Capitolo
II
Elizabeta
Héderváry
aveva conosciuto Flavia Vargas per puro caso.
Era
successo tre anni prima, quando aveva trovato lavoro come consulente
matrimoniale presso un’agenzia e si era potuta permettere l’affitto di un
appartamento dignitoso vicino alla scuola superiore che la più piccola
frequentava. Nei due anni precedenti l’ungherese, con una borsa di studio vinta
nel suo Paese, si era spostata tra Ungheria e Italia per seguire un corso
d’italiano, infatti questo le era servito molto. Era una giovane in gamba, che
si impegnava in ogni cosa che faceva.
Un
giorno, mentre passava dall’ingresso dell’istituto scolastico con le buste della
spesa in mano, dopo aver attraversato le strisce pedonali, aveva intravisto una
scena che l’aveva fatta indignare non poco.
Una
studentessa aveva subìto uno sgambetto da una sua compagna di scuola, e non
aveva reagito quando le altre avevano sghignazzato alle sue spalle per la caduta
improvvisa, come se a provocarla fosse stato un movimento goffo della stessa
ragazza.
Si
era subito sentita in dovere di intervenire in sua
difesa.
Avvicinandosi,
aveva imprecato nella sua lingua madre, dato che le veniva più naturale, con
l’intento di rimproverarle; probabilmente la colpevole del gesto l’aveva anche
presa per pazza, ma alla fine era riuscita a ottenere che chiedesse scusa a
Flavia, andandosene via poco dopo a capo chino.
L’italiana
l’aveva guardata con gratitudine e ammirazione, per poi dare sfogo alla sua
esuberante e tenera curiosità, parlando e facendo un sacco di domande. Allora
aveva indicato la sua scuola e aveva compreso che lì le insegnavano anche altre
lingue, e che quindi se aveva difficoltà a esprimersi in italiano potevano
provare con un’altra.
Elizabeta
aveva replicato cordialmente che no, era meglio se si abituava con
quella.
Fu
allora che le due divennero amiche.
Oh.
Se lo ricordava ancora come se fosse ieri.
Sostò
l’autovettura senza parcheggiare, in mezzo alla strada, vicino alle strisce a
pagamento.
“Siete
arrivati. Scendete qui, ci vediamo dopo”, li invitò Elizabeta. Proprio perché si
incontravano spesso, lei e Flavia, era venuta a sapere che la macchina di
famiglia, una vecchia Fiat 500, si
trovava momentaneamente dal meccanico per un guasto al motore. Quella mattina
aveva chiamato giusto per cortesia, per domandare alla signora Vargas se i figli
avessero avuto bisogno di un passaggio, il resto l’aveva scoperto
successivamente.
“Grazie!
Tu sei sempre così buona con me, Elisa. Sei sicura di non voler venire con noi?”
chiese gentilmente Flavia, slacciando la cintura di sicurezza, mentre Romano
apriva la portiera e scendeva per conto suo.
“No
cara, non serve. Io non faccio parte della famiglia, è giusto che vada via. Ho
una commissione da sbrigare, ma prometto che dopo le undici passo e mi
racconti”, la tranquillizzò, per poi darle un buffetto affettuoso sulla
guancia.
“Veh,
ci sto. Suona il clacson e io ti vedrò. Ciao ciao!” la salutò, sporgendosi per
darle un abbraccio veloce perché altrimenti l’altro avrebbe borbottato sul fatto
che si perdeva troppo in smancerie e convenevoli.
Quando
l’auto grigia dell’amica ripartì, si volse verso il fratello, scusandosi per
averlo fatto aspettare.
“La
prossima volta ricambiamo il favore, vero? Magari quando dovrà partire per le
ferie!” aggiunse, procedendo gaia verso quella che a suo parere era un’entrata
enorme, grigia e piena di cartelli con le indicazioni.
Romano
le camminò affianco senza rispondere, pensando che in fondo non gli importava
molto di favori e aeroporti. E più proseguivano all’interno dell’altissima
struttura, più trovò ironicamente spassoso il fatto di dover attendere
l’arrivo di qualcuno in un luogo simile. Se fino alle porte non trovarono anima
viva, più si avvicinavano al banco informazioni, più vedeva accalcarsi persone
di ogni tipo, tra italiani e stranieri, tra lavoratori e turisti, tra parenti e
amici. C’era un viavai fastidioso di gente, bisognava muoversi per forza a
zigzag. Esasperato, finì per prendere Flavia, che sorrideva a chiunque
incrociassero, dal polso e trascinarla con sé, per non perderla di vista, anche
se principalmente lo faceva per non dover fulminare con lo sguardo chi osasse
fissarla con insistenza.
Era
proprio dura, la vita del fratello maggiore.
I
due sostarono sotto il tabellone digitale degli orari, che elencava partenze e
arrivi dalle città d’Italia e del mondo.
“Da
Genova a Roma… È l’uscita numero quattro”, lesse Flavia dopo aver individuato le
informazioni che servivano per sapere dove esattamente
fermarsi.
Romano
stava fissando l’ora. Erano le undici meno venti del 30 settembre.
Sospirò.
“Andiamo
ad aspettarlo, allo-” si bloccò. Si stava rivolgendo a una vecchia suora che
passava di là giusto in quel frangente. Con quelle rughe marcate e quegli
occhialini gli fece impressione.
“Scusa?”.
“No,
niente. Ho sbagliato persona”, mormorò spaesato, guardandosi freneticamente
attorno.
Dove
sei?
Fortunatamente,
la sorella non era lontana, l’aveva intravista proprio mentre entrava in un
negozietto del posto.
“Ho
comprato il quotidiano di oggi e una rivista che parla di cucina. Così non ci
annoiamo!” affermò, porgendogli il giornale ripiegato e mostrando la copertina
colorata della sua, al centro vi era la foto di un bel piatto di
pasta.
“L’hai
presa per te o per la mamma? E comunque dovevi avvisarmi, maledizione! Mi è
quasi preso un colpo quando mi sono girato e non c’eri!” la biasimò, accettando
in modo brusco l’acquisto cartaceo.
Flavia
trasalì, indietreggiando di due passi.
“M-mi
dispiace, fratellone! Non era mia intenzione infastidirti, ti vedevo annoiato e
ho pensato…” si scusò: aveva l’espressione mortificata e il labbro inferiore che
tremolava un poco. Quella reazione intimorita lo fece pentire immediatamente di
essersela presa con lei.
Doveva
comprendere prima che la notizia improvvisa della visita non aveva colpito
soltanto lui. Ci mancava che lei si mettesse a piagnucolare a causa del suo
essere scontroso.
“No…
Dai, Fla’, non ti dispiacere. Veramente quello che dovrebbe chiedere scusa sono
io. Hai fatto bene”, le confessò, abbassando lo sguardo crucciato e
massaggiandosi la nuca con la mano libera.
“Veh,
non preoccuparti! Anzi, non parliamone più”, si sentì dire, prima che una mano
si appoggiasse, leggera e conciliante, sulla sua spalla.
*
“Eccolo!
È lui, vero?”.
Si
aggrappò emozionata e curiosa al suo braccio, indicando un gruppetto assortito
in avvicinamento.
“E
ti pareva…” sbuffò l’altro, senza sorprendersi più di tanto. “Tale padre, tale
figlio”.
Al centro della
calca di persone, circondato da quattro donne diverse e in apparenza carine,
frivole e civettuole, procedeva beato un ragazzo che da lontano poteva sembrare
la versione maschile di Flavia, con tanto di zainetto sulla
spalla.
“Diego, ciao!
Siamo qui, qui!” si sbracciò la sorellina, attirando inevitabilmente
l’attenzione su di sé, malgrado l’altro l’avesse avvertita, poco prima, di non
fare scenate simili in pubblico.
Romano assunse
la solita espressione imbronciata, tanto per cambiare, ripiegando il quotidiano
che stava leggendo per scacciare pensieri molesti.
Diego Vargas
ammiccò alla fanciulla vicina, indicando verso di loro e lasciando tutte e
quattro con una breve frase, probabilmente di scuse.
La cugina gli
andò incontro, abbracciandolo con fiducioso trasporto e venendo ricambiata con
altrettanto calore.
“Che piacere
rivederti, Flavia! Sbaglio o sei più femminile rispetto all’ultima volta?”
constatò gioviale il più piccolo dei tre, che evidentemente si era preso già di
confidenza.
“E invece tu ti
sei allungato, caro Diego, prima mi arrivavi più o meno… qui!” rincarò la dose
l’altra, staccandosi e ponendo la mano in orizzontale all’altezza del petto
formoso. Romano levò gli occhi al cielo e non riuscì più a trattenersi, a stare
in disparte.
“Credo che
rimetterò la colazione. Siete stucchevoli”, commentò
acidamente.
“Anche tu mi sei
mancato, Romi!” lo salutò.
Il cugino fece
per avvicinarsi con i suoi modi affabili, ma lui glielo
impedì.
“Ehi! Non
pensare che per questo ti abbraccerò anch’io, stupido Die’!” affermò, tirandosi
indietro.
“Neanche se ti
presento una delle mie nuove amiche?” replicò furbo, facendolo arrossire
vistosamente.
“Neanche per
sogno, non cederò ai tuoi ricatti, razza di dongiovanni!” sbottò, alzando la
voce e portando Flavia al riso.
“Diego, ma… ma
non hai anche una valigia con te?” si accorse lei con discreta perplessità,
mentre andavano insieme verso l’uscita dell’aeroporto romano.
“Oh. La valigia.
L’ho lasciata a mio padre: si trova a Roma da due giorni, non lo sapevate?” li
informò tranquillamente.
“Come?!”
domandarono in contemporanea Flavia e Romano, guardandolo
meravigliati.
“Non ne sapevo
nulla…” continuò lei a capo chino.
“Che bastardo”,
considerò l’altro, scuotendo il capo e l’ipotesi che l’uomo avesse qualcosa in
mente tornò ad affacciarsi prepotente dentro di lui.
“Beh… In tal
caso, che ne dite di andare alla sua ricerca, cari cugini?” propose Diego, gli
occhi verdi che brillavano alla prospettiva allettante di non andare subito a
chiudersi in casa.
“Mi piacciono le
ricerche. Magari…” approvò Flavia, intrecciando le dita dietro la
schiena.
“Eh?! Che caspita
ti sei fumato oggi? Cercare qualcuno a Roma è come andare a scovare un ago in un
pagliaio. È grandissima!” s’innervosì, corrugando la fronte. “E tu zitta e non
dargli corda”.
“Ma-”.
“Non starlo a
sentire. Da dove cominciamo?” lo ignorò Diego, con un cenno di noncuranza.
Romano
boccheggiò, lievemente offeso.
“Veh… Fammi
pensare…” si concentrò attentamente, la mano sul mento e il gomito appoggiato
all’altro braccio, finché non le venne l’illuminazione.
Esclamò gioiosa:
“Partiamo dalla Fontana di Trevi, è bellissima! Io conosco persino la storia, te
la racconterò volentieri, se vuoi!”.
Il quindicenne
accolse la sua opzione con un grande sorriso, mentre Romano sentì il forte
impulso di menare la testa contro il muro. O la propria o quella dell’altro, era
uguale.
Il cuginetto e
la sorellina si erano alleati contro di lui, pensò, seguendoli controvoglia
mentre confabulavano tra loro, d’altronde non poteva permettere che Flavia
girasse Roma da sola, in compagnia di una mente aperta ai piaceri della vita
come quella di Diego.
E poi, rifletté,
conoscendo lo zio, perché non avevano ancora considerato il Colosseo?
Mah.
“Sarà una lunga giornata, me lo sento. Che palle”.
Intanto si erano
già fatte le undici e mezza.
Continua…
***
Note: Non mi sento
bene oggi =.= e siccome non avevo testa per revisionare l’ultima sequenza di
questo capitolo, l’ho spostata nel prossimo, che come avrete capito sarà
dedicato all’inizio del giro turistico e sarà più incentrato sull’altro
protagonista, cioè Seborga xD qui l’ho soltanto introdotto e l’ho fatto
conversare un po’ con i suoi cugini, spero di non aver sbagliato con la sua
caratterizzazione <.<
Ringrazio
chiunque abbia letto e commentato (risponderò domani ai vostri pareri, sorry
^^’) e vi do appuntamento al 6
gennaio!
Rina