffa della giacca, sopra l’avambraccio, fra le dita serrate e tese.
«Mimì, calmati. Va tutto bene. Per favore», mormorò, aggrottando le sopracciglia alla vista del viso improvvisamente ancora più pallido della ragazza e dei suoi occhi fissi sul foglio del testamento ancora fra le mani del notaio.
Lei annuì debolmente, riprendendo finalmente fiato dopo un’apnea che le era sembrata eterna. Andava tutto bene, certo. Suo padre aveva scelto solo il modo più imprevedibile per farsi ricordare, ovvio. William avrebbe saputo come gestire tutto. Non doveva preoccuparsi.
E allora perché aveva l’impressione che il mondo le fosse appena crollato addosso?


[1] Da “Sono andati? Fingevo di dormire”, assolo di Mimì, Atto Quarto de La Bohème di Puccini.
[2] Ho fatto ricerche in merito ad eventuali orfanotrofi presenti a NY, e l'unico che ho trovato è uno che era situato proprio sulla sessantanovesima. Se così non fosse più, perdonatemi l'errore.

 
 

 
ANGOLO AUTRICE:

  
 

Ho lasciato passare parecchio tempo dall'ultimo aggiornamento
ma non perché non avessi idea di come continuare la storia, affatto;
sono i dannati ultimi esami che continuano a starmi alle calcagna!
Ma alla fine sono riuscita a scriverlo, questo capitolo,
ed è stato un parto, a dirvela tutta.
Non sono neanche pienamente soddisfatta di quel che è venuto fuori
ma pazienza, ho preferito superare il blocco e andare avanti! u.u

Vi lascio recapiti vari per contatti/insulti/complimenti (?)/rotture di scatole:
Pagina Facebook: Codivilla Vicariosessantanove Efp
Gruppo Facebook: La Canonica del Vicario
Ask: Chiedi e (forse) ti sarà detto

Alla prossima e grazie a chiunque passi di qui.

       


 
   
 
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