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Autore: Kitri    23/12/2013    16 recensioni
Che parole impegnative per una ragazzina immatura di appena sedici anni! Ma allora lei ne era convinta e, dopo dieci anni, con l’esperienza, poteva confermare che quello che provava era davvero amore. [...]
«Non ti dimenticherò mai» gli aveva detto prima di scappare via.
Quella era stata l’ultima volta che lo aveva visto.
Un ritorno improvviso e qualcosa lasciato in sospeso anni prima. Il Natale riuscirà a compiere la sua magia?
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti | Coppie: Mamoru/Usagi
Note: AU, Lemon, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna serie
Capitoli:
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Prima parte
 
«I passeggeri del volo Clouds Airlines, delle ore nove, diretto a Tōkyō, sono pregati di recarsi all’imbarco».
 
L’altoparlante dell’aeroporto JFK di New York annunciò che era ora di partire.
Il giovane uomo, che leggeva in sala d’attesa, si alzò e, a passo deciso, si avviò verso il Gate 3, come indicato sul tabellone delle partenze.
“Andiamo a risolvere questa faccenda!” disse tra sé, sbuffando nervosamente per quella che considerava una vera e propria seccatura, un imprevisto di cui avrebbe fatto piacevolmente a meno.
Al varco, la graziosa hostess dai capelli neri a caschetto, gli controllò velocemente il biglietto e i documenti, distratta da quegli occhi blu penetranti e da quella sicurezza ostentata.
«Buon viaggio, signore» augurò, rivolgendogli un sorriso lezioso, che lui ricambiò prontamente, facendole anche l’occhiolino. Una reazione istintiva quella, che si innescava automaticamente con le donne.
Che fossero giovani o attempate, belle o poco attraenti, a lui non importava. Mamoru Chiba amava adularle, sfruttando la propria avvenenza fisica e i modi galanti, anche se, a dirla tutta, ben poche avevano avuto il piacere e l’onore di sperimentare le sue doti amatorie. Da questo punto di vista, era decisamente molto selettivo.
Salì distrattamente le scalette dell’aereo, tolse gli occhiali da sole e, tenendo il capo chino, li sistemò nella sua ventiquattrore.
«Buongiorno, signore, e benvenuto a bordo».
Una voce soave ed estremamente femminile lo riportò sull’attenti, mentre il suo sguardo basso si ritrovò ad ammirare un paio di deliziosi piccoli piedi in décolleté neri. Non era mai stato un feticista, ma trovò quell’immagine davvero intrigante.
Con gli occhi risalì lentamente lungo le caviglie sottili e le gambe snelle, per poi continuare a scrutare prima i fianchi armonici, quindi la vita stretta e il seno prosperoso, fasciati dalla divisa nera e rossa della compagnia aerea.
“Niente male” pensò.
E, infine, arrivò al viso.
“Davvero niente male!” ripeté tra sé con maggiore enfasi, notando i lineamenti delicati, i grandi occhi azzurri e il sorriso luminoso.
Rimase stralunato per qualche secondo, fino a quando qualcuno, dietro di lui, non gli fece notare che stava temporeggiando, bloccando la lunga fila di passeggeri.
«Buongiorno a lei, signorina».
Si affrettò a ricambiare il saluto e a entrare. Stavolta, niente ammiccamenti e sorrisini di circostanza: il suo ben collaudato congegno automatico si era improvvisamente, e stranamente, inceppato.
“Faranno dei casting per assumere le hostess?” si chiese ironico, mentre prendeva posto, pensando ancora alla ragazza bionda. Era un vero e proprio schianto e rispettava pienamente, e anche oltre, i suoi parametri selettivi.
Eppure, pensò, gli sembrava di averla già vista da qualche parte e, riflettendoci, non appena i loro sguardi si erano incrociati, gli era parso che la ragazza avesse sgranato gli occhi, come se fosse sorpresa di vederlo.
Ma forse si sbagliava o, molto probabilmente, somigliava solo a qualche vecchia conoscenza.
“Una così me la sarei certamente ricordata!”.
In ogni caso, il viaggio sarebbe stato sicuramente molto più interessante del previsto e si sarebbe deliziato al vederla sfilare, avanti e indietro, lungo il corridoio dell’aereo.
 
Il volo, però, non fu assolutamente piacevole come aveva immaginato e la sua hostess preferita - così l’aveva ribattezzata - non fu per niente gentile e premurosa come ogni normale assistente di volo che si rispetti, anzi, lo ignorò completamente.
La prima volta, Mamoru pensò a una distrazione.
La ragazza, sorridente e garbata, stava distribuendo i quotidiani a tutti i passeggeri, ma, arrivato il turno di Mamoru, il Tōkyō Shinbun, passando sulla sua testa, era finito, invece, direttamente nelle mani dell’uomo che sedeva dietro di lui. Perplesso, si bloccò con la mano a mezz’aria, indeciso se richiamare o meno l’attenzione della giovane. Poi si ricordò della copia del New York Times acquistata in aeroporto e lasciò perdere.
La seconda volta, invece, storse la bocca contrariato.
La ragazza, che spingeva il carrello delle vivande lungo il corridoio, non si era neanche voltata nella sua direzione per chiedergli se desiderasse qualcosa, come se non esistesse o non fosse un passeggero del volo come gli altri. Un caffè, voleva solo un semplice caffè!
“Ok, fa niente, tanto il caffè in aereo fa schifo” si autoconvinse, prima di reimmergersi nella lettura.
Ma la terza volta, quando con il carrello del pranzo gli toccò la stessa sorte che con i due precedenti, Mamoru non ci vide più e protestò.
«Signorina – l’ammonì bruscamente – ho lasciato perdere giornale e caffè, ma il mio pranzo lo pretendo! Ho pagato profumatamente questo viaggio in prima classe e il servizio non vale neanche un centesimo di quello che ho speso!».
A quelle parole, la ragazza si irrigidì. Non si voltò a guardarlo, ma, continuando a dargli la schiena, girò leggermente il viso e parlò con voce sommessa al di sopra della spalla.
«Mi dispiace, signore, ho appena dato via l’ultimo vassoio. Vado in cabina a rifornire il carrello e avrà subito il suo pranzo». E detto questo, senza neanche dargli modo di replicare, corse via verso la testa dell’aereo, mortificata.
Mamoru non voleva umiliarla, ma il suo comportamento, così superficiale e poco professionale, da sembrare addirittura intenzionale, l’aveva fatto innervosire abbastanza. Eppure, provò uno strano rammarico nel vederla scappare così. E fu ancor più dispiaciuto quando, al suo posto, vide comparire un’altra hostess con il vassoio del pranzo, la copia del Tōkyō Shinbun e il caffè, e quasi gli si chiuse lo stomaco. Sapeva di non avere torto, ma si rimproverò, comunque, di non aver usato dei modi più gentili. Decise che, non appena l’avesse rivista, le avrebbe chiesto scusa.
 
Quando, tredici ore dopo, l’aereo finalmente atterrò a Tōkyō, Mamoru era letteralmente distrutto dal viaggio e dal jet lag.
Recuperò il proprio bagaglio, guardandosi intorno e cercando tra la folla il volto della giovane hostess, aguzzando la vista ogni volta che scorgeva, in lontananza, una divisa nera e rossa. Da quello spiacevole incidente non aveva più rivisto la ragazza bionda. Avrebbe tanto voluto scusarsi. E, magari, conoscerne almeno il nome.
Rassegnato, chiamò un taxi e fornì all’autista l’indirizzo della villa del suo vecchio zio, e, dopo un lungo sbadiglio, pianificò che avrebbe dormito almeno un giorno intero, tanta era la stanchezza.
Ma, mentre l’auto si allontanava lentamente, non riusciva a mandare via l’immagine di quella donna e continuò a fissare l’uscita dell’aeroporto, fino all’ultimo, con la speranza di vederla. Non sapeva spiegarsi perché si sentisse così, ma aveva la sensazione di un ricordo sbiadito, sepolto nella memoria, che si stava risvegliando poco a poco.
 
Due giorni dopo, Mamoru decise che era giunto il momento di lasciare il letto e di tornare alla vita. Aveva un mucchio di cose da sistemare e solo un mese a disposizione.
Camminò per le strade affollate del centro, godendosi l’aria gelida e pungente di dicembre. Era un sabato pomeriggio e mancavano due settimane a Natale, ma le vie erano già tutte illuminate a festa e molti sembravano impegnati con i primi acquisti natalizi.
Giunto all’angolo del corso principale, finalmente riconobbe l’insegna luminosa del Crown, la caffetteria gestita dal suo migliore amico Motoki.
Entrò, lasciandosi avvolgere dal tepore del locale, e si guardò intorno, mentre toglieva sciarpa e guanti. Tutto era molto diverso. Il locale era stato ristrutturato e la disposizione dei tavoli e del bancone era cambiata. Non aveva più niente della vecchia sala giochi in cui passava i pomeriggi da liceale in compagnia degli amici, ma, nonostante ciò, rimaneva un posto familiare e accogliente.
«Che mi venga un colpo! Chiba, sei proprio tu?».
Il giovane proprietario era appena uscito dal retro. Trovandosi di fronte il vecchio amico, che non vedeva da quando era stato a New York un anno prima, aveva strabuzzato gli occhi incredulo e si era lasciato andare a una gioiosa espressione di sorpresa.
«Sì, sono proprio io» rispose Mamoru, andandogli incontro e abbandonandosi a un caloroso abbraccio.
«È bello averti qui! Ma perché non mi hai avvertito del tuo arrivo?».
«Sono partito all’improvviso e non ho avuto il tempo di farlo. E poi ho pensato che avresti gradito una sorpresa».
«Beh, direi che ci sei riuscito» rispose Motoki, dilungandosi in pacche amichevoli sulle spalle, contento di averlo di nuovo con sé.
«Ma accomodati! – aggiunse – E, mentre ti preparo un bel caffè caldo, mi spieghi cosa ti ha portato qui con tanta urgenza».
Mamoru prese posto sullo sgabello davanti al bancone e, mentre Motoki armeggiava con la macchina dell’espresso, iniziò a raccontare.
«Mio zio Masao mi ha lasciato in eredità la sua villa».
Motoki sgranò gli occhi stupito.
«Hai ereditato la villa del vecchio Masao?!? Ma vale una fortuna!».
«In realtà, la fortuna è quella che ho dovuto spendere io per mantenerla a distanza, senza contare le tasse, anche se è una casa disabitata. – rispose Mamoru con un sorrisetto ironico - Sono grato a mio zio di essersi ricordato di me. Considerando il modo in cui ha reagito alla mia partenza, mi aspettavo che lasciasse tutto in beneficenza. Ma, sinceramente, gestire questa situazione è molto complicato, oltre che dispendioso, quindi ho deciso di vendere».
«Vendere la villa? Certo guadagnerai parecchio, ma non hai considerato il legame affettivo? Ricordi quanto tempo ci abbiamo passato insieme e quante feste abbiamo organizzato in giardino?».
Mamoru abbassò lo sguardo sulla tazza fumante, che il suo amico gli aveva appena messo davanti. Non era stato facile prendere la decisione di vendere la casa in cui era vissuto, da quando erano morti i suoi genitori. Aveva mille ricordi in quel luogo, belli e meno belli, ma non vedeva altra soluzione. Nonostante fosse un medico in carriera e avesse un ottimo stipendio, non poteva permettersi tutte quelle spese. Ma questo non era l’unico motivo.
«Quei tempi sono andati – rispose serio - Ormai non ho più niente che mi leghi a Tōkyō, la mia vita è a New York».
L’altro tacque, non sapendo come replicare.
Una ragazza alta, con lunghi capelli castani, uscì dal retro reggendo un vassoio pieno di pasticcini.
«Mamoru, - esordì Motoki, deviando così lo scomodo discorso – lascia che ti presenti Makoto, la mia fidanzata. Mako, lui è Mamoru Chiba, il mio migliore amico, di cui ti ho parlato tante volte».
«È un vero piacere conoscerti, Makoto» disse Mamoru, porgendole la mano.
La ragazza, dopo aver appoggiato il vassoio sul banco ed essersi pulita le mani sul grembiule, ricambiò il saluto.
«Il piacere è mio, Mamoru. Perché non assaggi uno di questi dolci che ho appena sfornato?».
«Fidati, amico, Makoto è una cuoca eccezionale» aggiunse Motoki con gli occhi pieni di orgoglio, passando il braccio attorno alla vita della sua fidanzata, che arrossì.
«Se dici così, non posso certo rifiutare – e allungò la mano per prendere uno di quegli invitanti dolci al cioccolato – Mhm, buonissimo! Motoki ha ragione, sei una cuoca bravissima».
La ragazza arrossì ancora di più.
«Ti ringrazio, Mamoru, sei gentile. Questi sono i dolci che mi vengono meglio. Li ho fatti per la mia amica Usagi. Ne va matta».
A sentir pronunciare quel nome, Mamoru si fermò, prima di addentare il secondo pasticcino.
«Usagi? – chiese stupito. Poi, rivolgendosi a Motoki – Odango?».
L’altro sorrise e annuì.
«Vive ancora qui?» chiese ancora Mamoru, ricordando l’adolescente pestifera e pasticciona dai lunghi codini biondi.
«Beh, più o meno. È sempre in giro per lavoro, ma la sua base è qui. Tra pochi minuti verrà ad aiutare Makoto con gli addobbi natalizi. Se ti trattieni un altro po’, potrai incontrarla».
Mamoru, con presunzione, agitò la mano davanti a sé.
«No, grazie, non ci tengo. Anzi, ora che me l’hai detto, mi sono ricordato che ho un mucchio di cose da fare, quindi io levo il disturbo».
Motoki scoppiò a ridere.
«Troppo tardi, amico, è già qui» disse puntando il pollice verso la porta di ingresso.
Mamoru si voltò, quasi infastidito dal tempismo della giovane, che era arrivata prima che lui potesse tagliare la corda.
«Quella … quella è … Odango?!?» esclamò con gli occhi fuori dalle orbite.
Non poteva essere Usagi! Quella splendida ragazza all’ingresso del locale era la sua hostess preferita, quella con la quale si era comportato da maleducato e alla quale non aveva potuto chiedere scusa, rimanendo con uno strano senso di frustrazione nel petto. Benché non indossasse la divisa della compagnia aerea, non c’erano dubbi che fosse proprio lei.
«Non è possibile!» commentò ancora incredulo.
Ma era più che evidente: Usagi e l’assistente di volo erano la stessa persona. Ecco perché aveva pensato che avesse un volto familiare!
Erano passati dieci anni ed era normale che fosse cambiata. Adesso era una giovane donna, che non aveva nulla a che vedere con la ragazzina acerba e goffa che ricordava. Non l’avrebbe mai riconosciuta! Eppure, lei lo aveva fatto, ne era sicuro, come era sicuro del fatto che, adesso, stesse facendo la figura del rincitrullito.
«Credici, è possibilissimo! - lo rimbeccò Motoki - Sono passati dieci anni e Odango non esiste più. Adesso Usagi è una donna stupenda e sicura di sé».
«Lo vedo» mormorò Mamoru a denti stretti.
E in un attimo il ricordo, sepolto tanti anni prima, si fece nitido. La festa di addio nella villa dello zio Masao, la sera prima della partenza per gli Stati Uniti. Una candida ragazzina di appena sedici anni, che riceveva da lui il primo bacio d’amore. Il primo e l’ultimo, l’unico bacio che si erano scambiati, prima che lei scappasse via in lacrime. L’ultima volta che l’aveva vista.
Mentre restava immobile, con la mente annebbiata dal ricordo di quella inaspettata dolcezza provata sfiorando le calde labbra di Usagi, la ragazza camminò con sicurezza verso di lui, senza distogliere lo sguardo perfidamente divertito, si liberò del pesante cappotto, rimanendo in jeans e maglione, e, incrociando le braccia sul petto, si fermò a pochi metri da lui.
«Ciao» gli disse, guardandolo con una determinazione che Mamoru non ricordava in lei.
«Ciao» rispose lui, dopo aver preso una bella boccata d’aria.
«Spero che tu abbia apprezzato il pranzo».
Il tono di Usagi era sarcastico e con una sottile vena di irritazione e Mamoru, per un attimo, tentennò, forse imbarazzato dal ricordo di quello spiacevole incidente in aereo.
«Sì – alla fine rispose – E a proposito, volevo già chiederti scusa, solo che … ».
Usagi sollevò una mano per fermarlo.
«Non preoccuparti, in fondo avevi ragione. Sono stata davvero poco professionale e il servizio non valeva un solo centesimo di quello che hai pagato».
Quella risposta a Mamoru suonò come una presa in giro e si convinse, perciò, a riprendere il controllo della situazione e a non farsi mettere i piedi in testa da una ragazzina. Anche se era cresciuta decisamente bene, per lui rimaneva sempre la stessa Odango. E pensare che le aveva anche chiesto scusa!
«A questo punto, visto come stanno le cose, suppongo che tu l’abbia fatto apposta» insinuò, utilizzando lo stesso tono sarcastico e accennando un sorrisetto ancora più perfido di quello di Usagi.
La ragazza si limitò a sollevare le spalle con sufficienza, senza dargli la soddisfazione di accettare la provocazione.
«Forse supponi bene – rispose. Poi si rivolse a Makoto, che assieme a Motoki assisteva stupita e curiosa a quello strano scambio di battute – Allora, Mako-chan, dove sono gli scatoli con gli addobbi?».
Mamoru con lo sguardo la seguì sbalordito, mentre lei si spostava con assoluta naturalezza e noncuranza, verso il retro del locale.
Si era sbagliato. Quella non era più la stessa Odango, la sua Odango.
«Ho bisogno di un altro caffè!» sospirò rivolgendosi a Motoki, il quale, divertito, se la rise sotto i baffi.
 
Per le due ore successive, Mamoru dimenticò i propri impegni, rimandandoli direttamente al lunedì. Si giustificò con se stesso dicendo che era ancora troppo stanco, ma, in realtà, quell’incontro inatteso l’aveva stranamente spossato.
Trascorse così l’intero pomeriggio al Crown a chiacchierare con Motoki e a lanciare, di tanto in tanto, qualche occhiata furtiva nella direzione di Usagi.
Notò che si divertiva ed era decisamente instancabile. Mentre canticchiava Jingle Bells o White Christmas, saliva e scendeva dallo scaletto per appendere i festoni al soffitto, correva avanti e indietro, da un angolo all’altro del locale, per sistemare ghirlande e ninnoli di ogni genere alle pareti, decorò un enorme albero e, alla fine, ancora piena di energia, si dedicò agli stencil dorati sui vetri e alle luci esterne.
Mamoru non aveva dimenticato che Usagi amava il Natale e, a giudicare dall’entusiasmo che ci mise a trasformare il Crown nella casa di Babbo Natale, dopo dieci anni non aveva perso quello spirito. Dopo tutto quel tempo, Usagi era ancora una ragazza allegra e piena di vita, al contrario di lui che, crescendo, si era spento.
Quel pensiero gli velò il volto di malinconia.
«Si è fatto tardi – esclamò, all’improvviso, rivolto a Motoki – Ora è meglio che vada».
Il ragazzo annuì con un cenno del capo.
«Stasera c’è una festa a casa di Rei, sei dei nostri?» aggiunse, mentre l’altro abbottonava il cappotto.
Mamoru rise brevemente.
«Rei Hino? Non credo che sarebbe tanto contenta di rivedermi».
Motoki gli rispose con un gesto vago della mano.
«È acqua passata – disse - Rei è sposata e ha appena avuto un bambino. Ha sempre parlato bene di te, quindi non vedo che problema potrebbe esserci. Anzi, secondo me sarebbe felice di rivederti. In ogni caso, le telefonerei per avvisarla».
Mamoru sembrò pensarci su un attimo. In effetti, non aveva voglia di trascorrere il sabato sera, da solo, nella vecchia villa dello zio Masao. Lanciò una breve occhiata verso Usagi, che era alle prese con un enorme fiocco rosso e, poi, prese la sua decisione.
«Ok, va bene. Avvisami, però, nel caso Rei dovesse urlarti contro o attaccarti il telefono in faccia» disse ricordando il caratteraccio della sua ex.
«Non lo farà» rispose Motoki con una certa convinzione.
Mamoru sorrise. Salutò il suo amico e la fidanzata, poi si voltò a guardare Usagi. Lei lo stava fissando, ma quando lui alzò una mano per salutarla, chinò immediatamente il capo sul fiocco rosso, ignorandolo, come aveva fatto tutto il pomeriggio. Il messaggio era chiaro, non voleva avere nulla a che fare con lui.
 
«Direi che abbiamo fatto un ottimo lavoro!» esclamò Usagi guardandosi intorno soddisfatta.
«Sì, è meraviglioso!» esclamò Makoto compiaciuta.
«Ora, però, io andrei».
«Non vuoi che ti prepari almeno una cioccolata calda per sdebitarmi?».
«Ci vorrà molto di più di una cioccolata per ripagare il mio lavoro! – la prese in giro Usagi – Ma per stasera, passo. Sono davvero molto stanca».
«Ok, allora vuol dire che avrai cioccolata calda gratis per una settimana intera – rispose Makoto sorridendo - Ci vediamo stasera da Rei».
Usagi trasalì.
«Non credo che ci sarò. Preferirei fare un bagno caldo e filare di corsa a letto» mentì.
In realtà, la ragazza non aveva alcuna intenzione di incontrare ancora Mamoru. Aveva udito chiaramente Motoki invitarlo e, alla fine, lui aveva accettato senza troppe remore.
Quando se l’era trovato davanti, in cima alle scalette dell’aereo, si era quasi sentita morire. Pensava di avere dimenticato il suo primo amore, ma a giudicare dal modo in cui aveva reagito il proprio cuore, mettendosi a battere forte fino a farle mancare il respiro, non era esattamente così.
Durante il volo, aveva fatto di tutto per evitarlo, al punto da passare per maleducata e incapace, e, appena aveva potuto, se l’era svignata in seconda classe.
Quel pomeriggio, era stato abbastanza facile far finta che non ci fosse. Prima lo aveva affrontato con arroganza, anche se il cuore e il respiro la stavano tradendo, e poi l’aveva stoicamente ignorato, distraendosi con le decorazioni natalizie. Però, di tanto in tanto, non aveva saputo resistere completamente alla tentazione di voltarsi verso di lui a spiarlo.
Ma adesso, passare un’intera serata in sua presenza sembrava un’impresa impossibile, senza trascurare il violento mal di testa che le era scoppiato al solo pensiero.
«Non puoi mancare! Rei ci resterà male!» protestò Makoto.
Usagi pensò allo sguardo infuriato di Rei e alla ramanzina che le sarebbe toccata. “Sei una pessima zia per il mio bambino!” le avrebbe sicuramente urlato con l’indice puntato contro. Quell’immagine la sconfortò a tal punto che, alla fine, non trovando altra soluzione, fu costretta a cedere.
«Va, bene, non mancherò» sbuffò.
 
Durante tutto il tragitto a piedi verso casa, Usagi era triste e non poteva fare a meno di pensare e rimuginare. A causa del ritorno improvviso di Mamoru, si era aperto un enorme baule di ricordi, che credeva sepolti in un angolo nascosto della sua testa, ma che, invece, continuavano a venire fuori l’uno dopo l’altro.
Ricordò con un misto di malinconia e dolcezza il loro primo incontro e tutto ciò che ne era seguito.
Era un giorno piovoso e lei, bagnata fradicia, correva per non arrivare tardi a scuola. Distratta come al solito, gli era letteralmente andata a sbattere contro.
«Attenta!» aveva esclamato lui irritato. Ma poi, dopo averla osservata da capo a piedi, le sue labbra si erano aperte nel sorriso più bello che lei avesse mai visto e, dopo, le aveva offerto un passaggio sotto al suo ombrello.
E, in quello stesso istante, Usagi si era innamorata. I suoi occhi blu, i suoi lineamenti perfetti, le fossette che si formavano sulle sue guance, tutto di lui le faceva pensare che fosse il ragazzo più bello del mondo.
Dopo, Usagi aveva preso a frequentare sempre più spesso il Crown, sapendo che lui passava lì con Motoki tutti i suoi pomeriggi, con la speranza che un giorno si accorgesse di lei in maniera diversa. Era così stupida e ingenua, che per un certo periodo, aveva preferito le battute sarcastiche e le prese in giro all’essere completamente ignorata.
Ma, quando si era fidanzato con Rei, il cuore di Usagi era andato in frantumi. Per rispetto verso la sua amica, non poteva nutrire più speranze nei confronti di Mamoru, ma i suoi sentimenti erano sempre lì e sempre più forti. Così si era sforzata di mascherarli, cominciando a rispondere a tono alle sue provocazioni. Litigi e battibecchi divennero all’ordine del giorno. Entrambi sembravano trarre energia da quelle discussioni e Usagi si sentiva viva. Quello era l’unico modo in cui poteva averlo solo per sé.
Poi, il breve fidanzamento con Rei era finito e in lei era nata di nuovo la speranza. Piano piano, lui aveva cambiato atteggiamento, sembrava più dolce e meno propenso a liti furibonde. Ma la tregua era durata poco. Subito dopo il diploma, Mamoru comunicò a tutti che sarebbe partito per gli Stati Uniti, dove avrebbe studiato medicina. Per la seconda volta il cuore di Usagi andò in mille pezzi, e, stavolta, niente l’avrebbe più guarito.
Ricordò quella sera nel bellissimo giardino della villa dello zio di Mamoru, quando in lacrime gli confessò che lo amava.
Che parole impegnative per una ragazzina immatura di appena sedici anni! Ma in quel momento lei ne era convinta e, dopo dieci anni, con l’esperienza, poteva confermare che quello che provava allora era davvero amore.
Mamoru non aveva risposto a quella dichiarazione inaspettata, ma le aveva preso il viso tra le mani, asciugandole le lacrime con i pollici. Pochi secondi dopo, Usagi si era ritrovata ad assaporare, per la prima e unica volta, le sue labbra e a ricevere il primo vero bacio d’amore. Fu un bacio dolce, tenero, senza la passione che caratterizza i rapporti più maturi, quella che Usagi avrebbe avuto modo di sperimentare, molto dopo, con altri ragazzi. Ma quel bacio non l’avrebbe mai dimenticato, perché aveva un retrogusto amaro, la consapevolezza che non ce ne sarebbero stati altri e che il suo amore per Mamoru finiva con esso.
In preda alla disperazione, si era allontanata da lui.
«Non ti dimenticherò mai» gli aveva detto prima di scappare via.
Quella era stata l’ultima volta che lo aveva visto.
 
La casa in cui Rei viveva con la sua famiglia faceva parte di un complesso residenziale di villette a schiera, poco distante dal centro.
Mamoru si fermò e sollevò la testa per osservarla meglio. Era molto graziosa e le lampadine colorate intermittenti, che ricordavano l’arrivo del Natale, la rendevano ancora più calda e familiare.
Dall’esterno, vedeva il salotto illuminato e sentiva le voci degli ospiti. Tra quelle, riconobbe subito la voce di Usagi, ma di certo non perché fosse la più alta e squillante. Quella voce si era insinuata nella sua mente e difficilmente avrebbe potuto confonderla.
Quando si decise a suonare il campanello, una giovane donna con un neonato in braccio venne ad aprirgli.
«Mamoru Chiba, sei cambiato!». Rei lo salutò con un sorriso caloroso, porgendogli una guancia per farsi baciare.
«Tu invece sei sempre uguale» rispose Mamoru, dandole un bacio affettuoso e utilizzando quel sorriso accattivante che era abituato a sfoderare con il gentil sesso.
Ma Rei ricambiò con il sorriso di chi la sapeva lunga e lo conosceva bene.
«I tuoi modi da adulatore sono sempre gli stessi, però. – lo rimproverò scherzosamente. Poi mostrandogli il bambino che aveva tra le braccia aggiunse – Lui è il mio piccolo Akira».
«Ciao Akira» disse Mamoru, sfiorando con un dito la manina del neonato, che dormiva placidamente.
«Vieni, - continuò Rei - gli altri sono già tutti qui. Così ti presento anche mio marito».
Mamoru entrò in un salotto caldo e accogliente, dove una ventina di persone chiacchieravano in gruppetti, seduti sul lungo divano di pelle o accanto al tavolo del buffet. Riconobbe, tra essi, alcuni volti, associandoli a quelli di adolescenti imberbi e ragazzine acerbe, che aveva conosciuto anni prima e gli sembrò di fare un tuffo nel passato. Strinse la mano a tutti, scambiando qualche piccola battuta e, alla fine, si presentò a Yuichiro, il marito di Rei.
Ma ciò che catturò maggiormente la sua attenzione, fu la figura alta e snella in piedi davanti al caminetto acceso. Usagi se ne stava lì in disparte, avvolta in un vestitino di lana verde che le sottolineava le morbide curve. Il fuoco alle sue spalle creava uno splendido gioco di luci e riflessi tra i capelli e a Mamoru sembrò ancora più bella.
Non si lasciò intimorire da quell’espressione cupa negli occhi azzurri della ragazza e camminò deciso verso di lei. Senza dire una parola, le prese il bicchiere che aveva in mano e fece un breve sorso di quella bevanda ignota, rimanendo con gli occhi incollati ai suoi.
«Buono, ma cos’è?» chiese, non curandosi dell’occhiataccia della ragazza.
Il gesto di Mamoru e quello sguardo, con il quale sembrava volesse penetrare nei meandri della sua mente, provocarono a Usagi una stretta al cuore. Odiava il modo in cui la stava guardando, perché la faceva sentire debole, e odiava la sicurezza che ostentava, perché sapeva che non sarebbe riuscita a resistere.
Non gli rispose ma, con un movimento brusco, si riprese il bicchiere, ignorando il liquido rosa che schizzò dappertutto.
«Dongiovanni da strapazzo! Vai a fare il seduttore con qualcun’altra, con me non attacca!» lo minacciò con aria severa, prima di voltargli le spalle per raggiungere un gruppo di amiche.
Mamoru trasalì. Usagi aveva frainteso, non voleva mica sedurla? O forse sì? Scosse la testa a quel pensiero. Aveva un mucchio di cose da fare durante quel mese e conquistare una donna non era certo tra quelle. Anche se quella donna stava stuzzicando i suoi pensieri da quando l’aveva incontrata.
«Non riuscite proprio ad andare d’accordo, vero?». La voce di Motoki alle sue spalle lo distolse dalle sue turbe mentali.
Mamoru si voltò e si strinse nelle spalle, come a dire che non gliene importava nulla di andare d’accordo con Usagi.
«Secondo me – aggiunse Motoki – siete fatti l’uno per l’altra. L’ho sempre pensato, ma, per un motivo o per un altro, il destino non vi ha aiutato».
A quelle parole, la birra che gli aveva portato l’amico gli andò di traverso e Mamoru cominciò a tossire.
«Ma cosa ti salta in mente?».
Motoki lo osservò meglio, sollevando un sopracciglio in una chiara espressione di disappunto.
«Vuol dire che mi sono sempre sbagliato?» chiese.
«Alla grande!» esclamò Mamoru.
Motoki era comunque dubbioso.
«Io non credo. Forse sei tu quello che non ha mai capito» aggiunse a bassa voce, piegandosi leggermente verso di lui, prima di dargli una pacca sulla spalla e allontanarsi alla ricerca di Makoto.
“Non ti sei sbagliato, amico!” ammise mentalmente Mamoru.
In realtà, Usagi gli era sempre piaciuta, fin da quando l’aveva incontrata la prima volta. L’immagine tenera di lei, bagnata come un pulcino, che correva sotto la pioggia, lo fece sorridere.
Però, aveva capito troppo tardi i propri sentimenti e lasciare Rei non era servito a nulla. Poco dopo, infatti, sarebbe partito per gli Stati Uniti e confessarle il proprio amore sarebbe stato un puro atto di egoismo. Eppure, quando lei, in lacrime, gli aveva detto di amarlo, aveva ceduto e l’aveva baciata.
Pensava di aver dimenticato quello che aveva provato a diciotto anni, ma evidentemente quelle emozioni erano così forti e vere, che alla prima opportunità erano venute fuori di prepotenza.
 
Usagi aveva appena finito di coccolare il piccolo Akira, prima che la mamma lo mettesse a dormire nella sua culletta. Si era fatto tardi e stava pensando seriamente di tornarsene a casa. Ora che il suo dovere di zia era compiuto, Rei non poteva rimproverarle niente. Sapeva dal principio che andare a quella cena era una pessima idea. La presenza di Mamoru l’aveva stressata e aveva passato tutta la serata a schivarlo come la peste. Aveva sentito il suo sguardo addosso, bollente come una lama infuocata e, purtroppo, lei non era riuscita a evitare qualche occhiata fugace. “Solo per studiare le sue mosse!” si era detta, mentendo spudoratamente a se stessa.
Abbandonò il piano superiore, dove si trovava la cameretta del piccolo, e scese verso il salotto. Mamoru era lì, ai piedi della scalinata, e sembrava attendere proprio lei.
«Che cosa vuoi?» chiese brusca, abbassando lo sguardo e continuando a scendere.
«Perché mi eviti? Voglio solo parlare con te, sapere cosa hai fatto in tutti questi anni».
«Non ti evito e non ho alcuna voglia di parlare con te!» esclamò la ragazza fermandosi sull’ultimo gradino, in modo da poter essere alla sua stessa altezza e fissarlo negli occhi per convincerlo del proprio disinteresse.
Mamoru restò un attimo in silenzio a studiarla.
«È per via di quello che è successo l’ultima volta che ci siamo visti?».
Usagi alzò gli occhi al cielo e sbuffò, ma soltanto per nascondergli quanto la sua supposizione fosse esatta.
«Sono passati dieci anni, me ne ero completamente dimenticata» mentì, e con decisione scansò il corpo di Mamoru per tornare dagli altri ospiti, dove si sarebbe sentita al sicuro.
Ma il ragazzo fu più rapido e l’afferrò per un braccio costringendola a voltarsi.
«Tu ci pensi ancora! – disse sicuro di sé – E ce l’hai con me perché, in tutto questo tempo, non mi sono mai fatto sentire».
Usagi si liberò dalla sua presa.
«Tu sei pazzo!» esclamò, nascondendo con un ghigno i suoi veri pensieri, per poi proseguire il percorso.
«Io credevo di averlo dimenticato – esclamò Mamoru ad alta voce – Ma da quando ti ho rivisto non faccio che pensarci e chiedermi come sarebbe andata tra noi, se non fossi mai partito».
La ragazza si bloccò all’istante, rimanendo ferma sotto l’arco che segnava l’ingresso del salotto. Mamoru la raggiunse in pochi lunghi passi.
«Esci con me, Usagi!».
Usagi sgranò gli occhi sorpresa da quell’invito inatteso.
“No, Usagi! Resterà solo un mese e poi tornerà a New York, lasciandoti di nuovo sola e ferita” ripeté mentalmente per cacciare la tentazione di accettare quella proposta.
«Mi dispiace, la tua richiesta suona come un ordine ed è … assurda, ecco!»
«Perché?».
«Perché non abbiamo niente di cui parlare io e te. E poi, tra un mese, tornerai a New York e io … ». Si fermò giusto in tempo, prima di rivelargli quanto ci fosse rimasta male la prima volta.
«E tu?» insistette Mamoru.
«E io … ehm … lavoro tanto. – proseguì la ragazza - Ho dei voli nazionali in questi giorni e starò via per un bel po’».
«Solo una volta!».
«No!».
La risposta di Usagi fu secca e categorica. Rimasero così, per qualche minuto, a guardarsi negli occhi, senza sapere cos’altro aggiungere.
«Siete sotto il vischio, siete sotto il vischio!».
Minako, l’amica bionda e svampita di Usagi e Rei, aveva gridato verso di loro.
Entrambi, ancora intontiti dalla strana discussione che stavano avendo, guardarono prima la ragazza e poi sollevarono lo sguardo verso quella ghirlanda di foglie verdi e bacche rosse, che giaceva sotto l’arco, proprio sopra le loro teste.
«Dovete rispettare la tradizione!» urlò ancora Minako, appoggiata dagli altri presenti, che erano zittiti improvvisamente per assistere a quella simpatica scenetta.
«Ma non è ancora Natale!» protestò Usagi, cercando l’appoggio di Mamoru.
Il ragazzo, invece, la guardò con un ghigno divertito, scrollando le spalle con noncuranza.
Fu un attimo e Usagi non capì più niente di quello che stava succedendo. Si sentì afferrare le spalle e in breve la bocca di Mamoru era sulla sua.
Quando si riprese dallo scossa iniziale, le loro labbra erano ancora incollate e la lingua di Mamoru l’accarezzava delicatamente, invitandola a schiudere la bocca. Il calore che le si irradiò lungo la schiena, le fece perdere completamente la testa. E, invece di ritrarsi, accettò quella dolce invasione e gettò le braccia al collo di Mamoru.
Quello non era il bacio dolce e tenero che si erano scambiati da ragazzini. Era un bacio travolgente e carico di passione, un bacio da adulti.
C’era qualcosa che era rimasto in sospeso tra loro, e che avevano messo da parte per tanto tempo. Qualunque cosa fosse si era risvegliato e, in quell’esatto momento, entrambi capirono che non avevano scampo e non sarebbe stato semplice rinunciarvi.
Furono i fischi degli ospiti e le acclamazioni divertite a riportarli sulla terraferma, dopo aver fatto un giro vorticoso tra le nuvole. Si staccarono rapidamente, rimanendo poi a fissarsi istupiditi, per secondi che durarono un’eternità.
Usagi si portò la mano alla bocca, che ancora bruciava, e arrossì vistosamente al pensiero che aveva baciato Mamoru in quel modo così appassionato, senza pudore e davanti a tutti.
Senza dire una sola parola, scappò via e, afferrando il suo cappotto al volo, lasciò l’appartamento di corsa.
Mamoru non la inseguì, ma restò fermo sotto quel ramo di vischio. Stava appena incominciando a guardare la propria vita da un’altra prospettiva.
  
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