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Autore: brokethefixed    18/12/2013    2 recensioni
Per me, lui, era quello che le colonne, sono per un tempio.
I muri, per la casa.
Ed era anche il pezzo che serviva per completare il puzzle, l’unico che può completarlo.
Era l’anima.
Senza la quale, il corpo è solo materia.
Era il sole.
Che solo vedendolo, rallegra le giornate.
E senza sole, vengono considerate ‘brutte giornate’.
Era l’ossigeno.
Del quale non si può fare a meno.
Era la gioia, ed anche la tristezza, era la notte, ed era il giorno, era l’estate ed era l’inverno.
Era tutto, ed anche di più.
Ma soprattutto era il mio migliore amico.
Quella persona che conoscevo da esattamente 15 anni.
Da quando ci eravamo conosciuti per la prima volta all’asilo.
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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{A tutte le persone che dovrebbero essere insieme,
eppure sono separate dalla distanza.}
 
CHER’S POV
La mia mente stava passando lentamente per tutte le sue vie e i suoi angoli, anche quelli più in profondità. Ricordi, idee, emozioni, timori... tutto mi passava davanti agli occhi, come se stessi vedendo un film—di quelli visti e rivisti un infinità di volte. Di quelli in cui le scene si conoscono quasi a memoria.
Ero seduta, immobile, le spalle a contatto con la testiera fredda del letto.
Con lo sguardo vuoto, fissavo un punto indistinto della mia camera, sulle pareti rosa antico. Non sapevo su cosa i miei occhi si fossero posati, ma non mi importava. Era uno dei tanti momenti in cui mi chiudevo in me stessa, lasciavo prevalere le azioni della mente e ignoravo tutto il resto.
Ad un tratto, mi parve di vedere con la coda dell’occhio destro una luce che si accese, e mi girai di scatto in quella direzione.
Scorsi una luce bianca provenire da sotto il pigiama a righe blu e bianche, lasciato con trascuratezza sul comodino.
Tesi la mano lentamente verso di esso, spostando il pigiama.
Realizzai che quella luce non era altro che il display del mio iPhone che si era illuminato.
Anche cose così stupide erano finite per spaventarmi e farmi stare in ansia.
Sporsi il torace in avanti per vedere meglio il cellulare. Mi balzò agli occhi l’orario, scritto a caratteri grandi e bianchi sullo sfondo nero: ‘ 10:49’.
Ero sveglia dalle 9:00, anche se non avevo dormito un granché. Era parecchio che non dormivo, ma a quello  avevo fatto l’abitudine.
Non credevo fossero passate quasi due ore.
Di solito, le ore passano velocemente quando si sta bene, e, invece, quando si sta male, ogni secondo sembra eterno. Ma quel giorno, alla vigilia dell’inizio dell’università, ero talmente in uno stato di trance che non mi accorgevo nemmeno dello scorrere del tempo.
La classica finestra nera, che appare sugli iPhone appena si riceve un messaggio, era comparsa sullo schermo del mio cellulare. Il messaggio era di Joshua, mio fratello.
Non volevo leggerlo, non mi andava proprio.
Volevo restare da sola, qua nella mia stanza. Quelle pareti sembravano proteggermi, quella porta chiusa mi rassicurava. Era una stanza piccola, al secondo piano della casa modesta in cui vivevamo.
E poi mio fratello, non mi cercava mai per una motivazione seria. Ed ero sicura che anche quella volta fosse così.
 
Rassicurata, ritornai alla mia posizione precedente, ed adagiai la testa sulla testiera.
Il messaggio aveva interrotto quel flusso confuso di pensieri che pareva durare fino all’infinito.
Meglio così.
Le guance erano rigate dalle lacrime, le quali, ora, sostavano a pochi centimetri dall’occhio, e poi scendevano lentamente, impiegando vari secondi per percorrere il tratto dall’occhio alla fine della guancia.
Decisi di calmarmi, definitivamente.
 
Inspirai ed espirai lentamente, alzando e abbassando il diaframma.
Lo feci per alcune volte, quelle necessarie.
Era una tecnica di yoga, l’avevo vista in tv, anche se non ricordo di preciso su che canale. All’inizio l’avevo considerata superflua, poi col tempo si era rivelata utile.
Ultimamente lo facevo spesso, nei momenti che erano più facili da gestire, bastava farlo per cinque volte, in quelli peggiori, come questo, venti.
Mentre facevo i respiri, dovevo cercare di liberare la mente da qualsiasi cosa. Dovevo concentrarmi sull’aria, che entrava dentro ed usciva.  Dovevo tenere i muscoli rilassati.
 
Ero riuscita ancora una volta a controllarmi. Nell’ultimo periodo ce la facevo sempre, o quasi.
Ricordo come, nei primi periodi, fossi intrattabile. Attimi di depressione assoluta si alternavano ad alcuni in cui sfogavo su mio fratello, su mia sorella Rosie e sui miei genitori tutta la rabbia che avevo dentro. Per fortuna, in quel periodo, non ero circondata da altre persone, altrimenti me la sarei presa ingiustamente anche con esse. Oltre ad essere ingiusto, era privo di senso.
Perché credere che il problema siano gli altri, quando invece il vero e unico problema è solo me stessa?
Io non facevo altro che scaraventare dolore e sofferenze addosso agli altri. E gli altri subivano.
E me ne ero accorta dopo delle settimane, forse un mese. E così, con le energie rimaste, mi ero creata una maschera, che avrei portato per sempre, persino con i miei familiari. Mi ero rassegnata da tempo alle dure conclusioni.
Non volevo più far star male nessuno, quindi dovevo fingere di star bene, fingere che fosse tutto apposto.
E, così, sorridere era una delle tante sfide che dovevo affrontare, e riuscivo a farcela. Anche se erano solo falsi sorrisi, mi sentivo vincitrice. Avevo iniziato ad apprezzare tutte queste piccole vittorie—perché avrei potuto raggiungere quell’obiettivo che da quel 20 giugno 2013 mi ero preposta.
Avevo  provato ad autocontrollarmi. Era stato più difficile che domare un leone che si rifiuta di essere usato per il circo; il leone almeno ha qualcuno che lo doma, io avevo solo me stessa.
E io non mi servivo a niente.
Non servivo a niente e basta.
 
Ma dovevo continuare ad affidarmi a me stessa, non volevo coinvolgere nessuno.
 
 
Quel pianto disperato si era arrestato.
Avevo già sofferto abbastanza. Adesso dovevo solo stare tranquilla.
 
Non riuscivo a capire tutte quelle persone che consideravano inutile piangere, per me era tutto il contrario. Piangere era uno dei moltissimi modi di farsi male, per me, ma era soprattutto uno sfogo. Soffrendo in quel modo riuscivo a tirar fuori una piccola parte del dolore che si trovava dentro di me. Quella parte era la quantità necessaria che serviva a non renderlo insopportabile.
Quel dolore che non riuscirà mai a uscire definitivamente, in quanto era come un virus che ogni giorno si espande sempre di più.
Mi sentii sollevata ed un poco, anche se pochissimo, rasserenata.
Vidi nuovamente lo schermo del mio cellulare illuminarsi, questa volta lo afferrai con la mano destra, e tenendolo anche con la sinistra, me lo posi davanti agli occhi.
Era nuovamente Joshua.
Sbuffai.  
Non mi lasciava pace.
Spensi il cellulare, sapevo benissimo che  mi avrebbe tempestato di altri messaggi fino a che non gli avrei risposto.
E poi sarebbe passato alle chiamate. Avevo dimenticato quanto fosse insistente.
Spensi velocemente il cellulare, e lo rimisi sul comodino.
Allungai la mano verso il pavimento e raccolsi il diario.
Lo aprii nuovamente, sfogliando l’infinità di pagine scritte. In questi tre mesi, avevo iniziato a scrivervi. In esso immaginavo una persona, una che mi comprendeva e che si dedicava ad ascoltarmi, una come quella persona che non era qua, con me, da tre mesi ad oggi.
Ma immaginare qualcuno come lui era impossibile, nessuno era come lui. Immaginavo qualcuno che non esisteva.
Trovata la pagina lasciata a metà, continuai a scrivere. Scrivevo tutto, non avevo nulla da nascondergli.
 
Rieccomi. Scusami dell’assenza. Ho appena finito di piangere, mi sono ripresa. Adesso sto meglio. Ho appena spento il cellulare, non voglio parlare con mio fratello.
Ieri sera non ho dormito molto, spero sia per domani, per l’ansia, e non per il solito motivo.
 
E ci ero ritornata sopra.
Non riuscivo a capire quale ideologia portasse la mia mente a tornare a scavare su quella ferita, causandomi sempre più male, impedendo ad essa di formare una crosta.
Ma stavo mentendo a me stessa.
 
-Per favore, promettimi che non starai male per me, tu non dipendi da me. Se pensi che in quel modo mi dimenticherai, stai sbagliando. Ti chiedo solo di camminare a testa alta, sorridere e vivere la tua vita.-
- Te lo prometto. Lo farò per te.-
 
Ma io dipendevo da lui.
E non avevo mantenuto quello che gli avevo promesso, quello che mi aveva chiesto con occhi supplicanti, quelle che erano state le sue ultime parole prima che partisse e se ne stesse perennemente a un‘ora d’aereo da me.
Che poi era stato l’obiettivo che mi ero posta e che, convinta di farcela, avrei raggiunto.
E l’avrei fatto per lui. Per il quale, avrei fatto di tutto.
Ma non credevo affatto che senza di lui potessi condurre una vita felice.
Il fatto di aver deluso anche lui, mi fece sentire ancora più colpevole.  Colpevole di continuare a fare del male agli altri, mentre lo meritavo io. Colpevole di aver fatto affezionare delle persone meravigliose a me, mentre non meritavo affetto da nessuno. E colpevole di un’altra infinità di motivi che mi facevano capire di essere sbagliata, un errore.
Non avevo ereditato tutto questo da nessuno della famiglia, non ero come loro, persone ottimiste, allegre, forti, e che accettano tutto, anche le cose peggiori. Io ero tutto il contrario. Ero l’anello debole della catena.
Cercai di liberarmi anche da questi pensieri, i quali avrei dovuto raccogliere, e di ricompormi da sola. A volte non si ha altra scelta che salvarsi da soli.
 
La stanza che prima mi aveva infuso sicurezza, adesso mi parve un nemico. In essa avevo gettato il dolore che mi ero strappata da dentro, in essa racchiudevo le mie debolezze e i miei sentimenti.
Tutti i demoni parevano uscire dal proprio rifugio e avvicinarsi sempre più a me, tentando di aggredirmi. Questo me l’ero causato io, nemmeno la mia stanza sopportava più tutto il mio dolore.
Nessuno mi sopportava più.
Rigettai il diario a terra.
Dal cassetto del comodino estrassi un fazzoletto e me lo passai sotto gli occhi e sulle guance.
Aprii l’armadio e presi le prime cose che trovai, una camicia a quadri rossa, e dei pantaloni della tuta grigi.
E in piedi, un paio di nike bianche.
Lanciai uno sguardo, alla scrivania e a quel foglio, sopra, con quelle righe verticali.
Ogni sera tracciavo, con il pennarello nero indelebile, una di quelle righe. Ad ognuna corrispondeva un giorno. Un giorno senza te. Le righe oggi erano ottanta. Ottanta giorni di una vita senza te. Sempre se questa possa essere chiamata vita, pensai.
Ogni sera, portavo a termine una prova.
Ogni sera terminavo un altro giorno inutile, vuoto, che, nonostante ciò, avrei continuato a sprecare in quel modo.
Quel foglio non lo appendevo al muro perché non volevo vederlo sempre. Ma avevo bisogno di tracciare le righe come chi vince una gara e ha bisogno di tenere il proprio premio.
 
Aprii la porta della camera, che lasciai richiudere pesantemente dietro alle mie spalle.
Entrai in bagno.
Impiegai circa una mezz’ora per ricostruire la maschera.
Mi truccai, usando fondotinta e correttori vari per coprire al meglio tutto quello che si era manifestato e non doveva più manifestarsi. Tracciai una riga di eyeliner sulle palpebre. Dentro l’occhio, matita nera, ripassata un paio di volte. Sulle ciglia, un filo di mascara. Tinsi le labbra con un rossetto rosso, acceso. Il mio preferito.
Mi legai in una coda alta i capelli, usando un elastico che mi ero dimenticata di avere al polso.
Mi guardai allo specchio, sforzandomi in un sorriso, e notando se esso dall’esterno poteva apparire abbastanza convincente. Lo riprovai varie volte.
Soddisfatta, uscii dal bagno, lasciando la porta aperta.
Scesi le tre rampe di scale e uscii di casa. Avevo bisogno di uscire.
 
L’aria fredda mi entrò dentro e mi invase i polmoni. La stessa aria che mi carezzava il viso, e mi scompigliava le piccole ciocche di capelli rimaste fuori dalla coda.
 
Percorsi il sentiero di mattoni grigi di forme irregolari e uscii dal cancello in ferro, che, cigolando, si richiuse.
Il cielo era stranamente limpido, ed al posto delle solite nuvole grigie, c’erano poche nuvole bianche.
Sapevo con esattezza dove andare; nonostante fossero passati ottanta  giorni dall’ultima volta che c’ero stata.
 A dritto, a sinistra, a destra, la seconda sulla destra.
Non pensavo di essere così lucida da ricordarmene.
 
Ed eccolo là.
Agli occhi di chiunque sarebbe apparso come uno spazio vuoto, con solo una panchina di legno logorata dal tempo e un albero, spoglio accanto, segno dell’autunno, arrivato in anticipo quell’anno.
 Guardando meglio l’albero, notai che solo una foglia era rimasta su uno dei rami, era piccola, ingiallita, e alcune chiazze color rame si notavano sul lobo inferiore.
La leggera brezza la faceva oscillare a destra e a sinistra.
Pareva quasi tremare. Anche lei sarebbe caduta, anche lei, come tutte le altre foglie.
Anche io mi sentivo così. Non sapevo quanto ancora avrei resistito. Io, a differenza della foglia, ogni volta che cadevo mi rialzavo, anche se con difficoltà. Andando avanti la difficoltà aumentava.
Ma ci sarebbe stato un momento in cui sarei rimasta a terra, un momento in cui i pezzi sarebbero stati così tanti da non poter essere raccolti. E sarei rimasta a terra, per sempre.
 
Quello era il nostro posto. Mio e di Harry.
Era un posto come tanti, e sicuramente nessuno lo avrebbe notato.
Nessuno si dirigeva da quelle parti, non c’era nessun luogo di attrattiva, negozi, bar, ristoranti…Non c’era niente.
Un posto insignificante, non conforme agli interessi di questa società.
E forse nessuno ne sapeva l’esistenza.
 
Per me era come se ci fosse un’atmosfera magica. Qua erano intrappolati la maggior parte dei nostri ricordi.
Mi sedetti sulla panchina. Mi sedetti a destra. Solito posto.
 Le sbarre di legno, non erano ricoperte dalle solite scritte sull’amore, ‘io+te 4ever’ , ‘ti amo’, o quelle volgari a cui preferisco non pensare.
No, la nostra panchina non era rovinata in quel modo. Malgrado fosse poco stabile e fragile, a me non sembrava sciupata. Non è il passare del tempo che rovina.
In lontananza, si scorgeva l’entrata di un bosco, a meno di un chilometro da qua.
E cantai.
Cantare mi aveva sempre affascinato, amavo l’armonia che si creava tra voce e parole, tra musica e ritmo.
Cantai una canzone, di quelle che girano spesso sulle radio.
Di quelle lente e tristi.
Di quelle dove nel video c’è una ragazza che piange e sta male.
Di quelle che parlano di qualcuno che adesso non è qui con te.
Di quelle in cui ti perdi e allo stesso tempo ti ritrovi, ti ritrovi nelle parole che sembrano le tue, che parlano al posto tuo.
 
 
 
And I remember all those crazy things you said
You left the running through my head
You’re always there, you’re everywhere
But right now I wish you were here.
All those crazy things we did
Didn’t think about it just went with it
You’re always there, you’re everywhere
But right now I wish you were here.
 
 
(E mi ricordo tutte quelle cose pazze che hai detto
Le hai lasciate correre nella mia testa
Tu sei sempre lì, sei ovunque
Ma ora vorrei tu fossi qui
Tutte quelle cose folli che abbiamo fatto
Non ci ho mai pensato, le ho fatte e basta
Tu sei sempre lì, sei ovunque
Ma ora vorrei tu fossi qui )*
 
 
 
 
 
HARRY’S POV
 
‘Gli occhiali da sole li ho presi,’
‘Il caricabatteria l’ho preso.’
‘Gli auricolari li ho presi.’
La mia voce rimbombava nella casa vuota. Con la biro, tracciai una riga sugli ultimi nomi della mia lista.
Avevo preso tutto il necessario, e forse anche di più. Meglio troppo che poco.
Strappai il foglio dal block notes e, dopo averlo piegato in due, lo riposi nella tasca dei pantaloni.
Su un altro foglio -che non staccai- scrissi due frasi, semplici, chiare.
 
Mamma, papà, Gemma, sono uscito di casa verso le 9:30. Adesso vado all’aeroporto. Starò la’ solo un giorno, non preoccupatevi.
- Harry  x
 
Avevo optato per lo stampatello, l’unico modo per rendere più leggibile la mia calligrafia. La stessa da quando avevo sei anni ad oggi. Orrenda e illeggibile.
Percorsi velocemente tutta la casa, controllando di aver spento tutte le luci e di non aver lasciato nulla attaccato alla corrente.
Il rumore dei miei passi rapidi era l’unica cosa a rompere quel silenzio pesante.
Amavo il silenzio, mi rendeva sereno. Mi rilassava. Mi faceva riflettere e ragionare.
Lasciai il blocco sul tavolo della cucina.
 
Avevo aspettato tanto quel momento.
Quello era stato l’unico anno in cui non vedevo l’ora che l’estate finisse.
Adesso era finita. Finalmente.
Non mi spaventava affatto che domani sarebbe iniziata l’università. Non ci pensavo e non mi interessava.
L’unico pensiero che mi passava per la mente era la giornata di oggi; che tutto andasse come pianificato. Ci pensavo da quando ero venuto qua, ad oggi.
Non mi interessava di nient’altro, né di nessun altro. Quando avevo un piano o un obiettivo, diventavo quasi egoista, solo per paura che qualcosa andasse storto.
Io ero ottimista, credevo nel bicchiere mezzo pieno. Avevo paura del finire negativo delle cose, solo nel caso esse fossero davvero importanti. Ed oggi lo erano.
Scacciai dalla mia testa ogni pensiero, non dovevo pensare, altrimenti avrei fatto tardi.
Mi accorsi che stavo dimenticando la cosa più importante, e, se la avessi dimenticata,  le mie paure si sarebbero realizzate.
Entrai velocemente nella biblioteca. Era una stanza abbastanza grande, diversa delle classiche biblioteche in stile antico.
Stile moderno e con colori caldi e sgargianti, le sedie in plastica, il tavolo geometrico.
Era l’unica stanza che, dopo aver affittato quel monolocale, era rimasta vuota. Speravo di poterla usare interamente come una stanza mia, dove stare nei momenti in cui cercavo la solitudine e il silenzio, dove potevo tenere le mie cose. O forse dove avrei passato la maggior parte del mio tempo.
Invece quella stanza era stata usata per costudire una centinaia di volumi che i miei genitori si erano portati da Londra fin quaggiù, a Parigi, e ai quali se ne sarebbero aggiunti il doppio, o forse il triplo e perché no il quadruplo, in lingua francese. Erano dei patiti della lettura.
E così fui costretto a stare in una stanza già piccola di suo, e che dovetti condividere con mia sorella, Gemma.  Non mi dava fastidio lei, ma detestavo il fatto di avere qualcuno d’intorno nei momenti in cui non richiedevo la compagnia di nessuno.
Io e mia sorella  eravamo diversi dai soliti fratello e sorella, da quelli che litigano dal giorno alla notte, quelli che si picchiano da quando erano piccoli, quelli che non si parlano quasi mai, che non si dicono mai nulla, che si nascondono le cose; e che le uniche volte che si cercano sono solo i momenti di bisogno.
 
Era stato proprio quello a spingermi a voler lasciar perdere i litigi e i dispetti inevitabili durante l’infanzia mia e di mia sorella. A capire che lei era un dono, non una scocciatura come poteva sembrare.
E eravamo  diventati molto uniti. Ci dicevamo tutto, tutti i segreti, io a lei dicevo tutto quello che mi passava per la testa, e forse anche troppo. Lei lo faceva con me. E, ne ero certo, la conoscevo troppo bene.
Era la sorella maggiore, quella che aveva esperienza, quella che dava consigli.
Quella che mi aiutava con le ragazze, e che io aiutavo con i ragazzi.
 
Quella che era l’unica che poteva aiutarmi a chiarire quella “cosa” che non mi era ancora chiara, che si ripercuoteva nella vita quotidiana e nei sogni. Quella che non sapevo identificare, di cui non sapevo usare un termine per descriverla, quella che stava in bilico tra due parole—e non riuscivo a capire quali dei due usare. O forse avevo solo paura di utilizzarne una. Mi spaventava, era qualcosa di troppo grande, troppo immenso, che poteva cadermi addosso di colpo e ci stendermi a terra.
Ero sicuro che un giorno avrei capito cosa fosse quella cosa. Per ora non mi restava che sperare fosse la prima.
Altrimenti tutto si sarebbe complicato.
 
Presi una sedia di plastica rossa e ci montai sopra. Nemmeno la mia altezza bastava per arrivare al quinto scaffale della biblioteca. Mi domandai cosa fosse saltato in mente ai miei genitori quando avevano collocato quel mobile così in alto.
Cercai con gli occhi ‘Il Paradiso’ della Divina Commedia di Dante Alighieri.
Lo estrassi dallo scaffale, facendo attenzione a non far cadere nessun altro libro, in quanto gli spazi tra questo e gli altri erano limitati.
Sfogliai le pagine, facendo sollevare nell’aria un po’ di polvere.
‘pagina 0809’
La data di oggi. Sorrisi al pensiero di aver fatto bene i calcoli, malgrado si trattasse di tre mesi fa.
Presi la busta, tastandola con le mani per accertarmi del contenuto.
La misi dentro lo zaino rosso della Eastpack, nonché quello che avevo usato per il liceo.
Dopo aver riposto il libro, mi misi lo zaino in spalla e uscii di casa.
Non faceva freddo. Mancò poco che finissi con gli stivaletti in una pozzanghera, emisi un sospiro di sollievo per essermene accorto in tempo.  Erano nuovi, li avevo portati solo due volte.
Aveva piovuto. E non era stato molto tempo fa, visto che stavano cadendo ancora - anche se poche - goccioline, che si posavano sull’acqua delle pozzanghere disegnando dei cerchi concentrici, che si dissolvevano nel nulla in pochi secondi.
Il cielo era grigio, non c’era uno spazio che non fosse coperto da nuvole. Guardandolo, incontrai con lo sguardo la torre Eiffel. Non c’era un angolo di Parigi in cui non si vedesse quella struttura metallica. In tutto quel tempo, non ero mai andato a vederla.
 
In meno di cinque minuti fui alla fermata del bus. La panchina era piena, così rimasi in piedi, appoggiato al muro.
Mi infilai una mano in tasca, estraendo  il cellulare. Mi soffermai a guardare l’immagine di sblocco, e tra me e me dissi: presto sarò da te.
Il bus, era arrivato. Mi sedetti in fondo, al primo piano, per evitare di avere qualcuno accanto.
L’aeroporto era a circa quindici minuti.
 
Arrivato, entrai dentro. Guardai sui fogli le informazioni riguardo all’imbarco.
Per tutto il quarto d’ora di tragitto fino a lì, avevo pensato che effetto avrebbe fatto ritornare laggiù, nello stesso aeroporto in cui tre mesi prima ero atterrato, arrivando lì, a Parigi, annullando tutti i progetti della mia estate.
Non c’era nessuno in coda per il check in.  
Una ragazza giovane, massimo sulla trentina d’anni, mi dette il buongiorno in francese.
Lo odiavo. Credevo che non mi potesse esser fatto dispetto peggiore di portarmi qua.
Era quella materia che, durante le lezioni, mi causava un sonno tremendo, e dovevo sforzarmi a non cedere. Ricordo che non erano state poche le volte in cui mi ero addormentato, ma per mia grande fortuna, nessuno l’aveva mai comunicato ai miei, che anzi ricevevano apprezzamenti su di me da parte della professoressa di francese. Cosa che si era rivelata ora una sfortuna. Io non volevo avere nessun futuro in Francia.
Le chiesi se poteva parlare inglese, non perché non sapessi parlare il francese – avevo raggiunto il DALF C2 **- ma sempre a causa del solito motivo.
Ma non era solo la lingua che non andava, c’era dell’altro.
La prima, la distanza. I Inghilterra avevo lasciato tutto. Il resto era tutto collegato a quello.
- Hai qualche valigia? -  Mi chiese con un inglese impeccabile, ma con l’accento della sua lingua madre che era incancellabile.
-  No, ho solo questo zaino. - Me lo tolsi dalle spalle e lo detti alla ragazza, la quale lo passò nell’apparecchio di sicurezza.
- Perfetto, adesso ho bisogno dei tuoi documenti. -
Li sfilai dalla tasca del giubbotto e glieli passai. Aspettando che finissero tutti quei controlli, mi guardai intorno.
Gente che partiva, per chissà dove, e gente che tornava.
Gli aeroporti mi erano sempre piaciuti, erano un mezzo per combattere la distanza.
- Fatto. - la voce della ragazza, mi fece voltare verso di lei.  – Il tuo cancello d’imbarco è il numero 22, è al secondo piano. –
- Grazie mille. Arrivederci.-
Ricambiò il saluto.
Entrai nell’ascensore. Arrivato al secondo piano non trovai difficoltà a trovare il mio punto d’imbarco, era davanti ai miei occhi. Mi sedetti su una delle panchine vicine. Su una stavano due persone, a cui non badai minimamente, avevo scelto la panchina più lontana da loro.
Il mio volo era alle 10. Non mancava moltissimo.
 

Era estate, erano passati gli esami.
Finalmente avrei avuto un po’ di tempo da passare con lei. Erano alcuni mesi che non ci vedevamo più come prima, lo studio occupava la maggior parte delle nostre giornate. Avevamo studiato poco tutto l’anno entrambi, ogni giorno facevamo proprio il minimo indispensabile per finire presto e vederci. Dedicavamo solo al massimo un’ ora e mezzo ai compiti.
In quei mesi la situazione era cambiata, le ore di studio si erano triplicate, e quando finivamo eravamo talmente stanchi che non ce la facevamo nemmeno a uscire.
La maggior parte delle volte ci sentivamo per messaggio, sulle varie App per inviare messaggi gratuiti online e messaggi audio, o facevamo videochiamate con Facetime o Skype.
Ci vedevamo solo nelle ore scolastiche, che era poco, pochissimo.
Ma da quel giorno sarebbe cambiato. Ci saremmo visti tutti i giorni, dalla mattina fino alla sera, e forse saremmo restati spesso insieme anche la notte, a casa dell’uno o dell’altro.
Il mare, la città, le conversazioni nel nostro posto, le giornate a casa mia o a casa sua... tutto quello e altro era nei progetti delle mie vacanze. Le avrei passate per la maggior parte con lei.
Rebecca, la mia ex, mi aveva lasciato poche settimane prima, e dalle relazioni amorose mi volevo prendere una tregua.
Adesso  mi interessava solo l’amicizia, quella tra me e Cher.
Ci eravamo dati appuntamento al solito posto, ero sicura che lei sarebbe arrivata prima di me. Avrei ritardato come al solito, lei ormai non ci faceva più caso.
Solo il pensiero di vederla, e passarci dopo tanto tempo una giornata intera, mi portò l’umore alle stelle. A parte che solo il pensare a lei mi rendeva felice.
Ero pronto ad uscire, stavo per aprire la porta, quando mi sentii chiamare: - Harry.-
Era mia madre.
- Mamma esco con Cher. - Le dissi senza nemmeno voltarmi.
Feci per compiere un passo, quello che mi avrebbe fatto oltrepassare la soglia della porta, e mia madre mi richiamò. Stavolta con un tono più serio della voce.


- Mamma mi avevi detto che se mi impegnavo in questi ultimi mesi, io.. - La visione del suo voto serio e cupo, come quello di chi sta per darti una notizia che a te non piacerà, mi fece morire le parole in gola.
Stetti per chiederle cosa accadesse, se avessi fatto o detto qualcosa di sbagliato, ma nuovamente fu lei a interrompere il realizzare delle mie intenzioni.
- Harry, vieni un attimo in camera tua. Devo parlarti. -
Di nuovo quel tono serio. Dal suo volto, riuscii a percepire che quello che stava per dirmi, sarebbe stato solo negativo per me, che su di lei non aveva avuto lo stesso effetto. Percepii anche la sua preoccupazione nel dirmelo, ma era sorpassata da quella che provavo io, maggiore.
Non fiatai, attraversai il corridoio, aprii la porta della camera, feci entrare mia mamma e poi entrai io richiudendola.
Accesi la luce.
Mi sedetti sul letto e lei si sedette accanto a me, prendendomi la mano e stringendola tra le sue.
Voleva rassicurarmi con quel gesto, invece non fece che aumentare la mia preoccupazione. Alcuni secondi di silenzio, mi guardò negli occhi emettendo un debole sorriso, altro tentativo per volermi far stare tranquillo. Sorriso che a me, apparve forzato. Credo che sapesse già che non l’avrei presa nei migliori dei modi.
- Harry, beh te lo dico solo ora... -
Finalmente parlò. Mi dette quasi sollievo, odiavo aspettare. Preferivo sapere subito tutte le cose, anche le peggiori, faceva meno male. Perché l’attesa era già un dolore di suo, se almeno quello potevamo evitarlo era meglio.
Continuò, il suo sguardo fisso sul mio. Uno sguardo forte, fermo incontrò il mio, incerto e tremante.
- .. Io e papà.. -
Mia madre, con queste pause, mi metteva un’ansia tremenda. Quando si fermava, mi faceva un debole sorriso. Compassione. Quel sentimento che mi hanno insegnato ad odiare.
Il fatto di iniziare parlando anche di mio padre, non fu la cosa migliore, riportò alla mente ricordi che volevo dimenticare.
- Abbiamo deciso.. che quest’anno, tu frequenterai l’università Sorbonne Nouvelle a Parigi. -
Dopo un’ultima pausa, aveva sputato tutto d’un fiato.
Un calcio dritto nello stomaco.
Lo sguardo sempre puntato addosso. Abbassai la testa, con la speranza che , questo, non fosse più posato su di me, ma fu vano.
Era evidente che aspettava una risposta. Ma come dovevo risponderle? Dovevo mentire dicendole di essere felice? Assolutamente no.
Dovevo dirle tutto quello che stavo provando adesso?  No, neanche questo. Non sarebbe mutata la situazione.
Trovai il lato positivo, avrei avuto tre mesi per fare tutti i miei progetti, nessuno poteva impedirmi questo. Dovevo solo sperare che il tempo non passasse troppo velocemente.
Novanta giorni. Molto tempo per permettere a qualcosa di cambiare. E chissà, potrei anche esser stato felice di andare a Parigi, avrei trovato il tempo per farmela piacere.
Oppure, magari, saremmo stati là solo nel periodo scolastico, e nelle vacanze saremmo ritornati a Londra.
Sotto questa luce, anche se con difficoltà, sarei riuscito ad accettare il mio destino, destino che non ero stato io a scegliere.
Così le posi una semplice domanda, con un po’ di calma e tranquillità, trovata chissà dove.

- Mamma ma ci trasferiremo là? -
- Si, partiamo domani.-
Ok, adesso no.  Avevo sentito troppo. Esageratamente troppo. Questa situazione non l’avrei mai accettata. Non mi ero mai trovato ostacoli così grandi davanti. Solitamente io ero colui che aiutava gli altri in difficoltà, che trovava sempre una soluzione per loro, che risolveva i loro problemi.
Ma quello ad avere bisogno di aiuto, più di tutti, ero io. E soprattutto in quel momento. Chi poteva aiutarmi? Solo lei.
Lei, che soffriva già troppo da se. Lei a cui avrei spezzato il cuore. Non volevo distruggere le persone, non lo facevo neanche con gli oggetti.
Però, lo avevo già fatto con ogni mia ragazza, ognuna che mi ero illuso di amare.  E adesso lo avrei fatto con la mia migliore amica.
Non volevo dire altro. Mi alzai e da testa bassa uscii. Lasciai la porta aperta.
 
Appena arrivato fuori piansi. E molto. Non sapevo bene cosa si provava, quella era la seconda volta dopo il divorzio dei miei genitori che piangevo.
Non c’erano stati solo quelli di momenti in cui stavo male.
Ogni giorno, potevo trovare una ragione per star male, ma non ci badavo, ero quel ragazzo che non si preoccupava troppo, che voleva vivere la vita al meglio.
 Ma fu difficile non soffrire. E piangere fu facile, estremamente facile.
Volevo essere forte, ma sotto, anche io ero debole.
Anche le persone più forti crollano.
 
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* Parte del testo di Wish You Were Here di Avril Lavigne
** Livello che si ottiene attraverso specifici esami sulla materia francese, necessario per frequentare la Sorbonne Nouvelle.
  
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