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Autore: Dustbunny13_traduzioni    29/12/2013    2 recensioni
"Il suo palazzo mentale era in rovine: un incendio lo aveva raso al suolo, bruciando i ricordi e polverizzando le memorie, riducendo i momenti recenti in cenere, e rendendo quelli più vecchi irriconoscibili – reminiscenze carbonizzate che non sarebbero mai più tornate, lasciandolo ad arrovellarsi su ciò che erano state."
Post-Reichenbach.
E' la traduzione di una fic inglese che ho davvero adorato. Spero farete lo stesso!
Genere: Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Quasi tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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ANGOLO DELLA TRADUTTRICE: Hola! Sono Lena :) Che dire? Sono emozionata, è la mia prima traduzione! L'ho rivista e corretta un centinaio di volte, ma se ci sono errori ovviamente sono pronta a qualsiasi annotazione. Pubblicherò un capitolo a settimana, probablilmente ogni venerdì/sabato. La fic originale è molto lunga (44 capitoli), e io per adesso ho tradotto fino al tredicesimo, perciò spero che non ci saranno ritardi.
Ecco il link della fic inglese:
https://www.fanfiction.net/s/9730540/1/Firestorm
Spero che vi piaccia!
Lena


Prologo

Il silenzio prima della tempesta

 

 

Stava per morire.

 

Si era svegliato con quel pensiero in testa. Eccolo lì, chiaro, senza ombra di dubbio: l'aveva destato dal suo sonno inconstante, spaventandolo, come se qualcuno gliel'avesse sussurrato nell'orecchio. Non era una supposizione; se lo fosse stata, l'avrebbe scacciata dai suoi pensieri. Sherlock credeva nei fatti, non nei presentimenti, ed era in grado di distinguere la dura verità dalla paura irrazionale resa confusa dal suo subconscio dominato dai sentimenti. Questo era un fatto.

 

Sapeva che sarebbe successo quel giorno.

 

La sua mente gli suggerì che aveva tralasciato qualcosa – c'era sempre qualche particolare che gli sfuggiva.

 

Si mise a sedere lentamente, cercando di capire dove si trovasse. Non a Baker Street, ma in un anonimo appartamento londinese che gli garantiva la privacy che cercava. Si era rifiutato di stare a casa di Mycroft.

 

Districò le gambe dalle coperte e si alzò con attenzione, facendo un rapido controllo del proprio stato fisico. Ignorò la cacofonia di dolori provocati dai lividi, ma si rese conto che il suo petto freddo era senza dubbio indice di una polmonite; non sarebbe riuscito ad evitare di farsi visitare da un dottore ancora per molto. A meno che, ovviamente, la sua predizione non fosse stata corretta e non fosse davvero morto quel giorno, il che avrebbe reso del tutto superflua qualsiasi cura.

 

Quindi, niente fretta.

 

Comunque, non aveva tempo per star male: c'era un assassino da catturare. E non solo.

 

Normalmente, questa prospettiva lo avrebbe riempito di abbastanza energia da lavorare incessantemente per giorni, senza dormire, mangiando a malapena, senza quasi registrare nulla non correlato al caso nella sua mente frenetica. Ma non ora. Ora molte cose erano cambiate. E non in meglio. Adesso aveva bisogno di dormire di più, ma era tormentato dagli incubi che lo lasciavano ancora più esausto di prima; cercava di mangiare regolarmente per far felice John, ma ogni cibo sembrava polvere e il suo stomaco ne risentiva. Manteneva la sua routine di igiene personale, ma gli costava in grande sforzo e gli sembrava senza senso. Faceva tutto questo per evitare che John si preoccupasse troppo, ma ciò voleva dire che il dottore era convinto che Sherlock sarebbe stato bene anche da solo.

 

Da solo.

 

La solitudine non lo proteggeva più; anzi, era diventata la sua più grande nemica. Tutto quello che aveva fatto in passato era derivato da una sola motivazione: proteggere i suoi amici. Com'era riuscito a diventare così dipendente dalle altre persone? I sentimenti si erano intrufolati nel suo cuore, e ora non poteva più vivere senza l'affetto e l'attenzione e il calore e tutte quelle banali emozioni umane.

 

I fatti erano questi: non voleva più vivere così. Voleva che John fosse lì con lui – o almeno per lui. Ma adesso John era sposato, ed era tutta colpa di Sherlock, perchè era stato lui a lasciarlo per primo, e ci aveva messo troppo a ritornare, e così nel frattempo una donna aveva riconosciuto il vero valore di John e l'aveva legato a sé per l'eternità, mentre Sherlock era in giro a dare la caccia ai nemici. Intelligente, la ragazza.

 

Era molto peggio, a essere sinceri. Mary Morstan non era solo sveglia, era incredibilmente intelligente, spaventosamente buona e infinitamente generosa. Ma la cosa peggiore era che aveva salvato John Watson. A modo suo, era riuscita in quello che Sherlock aveva sempre cercato di fare – solo che non si era gettata da un palazzo, ma aveva sorriso, l'aveva baciato e gli aveva fatto intravedere una promessa di felicità. Sherlock avrebbe potuto farlo – certo che si. Ma era stato troppo impegnato nei suoi giochetti con Moriarty, con il risultato di aver distrutto le loro vite. Se Mary non fosse arrivata per salvare John dalla sua miseria, il dottore sarebbe scivolato nella depressione, e Sherlock sapeva di doverle essere riconoscente per questo.

 

Lo era stato. Per mezzo secondo. Ma poi era stato sopraffatto dal risentimento. Lei era perfetta per John, cosa che lui non sarebbe mai stato: l'aveva reso felice, gli aveva dato sicurezza, si era presa cura di lui – e soprattutto gli aveva dato qualcosa che lui non avrebbe mai potuto garantirgli. Una famiglia. Dei bambini, magari. Amore, sesso e la prospettiva di invecchiare insieme. Si rendeva conto che questo superava di gran lunga catturare assassini e dare la caccia a pazzi psicopatici.

 

A suo tempo, quando seppe di Mary per la prima volta, mentre era ancora in fuga, con la sua sanità mentale che si stava rapidamente deteriorando, aveva anche considerato l'ipotesi di non ritornare affatto, di lasciare semplicemente John in pace con il suo po' di felicità, sapendolo sereno e al sicuro. Ma poi aveva visto che le ferite di John non si erano ancora richiuse, che sarebbe stato segnato per sempre da quel terribile giorno, e che si stava logorando con la stupida convinzione di essere in qualche modo responsabile per il suo suicidio. Poteva anche non darlo a vedere ora – era così innamorato che sorrideva beatamente anche di fronte alle peggiori notizie alla televisione – ma un giorno la maschera sarebbe caduta. Conosceva John. E conosceva sé stesso: voleva che John tornasse nella sua vita, e se non fosse riuscito ad averlo, allora non voleva nemmeno la vita. Era egoista ma non gli importava, aveva conosciuto il dottore ben prima di Mary. E lei doveva fargli spazio.

 

Ed ecco il punto cruciale: lei voleva farlo. Era tutta colpa sua – lui era il problema.

 

Sospirando, Sherlock si trascinò fino alla piccola cucina. Mise su l'acqua per il tè (le dosi erano per due, ma l'avrebbe bevuto da solo), e si costrinse a concentrarsi su un problema alla volta – il dettaglio nascosto che gli sfuggiva, che gli urlava pericolo da un angolo remoto della sua mente.

 

Avevano preparato un'elaborata trappola per prendere Moran, e in poche ore avrebbe incontrato John, Mycroft e un'intero commando di forze speciali arruolate apposta per catturare il braccio destro di Moriarty. Ma quel dettaglio continuava a sfuggirgli, sommerso dalla marea di emozioni che turbavano la sua mente razionale. Si sentiva costretto ad analizzarle – grazie, John, è tutta colpa tua, stavo meglio quando non m'importava nulla di niente e di nessuno!

 

Si rese conto con allarmante chiarezza che non era davvero risentito nei confronti di John, Mary, Mycroft o chiunque altro – eccetto forse per sé stesso. Quello che sentiva davvero era pura e semplice disperazione. Il risentimento sarebbe stato meglio, gli avrebbe dato energia, l'avrebbe reso impavido facendolo gettare a capofitto nell'azione, ma non era altro che un guscio vuoto. Immobile, come congelato nel dolore. Patetico.

 

Moriarty stava cantando vittoria dalla tomba.

 

Distruggere la rete di Moriarty e assicurare la sicurezza dei suoi amici gli aveva lasciato ferite più profonde di quanto potesse immaginare. Si stava perdendo nell'oscurità strisciante che lo circondava, e non trovava la forza, né voleva trovarla, per combatterla, stando in disparte a guardare mentre la sua anima si disfaceva fino a morire nel silenzio e nell'inattività, senza riuscire a parlare con John, a spiegare, a fargli capire ciò che provava.

 

Se si fosse sforzato di più, se magari avesse parlato con Mary – non era una stupida, sapeva quello di cui John, e forse anche Sherlock, aveva bisogno... Ma l'oscurità lo stava trascinando verso il fondo, sovrastandolo, e anche la più semplice delle attività era diventata un sforzo di cui non riusciva a capire il senso.

 

Arricciò le labbra con disgusto: depressione. Naturalmente il suo malessere aveva un nome, un'etichetta, un modo per assegnare ad una categoria il suo stato mentale, ridimensionando la sua personale apocalisse in un banale disturbo di cui soffrivano milioni di persone, come un'influenza.

 

Ma era mille volte peggio. Il suo palazzo mentale era in rovine: un incendio lo aveva raso al suolo, bruciando i ricordi e polverizzando le memorie, riducendo i momenti recenti in cenere, e rendendo quelli più vecchi irriconoscibili – reminiscenze carbonizzate che non sarebbero mai più tornate, lasciandolo ad arrovellarsi su ciò che erano state.

 

Aveva perso la memoria. Molte parti mancavano, oppure erano state messe sottosopra e ridotte in brandelli, tormentandolo – lo schernivano ogni notte, proprio lui, il maestro della deduzione, reso storpio dalla sua inabilità nel ricostruire gli eventi dopo la sua cattura, senza riuscire a dare un senso alla sua memoria danneggiata.

 

Lo avevano preso, e non avevano fatto altro che distruggergli la mente.

 

C'era un modo per uscire da quest'incubo, però: se avesse avuto dei fatti, avrebbe potuto colmare le lacune nel suo passato. Sapeva che la conoscenza e la fredda logica non avrebbero fatto scomparire il terrore, ma gli avrebbero dato la possibilità di razionalizzarlo e trasformarlo in qualcosa che era in grado di affrontare. Ma gli incubi, il senso di colpa, la devastazione che aveva sentito fin dal suo ritorno lo stavano soffocando.

 

Mycroft continuava a fargli pressione, spingendolo ad andare in un ospedale psichiatrico, ma non l'avrebbe mai fatto. Quello che gli serviva davvero era il suo maledetto telefono. Il telefono, non un ospedale.

 

Più precisamente, gli serviva il diario che aveva tenuto su di esso. Ovviamente, le note terminavano al momento della cattura, ma non importava – gli incubi gli davano sufficienti informazioni su quel periodo. La logica avrebbe facilmente riempito gli spazi vuoti. Anche Mycroft, naturalmente, voleva il telefono – i dati racchiusi al suo interno erano molto delicati, e qualsiasi agente segreto avrebbe fatto i salti mortali per averli. Ma lui, Sherlock, era interessato solo al diario. Non c'erano solo scritti gli eventi dello iato, ma anche i suoi pensieri, le sue paure e le sue speranze e – si costrinse a pensare con brutale sincerità – li aveva scritti per John. Nel caso non fosse mai tornato a casa.

 

Ovviamente, non aveva preso in considerazione l'idea di tornare a casa, ma con la mente in brandelli.

 

Aveva bisogno di quel cellulare. Disperatamente. Era l'unico modo per rintracciare i suoi ricordi, ma, soprattutto, era l'unico modo per cercare di far capire tutto a John.

 

Magari era comunque perduto. A volte desiderava che il suo nemico fosse riuscito ad ucciderlo, rendendolo un eroe agli occhi di John. Se fosse morto, al dottore sarebbe stata raccontata la verità sul suo falso suicidio. Mycroft gliel'aveva giurato – non avrebbe permesso che fosse lasciato con la convinzione che Sherlock si fosse suicidato e lui non fosse riuscito a impedirlo. Quindi, il suicidio non era un'opzione: aveva visto che effetto aveva avuto su John.

 

Ma voleva essere morto.

 

Sarebbe potuto morire quel giorno.

 

Strano come un semplice pensiero ti possa dare energia.

 

Il bollitore fischiò.

 

Sherlock versò l'acqua bollente sopra le foglie di tè e le guardò mentre si frantumavano e iniziavano a volteggiare, distendendosi poi velocemente e riprendendo la loro forma originaria.

 

Sorrise. Quel giorno tutto sarebbe cambiato.

 

Bevve il suo tè, assaporando il sapore e la fragranza, crogiolandosi nell'illusione del calore e della beatitudine domestica: la tazza fumante nella luce mattutina, il latte che schiariva il liquido ramato... ma non era Baker Street. Non era casa.

 

Sherlock poggiò la tazza. Basta con i sentimenti; il suo tempo stava scadendo. Andò in bagno per prepararsi per la giornata.

 

Doccia, barba, vestiti.

 

Cappotto, sciarpa, e pistola.

 

Era pronto.

 

Si guardò allo specchio – il suo volto non sembrava così diverso, no? Le rughe erano leggermente più profonde, i lineamenti più definiti, le spalle più ampie. Un piccolo livido sotto l'occhio sinistro, che presto sarebbe scomparso. Sapeva però che c'era un'importante differenza: il suo sguardo guardingo. L'arroganza c'era ancora, così come quel po' di noia e l'acuta intelligenza dei suoi occhi vigili, ma la curiosità era stata rimpiazzata dal sospetto, l'audacia dalla cautela.

 

Cambiamenti lievi. La maggior parte delle persone aveva notato solo che era un po' invecchiato, i suoi capelli erano più corti e il suo corpo era – sorprendentemente – più forte. Ma John aveva visto molto di più. Il dottore poteva non avere lo sguardo più acuto del mondo davanti ai fatti e alle prove, ma era un infallibile segugio quando si parlava delle emozioni di Sherlock.

 

Non voleva vederlo.

 

Sherlock sogghignò cinicamente di fronte al proprio riflesso. Che ironia del destino: per tre anni, tutto ciò che aveva desiderato era stato rivedere il suo amico. Ma John era ancora un suo amico? Dopo quello che Sherlock aveva fatto – fermò quel pensiero immediatamente, ma anche solo sfiorare quel ricordo lo aveva fatto trasalire.

 

Inutile. Sherlock girò le spalle allo specchio. Era tempo di andare.

 

Una macchina nera lo stava aspettando, grazie a Mycroft. Entrò nell'auto senza degnare di uno sguardo l'autista. Schiacciandosi contro la portiera, tirò fuori il suo telefono e iniziò a scrivere. Il cellulare era nuovo, un regalo di Mycroft, proprio come la replica perfetta del suo amato Belstaff, il suo modo per dire bentornato a casa. Solo che non si sentiva a casa. Ancora una volta, inutile.

 

Si lasciò trasportare attraverso Londra, fino al luogo dove tutto era iniziato: l'aula di un tribunale all'Old Bailey.

 

Doveva al mondo una resurrezione.

 

Narcisi

 

John imprecò.

 

Si era versato il caffè troppo frettolosamente, facendo cadere il liquido bollente dalla tazza sulla sua mano, bruciandosi la pelle e inzuppando completamente la tovaglia. Stava cercando furiosamente di riemediare a quel casino, con l'unico risultato di far cadere il vaso di cristallo con i narcisi, bagnando il tavolo.

 

“Cazzo!” ringhiò, dando una manata al vaso, che sbriciolò i fiori e macchiò di polline giallo la tovaglia bianca. “Merda”, sibilò, litigando con i narcisi e chiazzando il tessuto con altra acqua, polline e linfa. “Fantastico, verde, giallo, che casino.”

 

“Basta, John.” Mary sfiorò con un tocco delicato le spalle del dottore. “Va tutto bene. Non ti preoccupare”

 

“Mary, mi dispiace, sono così maldestro oggi, non so che cosa – Gesù, se penso che sono un chirurgo e non riesco nemmeno a versarmi una tazza di caffè senza causare una catastrofe...”

 

“Sei nervoso, John, ecco tutto. La maggior parte delle persone non è troppo contenta di andare a incontrare un assassino.” disse, inarcando un sopracciglio.

 

John sospirò. “Ero un soldato, Mary, andare in battaglia era una cosa normale. Non è questo quello che mi sta mandando fuori di testa.”

 

“Allora che cos'è?” chiese dolcemente, intrecciando le dita della sua mano delicata con quella del marito, trasmettendogli una sensazione di calore che lo calmò. John chiuse gli occhi, in guerra con sé stesso, e sentì Mary toccargli il viso.

 

“E' Sherlock, non è vero? Incontrarlo ti rende più nervoso che dare la caccia a Moran.”

 

John sbuffò. “Già.” La guardò, osservando il suo corpo avvolto in una vestaglia color malva: era di mezza testa più alta di lui, anche a piedi nudi. I riccioli scuri le ricadevano sulla schiena, la sua pelle chiara era punteggiata di lentiggini, e i suoi occhi erano i più caldi che avesse mai visto. Non riusciva ancora a capacitarsi di come una donna così bella, fiera e intelligente si fosse potuta innamorare di un uomo ordinario come lui, ma lei l'aveva inseguito con una determinazione e testardaggine che gli ricordavano di Sherlock.

 

Si rese conto che molte cose di Mary gli ricordavano Sherlock.

 

“E' tutto l'insieme, immagino, tornare in tribunale, ascoltare di nuovo il caso, cercare di provare l'innocenza di Sherlock e poi mettere in scena la sua resurrezione. Sarà un inferno, quel giorno. La stampa ci farà a pezzi. E poi c'è questa cosa tra di noi... Questo silenzio.” sospirò profondamente. “Non so più chi sia Sherlock.”

 

“Andrà tutto bene, John, ne usciremo, in qualche modo, quando questa pazzia sarà finita.”

 

“Come?” gemette il dottore, senza aspettarsi una risposta.

 

“Non lo so,” rispose Mary, alzando il sopracciglio. “Non penso che la terapia di coppia sia la cosa migliore per voi due,” ridacchiò, “ci vuole qualcosa sopra le righe. Ci dev'essere un modo per risaldare quest'amicizia.”

 

“Non credo”, mugolò John. “Non mi parla nemmeno, sta solo lì a fissarmi – Dio, mi fa paura! E tutta questa cosa di non permettere a nessuno di toccarlo, cioè lui non è mai stato un tipo da abbracci, ma questo – questo mi terrorizza, cavolo!”

 

“Sai di che cosa si tratta, John”, disse Mary dolcemente, “lo sapete tutti. Sapete esattamente che cosa gli sta succedendo.”

 

“Si. Disturbo da stress post-traumatico. Come da manuale. Ma come aiutarlo è un altro paio di maniche. Non penso che riusciremo a convincere Sherlock ad andare in terapia.” scoppiò in una risata amara al solo pensiero. “Non oso immaginare chi ne uscirebbe più sconvolto.”

 

Mary fece un sorriso obliquo. “Ha bisogno di te, John.”

 

“Non sono sicuro che lui la veda così.”

 

“Invece si.”

 

“Beh, allora ha un modo molto strano di farmelo capire.”

 

“D'altronde non mi sembra quel che si dice un uomo ordinario, giusto?”. Sorrise con fare rassicurante e gli accarezzò il dorso della mano con il pollice, calmandolo in silenzio.

 

“No, Sherlock decisamente non è ordinario”, sospirò. Aggrottando le ciglia, alzò un lembo dello scialle che Mary portava attorno al collo. Sapeva cosa nascondeva. Mary gli spostò dolcemente la mano. “Sto bene, John.”

 

John provò a dire qualcosa, ma dalla sua bocca non uscì nessun suono.

 

“Cosa c'è?” chiese Mary.

 

“Niente. E' solo... solo... come puoi perdonare così facilmente? Come? Mi sento un tale stronzo quando – ”

 

“E' facile, John.” Sorrise maliziosamente. “Posso perdonare a Sherlock praticamente tutto, per una semplice ragione: se non fosse stato per lui, non avrei avuto te.” Il suo sorriso scomparve. “Non saresti vivo e non ti avrei conosciuto. E se lui non ti avesse lasciato, non mi sarei mai avvicinata a te. Quindi, niente Sherlock, niente John per me. Se lui possa perdonare me per averti portato via è un'altra domanda.”

 

“Come se avesse qualche motivo per lamentarsi.” brontolò John.

 

“John”, Mary gli diede un lieve pizzicotto sul petto, “lascia stare per ora, va bene? Devi concentrarti. Solo – solo non ti fare male, okay?”

 

“Certo, certo. Starò attento”, promise John.

 

“No, non è vero”, sogghignò. “Resta vivo, almeno. Affare fatto?”

 

“Si.” La strinse in un abbraccio e nascose il viso nella sua spalla, inalando il suo profumo. “Hhm, hai un odore così buono.”

 

Lei rise. “Beh, è un profumo da cento sterline, metti pure che non sia buono!”

 

“La tua pelle ha un odore meraviglioso anche senza profumo”, mormorò John, baciandola sul collo.

 

Lei ridacchiò. “Già, sono stata proprio fortunata a riceverne uno ridicolmente caro da quel tipo ricchissimo come ricompensa per i miei sforzi, quando invece tutto quello che volevo era una donazione per la biblioteca dell'università.”

 

“Devo ammettere”, sussurrò John, esplorando con le labbra il punto del suo collo dove la fragranza era più intensa, “che quel tipo ricchissimo ha proprio un ottimo gusto e la biblioteca è l'ultimo dei miei pensieri, adesso.”

 

Mary lo baciò di rimando. “Meglio così, perchè adesso anche tu hai il mio stesso profumo,” disse, facendo una risatina. “Un po' femminile per un dottore militare, non trovi?” Le sue dita affondarono lentamente nei suoi capelli.

 

“Non mi interessa”, mugolò John. “Mi ricorda di te.” La strinse più forte, e si stava giusto iniziando a domandare se c'era il tempo per dei baci seri e forse qualcosa di più, quando sentì il clacson di una macchina. Un momento dopo, il campanello suonò: gli scagnozzi di Mycroft erano arrivati per portarlo all'Old Bailey e assistere alla resurrezione di Sherlock. Sospirò e Mary si liberò dall'abbraccio; lui la lasciò andare riluttante, baciandola velocemente sulla punta del naso. Lei fece un sorriso e si riavvicinò, baciandolo come si deve sulla bocca.

 

“Ora,” sorrise mentre lo accompagnava alla porta, “vai a fare il miracolo, dottore. Fai risvegliare quell'uomo dalla morte.”

 

John sorrise mestamente di rimando, e il campanello suonò ancora, decisamente impaziente questa volta.

 

Fece un cenno del capo all'uomo vestito di nero che lo aspettava sulla porta. “'Giorno.”

 

“Buon giorno, signore”, rispose quello, e gli aprì la portiera della macchina che lo aspettava, desideroso di portarlo via dalla linea di fuoco. John alzò le sopracciglia ed entrò. Si sentiva protetto - Mycroft aveva trasformato quella deliziosa stradina di Kensington in una fortezza, nonostante l'illusione di tranquillità con le sue aiuole fiorite, le persiane francesi, le pareti stuccate e i lampioni colorati. Non c'era nessun pericolo ora; Sherlock aveva escogitato un piano, e conosceva Moran meglio di chiunque altro – sapeva come pensava quell'uomo. Con Sherlock come mente e Mycroft come braccio, non c'era nessuna possibilità per Moran di batterli.

 

John si sedette tranquillamente e tirò fuori il cellulare. Sospirò: nessun messaggio da Sherlock. Normalmente, avrebbe ricevuto almeno cinque messaggi, sempre più impazienti, culminanti in qualche fantasioso insulto. Ora non c'era altro che silenzio. Mise via il telefono e guardò nel finestrino, fissando il proprio riflesso.

 

Questi tre anni avevano lasciato il segno, nonostante la recente felicità con Mary. I suoi capelli erano quasi del tutto grigi ora, le rughe sul volto erano più profonde, scavate non dalle risate ma dal dolore. Mary l'aveva salvato tanto quanto Sherlock; e se solo fosse riuscito a convincere Sherlock ad accettare il suo aiuto, allora forse sarebbero riusciti a rimarginare le ferite della loro amicizia. Dio, quanto gli mancava quell'arrogante figlio di puttana – lo Sherlock malinconico che aveva incontrato una settimana prima lo spaventava. C'era una silenziosa aurea di minaccia che lo circondava, e sembrava che Sherlock si fosse chiuso in sé stesso, escludendo tutti gli altri. John voleva disperatamente attraversare questa barriera invisibile, ma se la sua mente grandiosa e testarda non voleva cambiare idea, nessuno sarebbe mai riuscito a costringerlo. Presto, una montagna sarebbe crollata.

 

Sospirando, si pizzicò tra le sopracciglia per far diminuire il mal di testa da nervosismo. Com'era possibile che tutto fosse andato così terribilmente male? Perchè?

 

I suoi pensieri scivolarono al fatidico giorno del ritorno di Sherlock. Il giorno che sarebbe dovuto essere il più felice della sua vita. Invece, il miracolo si era trasformato in un incubo.

  
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