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Autore: Easily Forgotten Love    23/05/2008    1 recensioni
Sia chiaro da subito che non sogno di fare il musicista rock. Non mi ha mai interessato davvero seguire le orme di mio padre, anzi. Avevo, credo, quattro anni quando per la prima volta sono entrato nel salotto di casa, dove mia madre stava prendendo il the con un gruppo di amiche, ed ho annunciato a tutti che da grande avrei fatto il medico.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio
Note: Alternate Universe (AU) | Avvertimenti: nessuno
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A riprova che la distinzione fanfiction / originali non regge, ce ne usciamo con un’opera che è difficilmente classificabile nell’una o nell’altra categoria.
Perché è una fanfiction, in quanto comunque ispirata a personaggi realmente esistenti che ruotano attorno ai Placebo, ma nella pratica dei fatti è tragicamente una originale a tutti gli effetti.
Speriamo possa piacervi e vi auguriamo buona lettura, premettendo i soliti avvertimenti dovuti: i pg di questa storia non ci appartengono (fatto salvo per quelli palesemente inventati), non c’è alcuno scopo di lucro, non s’intende offendere nessuno né tanto meno dare una rappresentazione veritiera della realtà.
 
 
"My Father's Eyes"
 
Penso che il mio primo giudizio su Cody Molko fu dettato dallo stupore che mi suscitò lo scoprire che era tutto meno che un ragazzino viziato.
Il punto è che, mentre lo osservavo da lontano chiedendomi che tipo fosse, m’immaginavo un ragazzo ricco, bello, in gamba e quindi – quasi quale conseguenza naturale – snob, superficiale e vagamente pretenzioso.
Sul serio, credo che passai le prime due settimane di vita nella nuova scuola a studiarlo a distanza di sicurezza ed a vedere le mie idee su di lui crollare una dopo l’altra come un grazioso castello di carte.
E tuttavia, sebbene dopo quelle due settimane mi fosse ormai chiaro che Cody era esattamente come tutti gli altri ragazzini di quattordici anni esistenti nel mondo, quando quella mattina lo vidi sedere da solo a leggere in un angolo del cortile, le cuffie di un lettore mp3 nelle orecchie, ancora non avevo idea di chi lui fosse.
Per cui fu con il cuore in gola che batteva a mille ed un presagio di disastro imminente che mi decisi alla fine a scendere a patti con il mio terribile interesse nei suoi confronti e mi avvicinai cautamente per tentare di…
“…oddio…Fare cosa, Luke?!”
Mi fermai di botto. Praticamente a due passi da lui. Ed inevitabilmente questo attirò la sua attenzione e lo indusse ad alzare gli occhi dal libro tra le mani.
Gli occhi di Cody…
Il loro colore fu la prima cosa di cui ebbi piena percezione il giorno in cui entrai in classe e l’insegnante di letteratura mi presentò ufficialmente ai miei nuovi compagni. Cody era seduto in prima fila, parlava con una ragazza che era dietro di lui ed io ho conservato un’immagine quanto mai precisa delle sue spalle strette nella giacca scura e della schiena coperta dai lunghi capelli neri. Sentì la voce del professore annunciare la mia presenza e si voltò.
Gli occhi di Cody sono azzurri. O verdi. O grigi.
O di qualunque altro assurdo colore che decidano di prendere in base al suo umore, alla luce nel suo sorriso, all’inclinazione del volto, al socchiudersi delle palpebre sull’iride. Gli occhi di Cody sono una delle cose più belle che siano mai state create nell’Universo.
Penso che non potesse andare diversamente da come andò. Semplicemente lui mi guardò, io lo guardai e smisi all’improvviso di fluttuare nel limbo d’insoddisfazione che l’ennesimo trasferimento di mio padre aveva portato con sé. Smisi di fluttuare anche nel torpore infastidito in cui mi ero chiuso dal mio arrivo in quella città.
E persi la testa.
Innamorato.
Completamente, totalmente, stupidamente. Assurdamente.
-Chi è?- fu la domanda che rivolsi al mio compagno di banco.
Lui mi scrutò un secondo e poi si voltò nella direzione che indicavo, Cody parlava di nuovo con la stessa ragazza. E rideva. Il mio compagno inarcò le sopracciglia.
-Cody Molko.- rispose rapido, riprendendo subito a scrivere frettolosi appunti su quanto il professore stava spiegando.
-…Mol…Molko?- ripetei senza capire.
Il ragazzino sogghignò divertito.
-Sì.- mi disse gettandomi un’occhiata piena di compassione.- Sai, come suo padre, il cantante dei Placebo.- mi prese in giro.
Il mondo mi crollò addosso l’istante dopo aver ripreso il proprio corso ordinario. Capii in meno di un momento che le probabilità di riuscire anche solo ad avvicinarmi a Cody erano pari a zero. E capii il momento successivo che guardarlo da lontano non mi sarebbe mai bastato.
Ovviamente per quelle prime due settimane me lo ero fatto bastare a forza.
Cody era una specie di celebrità a scuola, chiaramente, e scoprii in fretta che non dipendeva solo dal cognome che portava. Anzi, non dipendeva da quello quasi per nulla.
Perché mi fu chiaro abbastanza in fretta che Cody ed il proprio cognome non andavano molto d’accordo.
Lui si rifiutava categoricamente di sfoggiare il classico atteggiamento da “lei non sa chi è mio padre!”, frequentava sempre lo stesso giro di amici fidati che lo trattavano come uno qualunque di loro, scansava educatamente coloro che lo cercavano solo per via di suo padre, era uno studente modello a scuola ed una persona educata, cordiale, disponibile e gentile con qualunque altro essere vivente entrasse nel suo raggio d’azione anche solo per un momento.
Fu proprio questo suo essere un perfetto… “angelo” a convincermi. Così appena lo beccai quella mattina, durante una pausa tra le lezioni, a leggere da solo nel cortile, presi il coraggio con tutte e due le mani e, prima che qualcuno del suo branco di fedelissimi tornasse a salvarlo, mi diressi verso di lui.
E mi fermai di botto realizzando che non sapevo neppure io cosa avevo intenzione di fare.
Io e Cody frequentavamo insieme un paio di corsi, ma a parte questo non avevo nessun indizio reale che lui si fosse anche solo accorto della mia esistenza in quelle due settimane.
Eppure mi sorrise.
-Ciao.- mi sentii salutare.- …Luke Perrington…vero?- mi chiese a disagio.
Ed io provai immediato il desiderio di morire lì, all’istante, e non dovergli rispondere.
“…ah già…il prof…”, mi spiegò pazientemente il mio cervello, emergendo dal fondo della confusione nella quale stava affogando.
-Sì. E tu sei Cody Molko.- riuscii a tirare fuori imbarazzato, concedendomi un sorrisetto così forzato che mi stupì il fatto che non mi scoppiasse a ridere in faccia per quanto ero ridicolo.
“Avanti, cretino! Digli qualcosa!!!”
-Sai…io sono un grandissimo fan di tuo padre…
Il sorriso di Cody si congelò sul suo viso. Tutta la sua gentilezza scivolò via come una maschera e salì su un tale freddo distacco da rendere lo sguardo di un blu così fondo ed imperscrutabile da perdersi.
Non ebbi bisogno delle sue parole per comprendere che avevo appena toccato un nervo scoperto.
E che ne avrei pagato le conseguenze.
-Io – mi disse a mezza voce, duramente – non sono mio padre.
Oh, se ne avrei pagato le conseguenze!
***
Quando entrai nella band lo feci senza dire nulla a nessuno.
Davvero.
Nemmeno ad Amy.
Trovai un manifestino a scuola, di questi tizi che cercavano un chitarrista, e decisi che volevo provare. Avevo iniziato a suonare la chitarra da poco in realtà. O meglio, a me, abituato a quasi sette anni di pianoforte, sembrava poco, molto poco. Decisamente troppo poco per entrare davvero in una band.
Chiaramente, però, non stavamo parlando di nulla di serio, solo di una band scolastica che prendeva vita e che probabilmente sarebbe morta da lì a qualche mese.
Forse per questo non dissi nulla. Perché non era davvero importante.
Ma credo che dipese più che altro dal terrore che avevo che quei tizi sapessero chi ero ancora prima che mi presentassi da loro. Così badai che nessuno di quelli che mi conoscevano intuisse anche solo vagamente la mia intenzione ed incontrai per la prima volta Mike, Gab ed il batterista di allora.
Le mie accortezze, come ovvio, erano state inutili e loro sapevano chi ero. Tuttavia, per mia fortuna, questo dannato cognome che porto fu visto come un elemento di demerito ed io fui accolto da un clima di fredda aspettativa e dallo sguardo glaciale ed inquisitorio di Mike. Lui aveva già deciso: come fossi andato sarei stato comunque fuori e possibilmente con una bella pedata morale da smaltire. Ebbi la percezione esatta del suo cervello che lavorava febbrilmente nell’ideare la battutaccia da rivolgermi contro appena avessi smesso di suonare, quindi fui stupito come non mai nell’accorgermi che, man mano che la mia chitarra sciorinava le proprie note, l’espressione di Mike mutava lentamente.
Alla fine non ci fu alcun “benvenuto”, ma, secco come era solito, il bassista si limitò ad annunciare che ero nella band. E tanti saluti.
A quel punto lo dissi.
Ad Amy per prima, perché si complimentasse con me gridando e buttandomi le braccia al collo, e potessimo rotolarci tutti e due sull’erba nel giardino dietro casa solo per sentirci immensamente stupidi ed immensamente felici.
…Ed a mia madre.
Perché a mia madre non ho mai nascosto chi sono.
Magari non gliel’ho neppure spiegato, ma non gliel’ho mai nascosto. E questa cosa doveva saperla perché, seppure lo negassi anche con me stesso, era talmente importante da poter cambiare tutta la mia vita.
Sia chiaro da subito che non sogno di fare il musicista rock. Non mi ha mai interessato davvero seguire le orme di mio padre, anzi. Avevo, credo, quattro anni quando per la prima volta sono entrato nel salotto di casa, dove mia madre stava prendendo il the con un gruppo di amiche, ed ho annunciato a tutti che da grande avrei fatto il medico. Il cambiamento a cui mi riferisco nel parlare della band, è quello che riguarda la mia accettazione di un’eredità paterna che, fino a quel momento, avevo comunque assaggiato ma non a pieno. Il piano prima – era stata un’idea di mio padre ed io avevo anche provato ad osteggiarla, ma solo per ritrovarmi completamente stregato da quel dannato strumento e finire per non poterne più fare a meno – la chitarra dopo – e stavolta l’avevo scelta io stesso, di nascosto a lui, perché non capisse quanto a fondo era entrata la musica in me – avevano significato comunque dover accettare di portare il cognome Molko e che quel cognome qualcosa dovesse significare.
Nonostante questo, non volevo certo che mio padre lo sapesse.
E da qui le bugie. Prima implorate da mia madre – aveva detto che la mettevo in un mare di guai e che, se papà lo avesse saputo, si sarebbe infuriato a morte e ci sarebbe rimasto malissimo – e poi costruite ad arte intorno a me. La band doveva restare anonima. Io non dovevo esistere, non dovevo farne parte. Qualunque cosa venisse decisa, ufficialmente era opera di Mike e solo sua, Mike prendeva accordi con i locali, Mike faceva pubblicità al gruppo, Mike e Gab erano le uniche due figure “reali” della nostra band.
Non era una gioco difficile. Papà non sapeva nemmeno chi fossero i miei amici, li aveva visti in tutto un paio di volte, quando si erano trovati a girare per casa, e non aveva nemmeno realizzato la loro presenza. Riuscire a farli passare sotto il suo naso era persino troppo semplice. Se domandava, erano degli anonimi “compagni di scuola”, se provava a chiedermi come si chiamassero, non avevo nemmeno bisogno di inventare o fare il reticente. Già il mattino dopo erano spariti nel mare di cose più importanti che affollavano il suo cervello.
Succedeva perfino con Amy.
Solo nell’ultimo anno lui l’aveva già incontrata almeno quattro volte e tutte e quattro le volte, quando lei lo aveva salutato educatamente nel corridoio, lui l’aveva fissata realizzando che – per quanto gli ricordasse indubbiamente qualcuno – il suo nome si era perso da qualche parte e lui poteva solo rispondere un “ciao” stentato ed imbarazzato.
Amy ne aveva riso in tutte le occasioni, ma io avevo perso completamente la testa ed erano seguite scene di panico, con urla nei corridoi di casa e porte sbattute.
Mio padre si era difeso affermando che “lui sapeva esattamente chi fosse Amy, solo non riusciva a ricollegare il viso ad un nome! Non potevo certo fargliene una colpa!”. Io avevo pensato che, in effetti, non c’era un solo motivo valido per cui dovesse ricordarsi il nome di Amy.
In fondo, lei viveva nella casa accanto alla nostra da quando aveva cinque anni. E da allora io e lei eravamo sempre stati assieme. Ma probabilmente se mia madre non lo avesse chiamato tutte le sere per parlargli di me, mio padre avrebbe avuto difficoltà a ricordare anche il mio di nome.
-Sono a casa!- annunciai a gran voce alla cucina.
Mia madre si affacciò in tempo per vedermi tentare inutilmente di sfilare la chiave dalla toppa della porta sul retro. Quella dannata serratura era rotta da quando riuscivo a ricordare, ma, per qualche assurda ragione, anche se tentavamo di ripararla si rompeva dopo pochi giorni. Forse per questo mia madre aveva rinunciato da tempo a chiamare il fabbro. Rise della mia espressione concentrata e mi venne incontro per aiutarmi.
-Cody, ma perché non entri dall’ingresso principale? così non devi ogni volta fare questo casino.- mi disse divertita.
Io sbuffai, la frangetta oscillò e ricadde in quel soffio, coprendomi nuovamente gli occhi e facendo sorridere mia madre, che allungò una mano a restituirmi le chiavi ormai libere e l’altra a scostarmi i capelli dal viso in una carezza.
-Ehi, piccolo, andata bene a scuola?- s’informò.
Mossi qualche passo nella cucina, sbarazzandomi del tascapane a tracolla, che lasciai cadere accanto ad uno degli alti sgabelli che circondavano il tavolo.
-Ni.- risposi, guardandomi attorno affamato, alla ricerca di qualcosa da spilluzzicare in attesa della cena. Avanzai minacciosamente verso il frigo e ci infilai risolutamente la testa.- Ho un altro test di algebra la prossima settimana. Ti rendi conto che è il terzo questo mese?!- protestai. Allungai una mano e catturai il brick del latte con uno sguardo soddisfatto.- Alla faccia delle prove programmate!- Mentre versavo il latte in un bicchiere, mia madre aprì la credenza accanto a me e mi porse un piatto di cookies che accolsi con sguardo riconoscente. Mi arrampicai su uno degli sgabelli mentre lei mi sedeva accanto e continuai imperterrito.- Insomma, è una tortura non da poco, no?
-Beh, tanto andrà bene come gli altri…- provò lei.
-Aaah!!!- esclami io stizzito.- Non è questo, mamy! È che se studio non posso provare con gli altri e Mike è terribilmente irritato per questo…
-Irritato?- ripeté lei perplessa, strappandomi una risata.
-Scusa, è un modo carino per dire che è incazzato nero.- spiegai, affogando il primo biscotto.- Sai come è fatto. E poi è tipo eccitatissimo per qualcosa in questo periodo! Continua a blaterare che ha un progetto fantastico in mente e che, se riesce come si aspetta, sarà una svolta definitiva. Ovviamente si capisce da solo, ma con Mike è così sempre.
Mia madre continuava a ridere ed io sorrisi soddisfatto.
Mi piaceva vederla ridere, le si illuminava lo sguardo e le venivano delle fossette carine intorno alla bocca. Lei mi diceva che erano piccole rughe d’espressione, io pensavo che era così vera e naturale quando rideva che me ne sarei potuto innamorare, se non fosse stata mia madre. In quelle occasioni finivo per chiedermi se fosse proprio per cose come quella, per quei particolari, che mio padre si era innamorato di lei.
Così cominciai a raccontare. Solo per farla ridere ancora, solo per potermi beare di quel suo viso sereno e disteso.
-Tu immagina la scena- iniziai con trasporto, spostando latte e biscotti per avere spazio e prendere a mimare gli eventi mentre li raccontavo.- Eravamo seduti tutti lì, nella stanzetta che usiamo per provare, ed arriva Mike, spalancando la porta con la boria che lo contraddistingue. Si mette davanti a noi mani sui fianchi e fa “Ho avuto un’idea GENIALE!”.- lo sbottai imitando con precisione il tono da “grandi occasioni” di Mike e mia madre, che lo conosceva benissimo, rise più forte ed annuì con convinzione.- A quel punto, ovviamente, io me ne sono uscito sbuffando come al solito, Gab ha cominciato a gridare “sììì!!!” con tono entusiastico a priori e Fran lo fissava ad occhi spalancati e bocca aperta, come se gli avessero appena piazzato davanti un cono gelato di proporzioni gigantesche! Vale è stata l’unica a guardarlo impassibile, ha accavallato le gambe stile vamp e lo ha scrutato a lungo, facendo “perciò?”.
Mamma smise di ridere. Si asciugò distrattamente l’angolo di un occhio, soffocando la propria ilarità e guardandomi.
-Perciò?- ripeté.
-Ah, boh! Mica ce lo ha detto!- esclamai io, ributtandomi sulla merenda. Mentre masticavo un secondo biscotto, chiarii- Si è limitato a gonfiarsi come un pollo da combattimento ed a mettersi lì con la faccia del “fidatevi del vostro capitano!”.
-…faccia che preannuncia sempre guai.- notò mia madre per me.
Assentii con il capo, mentre lei si sporgeva nuovamente a scostarmi i capelli dal viso e dalle spalle, prima che finissero nel bicchiere. -Comunque ho davvero troppe cose a cui pensare in questo momento per occuparmi anche delle idee geniali di Mike.- sospirai, gettandole un’occhiata di traverso.
Fu a quel punto che suonò il telefono.
Visto l’orario poteva essere solo per me, così mi lasciai cadere giù dallo sgabello ed andai a rispondere prima che lo facesse la domestica. La voce di Gabriel mi arrivò immediata all’orecchio, ancora prima che io avessi il tempo di finire il mio “pronto” e piazzarci un bel punto interrogativo alla fine.
-Cody!- strillò terrorizzato.
Ora. Gab è una delle persone più tranquille e positive che io conosca. Il classico tipo che in mezzo al disastro ti guarda, sorride e ti dice che alla fine poteva anche andare peggio. Questo significa che per far strillare terrorizzato lui deve essere successo qualcosa di ancor più che disastroso. Un ottimo motivo, insomma, per avere paura di sentirlo al telefono esordire con un “Cody!” che mi fece pensare che sarei morto entro la fine della giornata.
-…Gab?- provai a fermarlo prima che si mettesse a piangere al telefono.
-O.k.- sbottò subito lui, come se avesse bisogno di farsi coraggio per dirmi qualcosa. E lo ribadì anche.- O.k.! Ascoltami e non arrabbiarti.
-Gab, se esordisci con “non arrabbiarti” è perché sai che lo farò!- feci notare cominciando da subito a spazientirmi.
-Sì, beh, ecco…E’ che ho scoperto che idea ha avuto mio fratello e…
Allora sì che ebbi davvero paura.
-E…- incalzai a mezza voce.
Gabriel respirò a fondo, prese tempo, mi fece perdere quel poco di pazienza che ancora conservavo nonché tre anni almeno di quelli che mi restavano da vivere.
-Gab!- strillai a mia volta.
-Cazzo, Cody! Ci ha iscritti ad un concorso musicale!- strepitò lui tutto d’un fiato, senza nemmeno prendere pause tra una parola e l’altra.
Sapete, se si vuole passare inosservati chiamandosi Cody Molko, una cosa da non fare mai, per nessuna ragione, è prendere a frequentare un covo di gente che, come mestiere, si occupa di musica.
-…cosa ha fatto?- ripetei in un sussurro talmente fioco che Gabriel nemmeno mi sentì.
Anche perché era già partito con una sequela infinita di “scuse”, che di sicuro non avrebbe dovuto porgermi lui per suo fratello e che, per giunta, non valevano minimamente a ridimensionare la questione.
Questione che avrei dovuto quanto prima discutere a tu per tu con Mike.
-Gabriel, dov’è quel coglione di tuo fratello?- mi informai quindi, interrompendo quel flusso continuo senza averne ascoltata nemmeno una sillaba.
-Cody, io sono sicuro che se magari gli parlo…- provò lui con un gemito strozzato.
-Senti, Gab! Se a tuo fratello gliene fosse fregato qualcosa si sarebbe almeno preoccupato di chiedere il mio parere!- scattai stizzito.- Invece si è limitato a mettermi in un mare di merda senza nemmeno essere così carino da avvisarmi in anticipo!
-Co…
-NON DIRE CODY!- lo interruppi ferocemente.- Mettiti nei miei panni, dannazione!- scattai quindi, battendomi una mano contro la fronte e tirando indietro quella dannata frangia che continuava a finirmi negli occhi. Mi lasciai andare contro il muro con un sospiro pesante.
Mettersi nei miei panni. Nessuno di loro poteva mettersi nei miei panni. Nessuno di loro aveva un padre famoso che gli pesava addosso con la propria notorietà, rendendo qualunque cosa decidessero di fare assolutamente fuori dell’ordinario solo in virtù di questo. Magari a pensarci sembrava una cosa incredibilmente “forte”, ma la verità è che era solo terribilmente “ingombrante”.
-Va bene, ora non ho tempo.- conclusi seccamente, chiudendo la comunicazione e bestemmiando contro me stesso per non aver capito da subito che, qualunque idea geniale Mike avesse avuto per il gruppo, per me sarebbe stata un grossissimo problema.
 
  
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