Fanfic su artisti musicali > Cher Lloyd
Segui la storia  |       
Autore: brokethefixed    05/01/2014    3 recensioni
Per me, lui, era quello che le colonne, sono per un tempio.
I muri, per la casa.
Ed era anche il pezzo che serviva per completare il puzzle, l’unico che può completarlo.
Era l’anima.
Senza la quale, il corpo è solo materia.
Era il sole.
Che solo vedendolo, rallegra le giornate.
E senza sole, vengono considerate ‘brutte giornate’.
Era l’ossigeno.
Del quale non si può fare a meno.
Era la gioia, ed anche la tristezza, era la notte, ed era il giorno, era l’estate ed era l’inverno.
Era tutto, ed anche di più.
Ma soprattutto era il mio migliore amico.
Quella persona che conoscevo da esattamente 15 anni.
Da quando ci eravamo conosciuti per la prima volta all’asilo.
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
{Per chi non ha perso la speranza e non si abbatte.
Per chi non smette di credere, mai.
Per chi ha fiducia nel destino, nonostante quello che accada.
E anche per chi non ha più le forze,
chi non riesce più ad affrontare delle sfide,
 chi si arrende.
 
Nessuna delle due vie è sbagliata.}


 
HARRY’S POV
 


Anche sull’aereo avevo avuto la fortuna di trovare un posto libero.  Era uno nella parte posteriore nel settore di destra, vicino al finestrino.
Mi agganciai la cintura, come avevo sentito ordinare dalla voce all’altoparlante.

Ero sorpreso che mia madre non mi avesse fermato, e mi avesse lasciato andare via. Prima o poi, però avrebbe voluto parlarmi nuovamente. Le parole sentite prima si ripetevano nella mia mente.
 - Abbiamo deciso.. che quest’anno, tu frequenterai l’università Sorbonne Nouvelle a Parigi. –
- Abbiamo deciso.. che quest’anno, tu frequenterai l’università Sorbonne Nouvelle a Parigi. –
- Abbiamo deciso.. che quest’anno, tu frequenterai l’università Sorbonne Nouvelle a Parigi. –
-  Sì, partiamo domani.-
-  Sì, partiamo domani.-
-  Sì, partiamo domani.-
 
Delle fitte alla testa mi riscuotevano da quel continuo pronunciare di parole. Avrei preferito sentire sempre quelle fitte, piuttosto di quel tormento di parole.
Ma dovevo smetterla, stavo pensando troppo. E se continuavo così, il mal di testa sarebbe stato insopportabile.
Quella che seguì, fu la parte peggiore del giorno.
Avrei visto Cher comunque, stavolta con l’umore opposto a quello in precedenza. Sperai di riuscire ad essere forte, come lo ero sempre stato. Io ero quello che la sorreggeva, la sosteneva e l’aiutava a non cadere, lei era quella debole che aveva bisogno che io facessi questo per lei. Sei io fossi stato debole, non avrei potuto aiutarla questa volta. E se non l’aiutavo stavolta, non l’aiutavo più. Non sapevo che ce l’avrei fatta a rivederla.
Ma io l’avrei rivista, lo stesso, anche se di tempo ne sarebbe passato molto.  Senza di lei, non avrei potuto continuare. Poteva sembrare strano, ma lei mi dava forza. Si, proprio così.
Guardai il cellulare, per sapere se mi avesse inviato qualche messaggio. Un messaggio c’era, ma non il suo.
‘Harry, non mi hai lasciato spiegare tutto. Perché te ne sei andato?’
Perché me ne ero andato? Non credevo che ci volesse chissà cosa per capirlo. E per quanto mi riguardava, non avevo bisogno di nessun’altra spiegazione. Mi era già tutto abbastanza chiaro.
Non risposi, così come feci con quelli seguenti, che non aprii nemmeno.
Inviai un messaggio a Cher, chiedendole se fosse già laggiù. La risposta fu affermativa.
Andai nel panico.
La immaginavo là, bellissima come sempre, con uno dei suoi sorrisi più belli sul volto, sorriso che avrei spento.
La immaginavo felice, era raro vederla provare quel  sentimento, e invece gliene avrei privato.
La immaginavo con gli occhi che brillavano, luce che le avrei strappato.
La immaginavo vivere una vita felice, perché lo meritava, più di qualsiasi altra persona e gliel’avrei rovinata.
La immaginavo aspettare solo me, di stare con me, ma l’avrei lasciata da sola.
La immaginavo con me per sempre, ma non sarebbe stato così.
Sarei stata io, questa volta, una delle ragioni per cui soffriva.
 
Trovare le parole da dirle, quella mattina di Giugno, fu un’impresa ardua. Non perché non sapessi cosa dirle, il problema era il modo in cui farlo, dovevo cercare quello che la facesse soffrire il meno possibile. Fu il mio tormento principale per tutto il percorso, che parve interminabile, fino al nostro posto, quello con la panchina quasi a pezzi. Tormento, affiancato da un’immagine, che parve già nitida e quasi reale, del modo in cui l’avrei ferita, in cui l’avrei distrutta. L’avevo aiutata a ricomporsi, a ricostruirsi, a fortificarsi sempre di più; e ora, proprio io la facevo crollare, io, io e solamente io.
Quello che lei chiamava migliore amico. Che adesso non era più degno di essere chiamato così, perché non ero ‘migliore’ di nessuno, e nemmeno un ‘amico’.
 
Nuvole grandi e bianche si stagliavano fuori dal finestrino.  Ancora 45 minuti alla fine del volo.
- Signore, vorrebbe qualcosa?-  Una voce di donna, sicuramente di un’hostess.
- No grazie.- Non mi voltai nemmeno, non era necessaria la gentilezza.
Rumore di tacchi, stessa domanda ripetuta altre volte ad altre persone.
 
Ero arrivato là, da lontano, vidi la panchina e una sagoma umana difficilmente distinguibile. Non ebbi dubbi che fosse lei.
Mi chiesi se potesse avermi già visto, oppure non stesse guardando avanti. Purtroppo, ero più sicuro che fosse stata la prima. Tutte le volte che mi aspettava, aveva sempre lo sguardo rivolto in quella direzione, aspettando di vedere me.
In quel momento desiderai che il percorso fosse ancora più lungo, infinitamente lungo. Più lungo di come mi era sembrato prima.
Ma prima o poi avrei dovuto affrontare questa situazione. E non era ne prima, ne poi; era ora.
Non c’era un piano B, non c’era un’altra via, era una strada a senso unico.
Mi feci forza, e feci quella ventina di passi che mi portò davanti a lei.
E la vidi, proprio come l’avevo immaginata, sorrideva ed era un sorriso pieno di gioia. Portò a sorridere anche me, ma sorrisi a testa bassa, come faceva lei quando era imbarazzata, anche se il mio aveva una motivazione pienamente differente dalla sua. Non sapevo se sarei riuscito a guardare nuovamente quegli occhi marroni che, tra tutti quelli degli altri, cercavo sempre, che mi perdevo a guardare, che era difficile distogliercene lo sguardo. Non volevo vedere quelle due stelle morire, perché le stelle quando muoiono, si riaccendono, ma quelle due stelle, le più belle, probabilmente non si sarebbero più accese.
Non avrei più visto lei, come la stavo vedendo ora, o forse non avrei più visto lei e basta. Adesso, la sicurezza era ormai perduta, adesso, c’erano le incertezze.
Ora ero vicino, non potei fare a meno di guardarla, in quell’abito di pizzo beige senza spalline, che scopriva la sua carnagione chiara, leggermente arrossata dai primi raggi di sole.
E in un istante mi fu addosso, le sue braccia mi circondarono il collo, gioia incontrò delusione, speranza incontrò resa, tranquillità incontrò l’ansia e la paura.
Con le braccia, le circondai i fianchi, e l’avvicinai di più a me, ma fu uno sforzo, fu come recitare una parte che non riuscivo a interpretare, in cui non mi sentivo a mio agio. Sentii il mio corpo inchiodato, quasi come paralizzato.
E se ne accorse, perché anche uno stupido ce l’avrebbe fatta.
E mi colse impreparato, mi colse quando stavo guardando in alto per tirare indietro quelle lacrime che volevano tanto uscire. Quelle lacrime ch, non sapevo come reprimere. Quelle lacrime che fino a poco tempo prima credevo non fossero più uscite.
Il sorriso andò via ma non la luce nei suoi occhi, luce che vidi diversa da quella solita, luce che erano i suoi occhi che si stavano riempendo d’acqua.
Così, colto alla sprovvista, l’abbracciai. Fu un abbraccio diverso dal solito, fu un abbraccio di quelli che si danno prima di andar via, fu un abbraccio che rilasciò dolore e mi distrusse, che cercò di trasmettere tutta la poca forza che mi era rimasta a lei.
Fu un abbraccio che trasmise molto di più delle parole, e forse molto di più di quello che avrei voluto dirle.
Sentii i nostri cuori battere sincronizzati, in cui non solo in nostri corpi erano uniti, ma anche le nostre anime.
 Fu un abbraccio di quelli che non si possono dimenticare, di quelli che ti lasciano il segno sulla pelle.
Sentii lei, come parte di me, e io come parte di lei.
Fu come se avessi potuto fermare il tempo, farlo davvero, e stare con lei fino all’infinito.
Ma no, il tempo non si era fermato, e in seguito sembrò andare tutto più veloce, troppo veloce. Parole taglienti come una lama, parole pesanti come un’incudine.
Parole, che non avrei potuto evitare di dire, che il destino non mi permetteva di evitare.
- Harry¸… mi dispiace. –
Fui sorpreso che rispose, che le lacrime resistessero ancora un po’ prima di scendere, fui sorpreso che fu più forte di quanto immaginassi.
Ma fu peggio, il volto era come vuoto, privato di tutto, era ferma, non traspariva nessun’emozione.
Era ovvio che le dispiaceva. Anche se non lo vedevo, non provavo nemmeno a immaginare cosa provasse dentro. Avevo quasi paura di saperlo.  
Lei aveva indossato una maschera, per me.
Io ero quello che le permetteva di uscire da quel guscio, senza farsi troppi problemi, che non la giudicava. Quello con cui si apriva e diceva tutto, fino in fondo.
E adesso non lo ero più. Adesso ero uno come tanti, che le aveva fatto del male.
Allora parlai, dissi tutto quello che volevo dirle. La guardai negli occhi, smarriti, che feci ritrovare ancora una volta nel mio sguardo.
- Cher, io non ne sapevo nulla. L’ho saputo mentre stavo per  venire da te. –
- Harry non mi devi delle spiegazioni, davvero.-
La testa bassa, lo sguardo anche.
- Cher ti ho fatto del male anch’io. –  Una nota di dolore evidente, in quella frase detta da me.
Mentre le parlavo, la stavo fissando, cercando di cogliere qualsiasi movimento, qualsiasi emozione che trasparisse.  Ma niente di tutto questo. La maschera c’era, e si vedeva.
- No, Harry.-
 Alzò lo sguardo ora. Gli occhi ancora lucidi. Non era ancora ceduta, ma sentivo con il contatto della sua pelle tremante, che il momento non era lontano.
- Si invece. Lo vedo Cher, lo vedo. Stai tenendo tutto dentro, prima con me non lo facevi. Ti ho rovinato la vita. Ero l’unica persona di cui ti fidavi, a cui ti eri affezionata e ora anche io ti ho ferito.-
La vidi spezzarsi e distruggersi davanti ai miei occhi. Vidi le lacrime uscire veloci, sentii i singhiozzi.
E la abbracciai, di nuovo. Quest’abbraccio trasmetteva altre scuse, ma anche frasi come ‘io ci sarò sempre per te’ e altre come ‘la distanza non potrà separarci’. Poi, dopo un minuto anche affetto, quell’abbraccio trasmetteva di più, di un semplice ti voglio bene.
Credo che i nostri abbracci avessero un linguaggio, insomma, una sorta di ‘linguaggio degli abbracci’.
Essi parlavano là  dove le parole non si trovavano, là dove avevamo paura di dire qualcosa. Ma allo stesso tempo, facevano meno male delle parole. Facevano male, ma curavano anche.
Fu un abbraccio lungo.
 
Era crollata, era a pezzi. Era già successo prima, ma l’aveva coperto con quella maschera, ed ero riuscito a  distruggere anche quella.
Era così semplice distruggere le persone, ma riuscire a ricostruirle era l’opposto.
Le accarezzai la guancia, bagnata, asciugandole ogni lacrima che scendeva.
Da ognuna e da ogni suo singhiozzo, uscì dolore, dolore che ricadde su di me, distruggendomi.
- Perché il destino ci ha fatto questo? –
La sua voce debole, spezzata da singhiozzi e ostacolata da quel pianto.
Distolsi lo sguardo da lei, voltandomi nella direzione opposta, e anche io piansi, di nuovo. Per lei potevo essere così, per lei ne valeva la pena, se lei mi avesse fatto soffrire, io l’avrei fatto.
Ma no, Harry, lei non lo farebbe mai, sei tu che lo hai fatto, pensai.
Per lei tutto. Avrei dato anche la vita.
- Se solo potessimo ricominciare tutto da capo…- Quelle parole, mi erano uscite di bocca con lo stesso tono usato da lei.
- Rifarei tutto Harry.-  Stavolta, un tono deciso. E poi sentii la sua mano sul volto, e mi girai verso di lei. Lacrime che mi appannavano la vista e impossibili da nascondere, ora non ce l’avrei più fatta. Ora no. Ora era finito tutto, una serie di sogni costruiti e distrutti prima di realizzarsi. Ora non c’era più niente.
- Tra tutte le persone del mondo avrei sempre scelto te.- Glielo dissi, guardandola negli occhi, e asciugandomi le lacrime.
Ed era vero, non l’avrei cambiata con nessuno, nessuno che non avesse i suoi problemi, nessuno che non avesse quelli che lei chiamava difetti, che io non riuscivo a trovare. Nessuno che non avesse bisogno di aiuto, nessuno che non avessi dovuto salvare.
Io la volevo, perché era lei, e potevo caricarmi addosso tutto quello, perché non aveva importanza.
- Anche io, Harry.- La sua voce era simile ad un sussurro.
E quello che seguì, furono un oceano che non riusciva più a contenere tutte quelle lacrime versate, un mondo che non riusciva più a sostenere quel dolore. Nessuna parola, solo abbracci, abbracci che comunicavano di voler andare via di qua, abbracci che volevano che fosse solo un sogno, abbracci che volevano fermare il tempo, che passava sempre più in fretta.
In seguito, tre sagome in lontananza, che riconobbi subito, mia madre, mio padre e Gemma. Lontananza che si tramutò subito in vicinanza.
- Harry, andiamo a casa, ora. Devo finire di parlarti e devi fare le valigie. – Di nuovo la voce di mia madre, era stufa.
Impotenza. Non credevo di poter provare anche questo. Non credevo di arrivare al punto di rassegnarmi a una sola scelta.
Protestare e opporsi  sarebbe stato inutile, anzi peggiore.
Mi voltai verso quelle tre figure, quelle che benché fossero la mia famiglia, adesso non volevo nel mio futuro. Non quelle che mi avevano fatto questo, non quelle che avevano collaborato alla mia distruzione e a quella di Cher.
Adesso sapevo cosa si provava a cadere a pezzi. Adesso sapevo come ci si sentiva. Non era semplice da descrivere. Mi sentii vuoto, e sconvolto. Mi sentii privo di sensi, confuso. Non riuscivo a capire, era una sensazione nuova.
Capii, quanto dovesse essere difficile per Cher, che si sentiva così sempre.
- Andiamo, su Harry.- Ora la voce autoritaria di mio padre.
Adesso il mio sguardo cercò Gemma, speravo che lei non lo avesse saputo prima di me, che non me lo avesse nascosto. Ma quando incrociai il suo volto, mi vergognai quasi di quello che avevo pensato. Lei stava sentendo una parte delle mie sensazioni, a lei dispiaceva, e anche molto. Lei mi avrebbe aiutato. Mi voleva trasmettere speranza. Lei era l’unica persona, oltre a Cher, che riuscivo a capire anche senza le parole. Le persone che non volevo nella mia vita erano due, non tre. Magari le cose sarebbero state migliori là in Francia, visto che ci sarebbe stata Gemma.
- Harry, non fartelo ripetere più, lasciale la mano e andiamo.- Mia madre, adesso parlava carica di rabbia.
Non mi ero accorto di tenerla per mano, e ora la strinsi di più.
- Un momento, le dico l’ultima cosa e poi vi prometto che vengo.- Era stato automatico, era il cuore ad aver parlato. E fu di nuovo lui, per la frase seguente.
-Per favore, promettimi che non starai male per me, tu non dipendi da me. Se pensi che in quel modo mi dimenticherai, stai sbagliando. Ti chiedo solo di camminare a testa alta, sorridere e vivere la tua vita.-
La mia mano grande, incastrata perfettamente nella sua, piccola.
Gli occhi puntati sui suoi, anche dopo la fine di quelle parole. Gli occhi che volevo guardare bene, coglierne tutte le sfumature di marrone dell’iride, per non voler dimenticare. Gli occhi che volevo ricordare; quelli che mi avevano guardato, quelli che mi guardavano, e che non mi avrebbero più guardato.
- Te lo prometto. Lo farò per te.- Aveva dimostrato forza, di nuovo, la voce era diversa da quella carica di debolezza. Forza dovuta alla rassegnazione, all’accettare di un destino ingiusto, forza che non era forza, ma bensì altro, decisione, forse. Decisione di rendermi felice, decisione di voler realizzare quello che le avevo chiesto. Decisione di accettare di compiere quello che poteva essere uno sforzo o un semplice passo.
Era l’unica cosa che potevo chiederle, che non avevo nemmeno pensato, che il cuore aveva detto.
Ma lo stesso cuore che diceva che ero io a dipendere da lei.
I Greci credevano che le emozioni, i sentimenti e l’intelligenza risiedessero nei precordi, delle zone intorno al cuore. Anche secondo me era così, tutto dipendeva dal cuore, non dalla mente.
 
E poi un abbraccio, che stavolta comunicava addio, e nell’ultimo secondo, avvertì che non sarebbe stato un addio definitivo.
La speranza era solo un’illusione. La speranza causava altro male.
Me ne andai, seguendo quelle tre figure.
- Non saluti?- Mia madre era calma adesso. Era chiaro che ora avendo fatto quello che voleva fosse tranquilla, e cercasse di trasmetterlo anche a me. Ma io no, adesso ero agitato. Agitazione per non sapere cosa fare. Agitazione per non poter fare niente.
E poi, quando sarei tornato a casa, una predica di un’ora come minimo.
Vedevo già la scena. Di nuovo in camera mia, seduti sul letto. Di nuovo la compassione, quello sguardo che cercava di rassicurarmi, e di nuovo speranza,  quella che non  volevo più.
Ma questa volta anche un tono dispiaciuto, una marea di stronzate a cui avrei dovuto credere, della serie ‘ti servirà per il futuro’, ‘Harry è per il tuo bene’. Stronzate a cui non credeva nemmeno mia madre.
- Ho già salutato. - Risposi, duro.
Ruotai la testa, in direzione della panchina.
‘Scusami ancora.’
Lo dissi piano, quasi nemmeno io l’avevo sentito. Non serviva dirlo forte, dopo aver fatto un danno, non si può rimediare, tantomeno con scusarsi nuovamente.
 
 
Ero sceso dall’aereo. Il rombo del motore risuonava ancora nelle mie orecchie.
Ero a Londra. A casa.  Respirando nuovamente quell’aria, mi sentii nuovamente a mio agio, dopo tanto tempo. Non credevo che avrei camminato nuovamente su quella terra,  né di vedere nuovamente i giardini all’inglese, tutti i grandi negozi, i bus double decker, le mie conoscenze qua, e Cher, soprattutto.
Quando avevo pensato a Londra, non c’era mai una volta in cui non avessi pensato a lei. Perché a me, di lei mancava tutto. E anche molto.
Mancava svegliarsi la mattina, col pensiero inviarle il messaggio del buongiorno. E dopo pochi minuti, andare sotto casa sua, davanti alla finestra di camera; vederla affacciare alla finestra sorridente, con i capelli ancora spettinati dopo la dormita, e gli occhi semichiusi per la luce.
Mancava il quarto d’ora che aspettavo fuori, aspettando che si sistemasse, mancava l’abbraccio che ci scambiavamo appena apriva la porta.
Mancavano le colazioni all’Old Street Bar, con la cioccolata calda e i cornetti.
Mancavano le conversazioni nei minuti prima di entrare a scuola, anzi mancavano tutte le conversazioni in generale. Felici, tristi, non importa. Mancava persino soffrire vedendola star male.
Mancavano i suoi: ‘sono bruttissima’, - ‘faccio schifo’ – , - Harry ma mi hai visto? - , la faccia scontenta davanti agli specchi, quando la riempivo di complimenti, e lei abbassava la testa, guardando per terra e, le guance si tingevano di un rosa leggero.  Inizialmente gli angoli delle labbra, tinte di rosa acceso o di rosso, si curvavano, accennando un sorriso, io continuavo ad adularla, e mostrava un vero e proprio sorriso.
Mancavano le risate, le cose stupide fatte insieme.  Gli errori fatti insieme. Mancava tutto il resto, che adesso non c’era e che adesso mi faceva sentire vuoto, incompleto.
Era inutile negarlo, il motivo principale per cui ero là, era proprio lei. Si, dovevo tornare per questo. Io avevo bisogno di lei, chissà se lei invece non ne avesse avuto più di me.
In parte sarebbe stato positivo, aveva mantenuto quello che le avevo promesso con il cuore.
Lei non mi aveva dimenticato; i messaggi, le chiamate, le videochiamate – anche se quest’ultime molto rare- ne erano la prova.
Mi sorgeva una domanda, a cui tra poco avrei trovato una risposta: ‘Cosa sono io per lei adesso?’
L’altra faccia della medaglia, infatti, mostrava che il rapporto tra me e lei sarebbe cambiato, non sarebbe più stato quello di prima. Magari lei era felice adesso, magari stava meglio che prima. Non mi sentivo usato, sentivo che lo meritavo.
 
Senza di lei, ero come il cielo senza gli astri. Ero privo di qualcosa.
Il mare senza l’acqua. Non potevo esistere.
Un lucchetto senza la chiave. Inutile.
Senza di lei ero solo la metà di un cuore. * Incompleto.
 
Tolsi dallo zaino la sciarpa di lana verde sottobosco e me l’arrotolai intorno al collo a un giro.
 La prima cosa che volevo fare, qua a casa, era prendermi un caffè, ero stanchissimo, e stare sull’aereo non aveva aiutato.
Non sarei entrato in un bar qualunque, sarei ritornato all’Old Street Bar’ che, come diceva il nome, era parecchio vecchio e si trovava sul lato sinistro di una strada, di cui non si conosceva il nome.
L’insegna ormai scolorita, la facciata grigia, la porta di vetro. Trovandomelo nuovamente davanti, una marea di ricordi mi colse all’improvviso.
 
- E tu come hai dormito ieri sera? – mi chiese, tra un sorso di cioccolata calda e un pezzo di croissant.
- Bene, anche se la mattina mi sono svegliato sdraiato con il cuscino sopra la faccia.- trattenni una risata, per poco, perché lei aveva tirato la testa verso l’alto e stava ridendo fragorosamente. Ridemmo insieme per alcuni secondi. Era così bello. I suoi sorrisi a volte erano così semplici da ottenere. Perché la felicità a volte è semplice da ottenere, o è più corretto dire che la felicità è nelle cose semplici. Non è facile definire cosa sia la felicità, per me sono momenti come questo, di cui ricorderai sempre. Non sempre, sono i regali costosi, come un viaggio, un paio di scarpe firmate,..  a me questo non basta. Per me è superfluo. Io non ne ho bisogno.
- Solo te Harry, solo te.- disse a testa bassa, scuotendo il capo e sorridendo.
- Almeno io prima di dormire non alzo le braccia, le muovo e lo credo rilassante.- Lei allungò la mano, e mi tirò un leggero colpetto sul braccio.
Ridemmo nuovamente insieme.
 
Le ore nel bar erano così, ci dicevamo una marea di cavolate, e ridevamo sempre. Ci prendevamo in giro, scherzando. La maggior parte delle volte ci stavamo più di mezz’ora.
Il ragazzo del bar, Louis – mi pareva si chiamasse così, ma non ricordo il cognome - ormai aveva imparato a conoscerci, ed era come un amico. Aggiungeva sempre una sedia al nostro tavolo e si sedeva,  quando le conversazioni si dilungavano più del dovuto, raccomandandoci di sbrigarci. Spesso rimaneva qualche minuto ad ascoltare le nostre discussioni, e partecipava a queste; poi si allontanava, prendeva lo straccio, ci spruzzava sopra un solvente per le superfici in legno e lo passava sul piano bar. In seguito, con il solito panno, faceva lo stesso per i tavoli. Mentre svolgeva questi lavori, cantava sempre canzoni anni 70’ o 80’ come ‘I Will Survive’, di Gloria Gaynor oppure ‘I Want To Be Free’ dei Queen, e altre che non avevo mai sentito, ma conoscevo alcuni pezzi grazie a lui. Era un tipo bizzarro, non ero ancora riuscito a inquadrarlo del tutto.
Nei momenti i cui si sedeva con noi, ci aveva anche raccontato qualcosa di sé. Era di un paio di anni più grande di noi, aveva lasciato la scuola e non aveva fatto l’università;  presumo per poca voglia di studiare. Era l’unico che lavorasse in quel bar, e quindi si riteneva anche il proprietario. Non aveva da lavorare molto, in quanto l’OSB, non era uno dei locali più cool di Londra, aveva massimo una trentina di clienti alla settimana, con la maggior parte di essi si comportava come con noi. Il bar, aveva una scelta limitata di alcolici, chiudeva sempre verso le sei e mezzo e non si facevano feste.
Ma a me e Cher andava più che bene, non ci interessava bere né fare feste la sera. Ci piaceva la tranquillità, e i posti insoliti e poco conosciuti.
Louis una volta ci aveva pure detto che io e Cher le ricordavamo lui e la sua ragazza con la quale era stato quasi due anni, imbarazzandomi terribilmente.
 
Aprii la porta, ed entrai. Mi sentii sulla pelle una sensazione di familiare, di conosciuto, di abituale, quella che si prova quando si apre la porta di casa e si entra dopo esser uscito da scuola. Avrei creduto che quello di Parigi fosse stato veramente un sogno, e che stessi continuando a vivere la mia vita di sempre, quella che tanto rivolevo, se non fosse stato per l’assenza di Cher.
‘Forse Louis saprà darmi qualche informazione utile su di lei’ mi balzò alla mente quest’idea.  Lo trovai con lo sguardo, era seduto a un tavolo vicino al bancone, impegnato in una discussione animata con una ragazza dai capelli lisci biondo scuro. Non credevo di averla vista prima.
La congedò, lei si diresse verso la porta con gli occhi puntati sul cellulare. Era alta, se gli stivali che portava avessero avuto un tacco abbastanza alto, sarebbe stata più alta di Louis.
- HARREH! – Solo Louis poteva aver storpiato il mio nome in quel modo, con la sua voce limpida, carica del suo accento di Doncaster.
Mi dette una pacca sulla spalla. Gli sorrisi appena.  Addosso aveva una delle solite maglie con stampe o loghi di marche famose, quel giorno, ‘vans off the wall’ scritta di rosso sulla t-shirt bianca; e poi un paio di jeans blu stretti come sempre, con la rovescia alle estremità e un paio delle sue scarpe inguardabili che portava senza calzino.
- Chi è quella tipa? – Gli chiesi maliziosamente, e continuai soffocando una risata. – Raccontami dai.-
- Una nuova cliente. –
La sua risata sonora rimbombò in tutto il bar. Eravamo rimasti soli.
Avrei continuato a insistere, facendogli ammettere che prima ci stava flirtando, ma non ero lì per quello. Così, passai alle domande mirate.
- Sai qualcosa di Cher? –
Mi sforzai per sembrare un po’ disinteressato, come se quella domanda fosse stata fatta perché non avessi saputo cosa dire.
- Certo, certo, viene spesso qua. Harreh, devo pulire queste tazze, mi segui al piano bar? -
- Non ho tempo, sono di fretta. – Accorgendomi di essere stato un po’ arrogante, aggiunsi: - Scusa. –
- Ahh okay. Comunque sì, viene ancora qua. –
Sorrisi involontariamente. Non so se fosse stato a causa di sentir parlare di lei, o perché Louis avesse qualche informazione, oppure non so il perché considerassi positivo il fatto che frequentasse ancora l’Old Street Bar. Forse per la possibilità di poter tornare alla normalità almeno per quella giornata, quella che per me era normalità.
- Cosa mi dici di lei?- Solito tono, più convincente ora.
- Ti manca? –
Mi stava sorridendo, un sorriso di scherno, sembrava quasi mi stesse sfottendo. E anche il suo sguardo, con un sopracciglio leggermente più alzato rispetto all’altro me lo testimoniò.
Questo e la domanda idiota - sperai di aver sentito male - mi obbligò a replicare senza troppe recite.
- Louis, io ti ho fatto una domanda, e non è carino rispondere chiedendomi tutt’altro e ridendo di me. Vabbè, visto che non vuoi rispondermi, vado. Ciao. –
Avevo detto vado, ma non me ne ero ancora andato, e anche il ciao, non era un saluto di addio; prima volevo la sua risposta.
- Sei cambiato. – Adesso era serio, i suoi occhi piccoli, un incrocio tra il colore più bello che potesse assumere il cielo e quello più bello che potesse assumere il mare, piantati sui di me. Alzava e abbassava la testa leggermente, come per confermare quello che aveva detto.

‘Fantastico, questo era proprio la risposta che volevo’ meglio tenerlo per me questo.
Me ne andai.
Non mi era piaciuta la piega che stava per prendere quella conversazione, e poi quella mattina non ero in grado di sostenerne una di quel tipo, da manipolare.
Lo odiavo ma era necessario, se mi fosse sfuggita di mano non saprei come e quando sarebbe potuta terminare. E poi quel ‘sei cambiato’ finale. Non lo avevo inteso per niente, sarà stata un’altra delle sue cose stupide.
Non ci pensai più, ora prima di andare da Cher, dovevo andare a vedere il nostro posto, sedermi là per alcuni minuti e rilassarmi.

Chissà se la panchina sarà andata a pezzi.
Le cose precarie, non resistono a lungo.

Giunto là, realizzai che non ero solo.

 Il mio cuore perse un colpo.

Cosa stai provando Harry, adesso? Cos'è quello che stai provando?
  
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > Cher Lloyd / Vai alla pagina dell'autore: brokethefixed