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Autore: Dustbunny13_traduzioni    05/01/2014    1 recensioni
"Il suo palazzo mentale era in rovine: un incendio lo aveva raso al suolo, bruciando i ricordi e polverizzando le memorie, riducendo i momenti recenti in cenere, e rendendo quelli più vecchi irriconoscibili – reminiscenze carbonizzate che non sarebbero mai più tornate, lasciandolo ad arrovellarsi su ciò che erano state."
Post-Reichenbach.
E' la traduzione di una fic inglese che ho davvero adorato. Spero farete lo stesso!
Genere: Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Quasi tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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ANGOLO DELLA TRADUTTRICE: Hola! Grazie a chi ha recensito, o anche solo letto, il primo capitolo di questa storia. So che avevo promesso di aggiornare ogni venerdì, o al più tardi ogni sabato, ma sono tornata solo oggi a casa da un paesino sperduto tra le montagne senza wi-fi. Detto questo, un breve appunto sul capitolo: da qui inizia un flash-back, che durerà per vari altri capitoli, e racconterà tutto ciò che è avvenuto tra l'incontro di John e Sherlock e la "resurrezione" di quest'ultimo davanti agli occhi del mondo. Buona lettura!
Lena

Capitolo 2

Caccia all'uomo

 

John e Sherlock erano d'accordo su una cosa: era tutta colpa di Mycroft.

 

Se solo Mycroft avesse rivelato a John che Sherlock era vivo, lui si sarebbe infuriato, avrebbe gridato, forse anche pianto, ma avrebbe capito; e avrebbe accettato. Si sarebbe lasciato portare in un posto sicuro, sapendo che c'era un assassino in libertà, e non uno qualsiasi, ma il braccio destro di Mortiarty, deciso a finire il compito che gli era stato assegnato e a vendicarsi dell'uomo che l'aveva ingannato recitando la propria morte. Moran, ora che sapeva che Sherlock era vivo, era determinato a uccidere John, e il dottore aveva bisogno di protezione. Solo che Mycroft non gliel'aveva detto. John si rifiutava categoricamente di parlare con lui dal giorno del suicidio, incolpandolo della distruzione del fratello, ma, se Mycroft si fosse sforzato, l'avrebbe contattato, magari attraverso Mary. Mary era sempre stata quella sensibile.

 

Però, Mycroft non gli aveva detto niente, ma era ritornato ai suoi soliti rapimenti. Sfortunatamente, John non aveva nessuna intenzione di essere rapito, e gli scagnozzi di Mycroft avevano dimenticato che non avevano a che fare solo con un tranquillo dottore, ma con un ex-soldato che sapeva come combattere, correre e far perdere le proprie tracce. Ed è proprio quello che aveva fatto.

 

Questo aveva fatto diventare Sherlock isterico. Era riuscito con enorme difficoltà a rientrare in Inghilterra, dopo una drammatica missione di salvataggio organizzata da Mycroft – solo per scoprire che John non c'era più. Ovviamente Mycroft aveva cercato di nascondere il fatto che se lo fosse fatto scappare, ma il fratello aveva imparato molto durante il suo iato, e una di questa era come estorcere informazioni. Un'altra era come scomparire. Così, nel giro di un'ora, l'impensabile era accaduto – un altro uomo era scivolato dalle mani di Mycroft.

 

Sherlock sapeva dove sarebbe potuto andare John. Anche Moran lo sapeva, grazie ai continui pedinamenti, così Sherlock andò lì per salvarlo. Molto semplice. Però lo disse a Mycroft, in modo che potesse mandare rinforzi. Era una situazione troppo pericolosa per potersi permettere di dare ascolto a vecchi risentimenti e al suo orgoglio. Doveva fare in fretta, così non prese la macchina, ma usò una barca.

 

John, all'oscuro di tutto, arrivò in autobus e camminò per la restante manciata di metri, facendo attenzione che le telecamere di sicurezza riprendessero solo una sagoma indistinta nella nebbia. Quando era ormai vicino alla sua destinazione, prese il telefono e mandò un messaggio a Mary, facendole sapere che cosa era successo, e che aveva bisogno di schiarirsi le idee e liberarsi da quel senso di turbamento che lo opprimeva.

 

Turbamento era un eufemismo: la sua mente galoppava a mille all'ora, quasi come il suo cuore. Quando John era scappato dagli uomini di Mycroft, uno di loro aveva sibilato una commento rabbioso al suo compagno, una frase che aveva scatenato una tempesta nel suo petto.

 

Il fratello si infurierà.

 

Il fratello. Quale fratello, se non quello di Mycroft? Ma era morto. O no? John deglutì, conscio del fatto che tutto il dolore non era affatto scomparso, ed ora si stava risvegliando, dilaniando il suo cuore.

 

Il suo telefono vibrò: Mary lo stava chiamando.

 

“Tutto bene?” Sembrava preoccupata, ma non arrabbiata. Non gli avrebbe detto di smettere di aggrapparsi alla stupida idea che Sherlock fosse ancora vivo; lo conosceva troppo bene per farlo.

 

“Si sto bene, è solo che – ho solo bisogno di stare un po' lontano dal mondo.” Fece una pausa e prese un profondo respiro.

 

“Pensi che sia vivo.” Era un'affermazione, non una domanda.

 

“Mary, so che è assurdo, e ho smesso di sperare in questo miracolo molto tempo fa, ma questo – questo è così – ” Sconfitto, tacque, ben consapevole che doveva sembrare matto. “Per favore, non pensare che io sia pazzo.”

 

“So che non lo sei.” Poteva percepire il suo sorriso anche attraverso la cornetta.

 

“Come lo sai?” Sentiva la felicità riversarsi in lui. Dio, quanto l'amava.

 

“Sei la persona più ragionevole che abbia mai conosciuto, e, da quanto mi hai detto, Sherlock è l'unico che avrebbe potuto escogitare uno stratagemma del genere. Quindi no, non è impossibile, e tu non sei pazzo.”

 

John si fermò di colpo. “Quindi pensi che potrebbe essere vivo?”

 

“No,” disse tranquillamente, “Ma se lo fosse, digli che mi piacerebbe incontrarlo.”

 

“Mary?”

 

“Si?”

 

“Ti amo.”

 

“Lo so.” Ridacchiò. “Ti amo anch'io. Adesso vai, fai ordine tra i tuoi pensieri, ti passo a prendere più tardi. Possiamo tornare a casa insieme.”

 

“Si.” Chiuse gli occhi per un momento. “Grazie.”

 

Terminò la chiamata e continuò a camminare, sentendosi già meglio, nonostante la sua mente stesse ancora brulicando con le ipotesi più disparate. Aveva bisogno di pensare, e doveva trovare un posto tranquillo per farlo. Disperatamente. Putroppo, Mycroft conosceva ogni nascondiglio, ogni pub, ogni panchina sul fiume. Così andò nell'uinco posto in cui era certo che a Mycroft non sarebbe mai venuto in mente di cercare, perchè era uno dei posti più inusuali per la contemplazione: Battersea Power Station, la vecchia centrale elettrica.

 

L'enorme costruzione di mattoni vicino al Tamigi, con le sue quattro ciminiere bianche protese verso il cielo, circondato da rifiuti, erbacce ed edifici abbandonati, era il rifugio perfetto. L'area cirostante era circondata da un'alta rete metallica per tenere lontani i curiosi, da un cantiere in disuso con due grandi gru dalla parte del fiume, da una ferrovia a ovest, dal quartiere industriale a est, e da una strada trafficata a sud. John oltrepassò la recinzione, evitò le telecamere di sicurezza e si diresse verso il profilo dell'agglomerato di mattoni nell'oscurità. Si sentì davvero ridicolo guardando le persone, dall'altro lato del Tamigi, che davano serenamente da mangiare alle anatre, mentre invece lui stava vagando per i corridoi abbandonati di una centrale per la combustione del carbone degli anni '30. Bisogna andare molto lontano per sfuggire a Moriarty. Due pensieri lo distrassero: il ricordo dell'incontro con La Donna, probabilmente l'unica persona al mondo in grado di scalfire l'armatura metallica del cuore di Sherlock – e solo perchè lui gliel'aveva permesso. Inoltre, il palazzo gli ricordava sé stesso: vecchio stampo, solido, affidabile, e abbandonato.

 

Arrivò a lato del palazzo e si arrampicò sopra un'altra recinzione, atterrando senza sforzo sui suoi piedi. Dopo aver incontrato Mary, aveva riniziato a fare esercizio, e questo dava i suoi frutti – un anno prima non sarebbe stato così facile, ma d'altronde un anno prima non avrebbe avuto bisogno di scappare da Mycroft per contemplare la possibilità che Sherlock fosse ancora vivo.

 

John stette in silenzio per un po', guardandosi attorno e cercando di sentire eventuali altri solitari come lui, ma non sembrava esserci nessuno. Il piano terra era illuminato da lampioni, che puntavano verso la carcassa dell'edificio e che probabilmente polverizzavano ogni anno migliaia e migliaia di dollari per evitare che degli idioti si facessero male o morissero cadendo nei buchi allagati del pavimento o venendo trafitti dalle punte di ferro che sporgevano dai muri. Era un posto pericoloso, di notte.

 

John attraversò una delle grandi sale, ed evitando i cumuli di mattoni e calce salì al secondo piano, facendo lo slalom tra piastrelle rotte e fili elettrici fino ad arrivare al lato della costruzione che dava sul fiume, dove le finestre in frantumi si affacciavano sul Tamigi.

 

C'era ancora un po' di luce che sfiorava la superficie dell'acqua, facendo risplendere le onde e illuminando le gru del cantiere abbandonato. Era quasi surreale il contrasto tra il vecchio edificio di mattoni ormai in rovina e i nuovissimi grattacieli di vetro che si innalzavano dall'altra parte di Londra. Prese un respiro profondo e cercò di calmare il proprio tumulto interiore.

 

Il fratello. In tutta onestà, avrebbe potuto significare qualsiasi cosa – era altamente improbabile che l'uomo di Mycroft si stesse riferendo a Sherlock. D'altro canto, però, John aveva sempre avuto i suoi dubbi sul suicidio dell'amico, immaginando le teorie più assurde su come avesse potuto inscenarlo, ma dopo un anno senza che fosse successo il miracolo per cui aveva pregato, si era arreso. I miracoli non esistevano. Dio solo sapeva perchè Mycroft voleva parlargli proprio ora, ma certamente non era a cause di un'imminente risurrezione di Sherlock. D'un tratto si sentì stupido per essere venuto lì, nascondendosi e affaticandosi per nulla.

 

Sentimenti. Sherlock avrebbe riso di lui.

 

John stava per girarsi e tornare indietro, quando i suoi occhi notarono un lampo di colore nell'acqua; aguzzò lo sguardo e si sporse dalla finestra. Non si era sbagliato: era proprio una barca.

 

Qualcun altro era lì. E questa persona era venuta in un modo alquanto inusuale. Il suo istinto da soldato si fece subito sentire, mentre la sua mente vagliava tutte le possibilità – un criminale, gli scagnozzi di Mycroft, dei teppsitelli che volevano fare un festino nella vecchia centrale? Una voce continuava a sussurrargli pericolo, e doveva fidarsi dei suoi istinti, non importa quanto fossero improbabili. Per la prima volta dopo tre anni, desiderò di essersi portato una pistola.

 

John si ritirò da quella postazione, ritornando sui suoi passi all'interno dell'edificio. A metà della galleria, credette di aver sentito un suono. Si immobilizzò all'istante, tutti i suoi sensi improvvisamente acuiti – ma non c'era nulla. Poi, proprio quando stava pensando di averlo solo immaginato, lo udì di nuovo: dei passi, così leggeri e silenziosi che non sarebbero potuti appartenere a un'intruso sconsiderato – no, era un predatore a caccia.

 

Il suono quasi impercettibile di metallo sui vestiti, il fruscio leggerissimo della stoffa, e quello degli anfibi che si facevano strada tra il pietrisco e la polvere, con il proprietario che cercava disperatamente di soffocarlo – cosa impossibile in un palazzo pieno di detriti e schegge di vetro. Chiunque fosse quest'uomo, era proprio sotto di lui, al piano terra. John si costrinse a mantenere regolare il suo respiro, preparandosi a una corsa forsennata giù per le scale di metallo e attraverso la grande sala. Molto, molto lentamente si addentrò all'interno del palazzo e diede una rapida occhiata giù dalla galleria al piano inferiore.

 

Si. Nella grande pozza d'acqua che filtrava dal pavimento, riuscì a scorgere il riflesso di un uomo che strisciava furtivamente rasentando la parete, cercando di restare in ombra. Aveva una pistola. E non un semplice fucile da caccia o una rivoltella, ma un fucile da cecchino, un'arma ad alta precisione fornita anche di mirino telescopico. Non si va a caccia di scoiattoli con quella. Si va a caccia di uomini.

 

A quanto John sapesse, era l'unica preda in quel luogo, e, nonostante tutto ciò non avesse assolutamente alcun senso, non si preoccupò di capire il perchè. L'importante era trovare un modo per uscire. All'istante. Ma precipitarsi di sotto e correre nel bel mezzo della sala non sembrava una grande idea – sarebbe stato un bersaglio facile. Si spremette il cervello e infine decise che scalare la costruzione di ferro sulla parete esterna dell'edificio era probabilmente l'idea migliore – se fosse riuscito a farlo di nascosto. Se si fosse fatto scoprire, l'assassino sarebbe stato in netto vantaggio – dal piano terra sarebbe riuscito facilmente ad arrivare in ogni parte della centrale, e con quel maledetto fucile non avrebbe dovuto far altro che inginocchiarsi, prendere la mira e sparare opportunamente a John mentre lui pendeva aggrappato alla parete del palazzo come un pipistrello.

 

Non aveva scelta. John strisciò attraverso la galleria, trattenendo il respiro e cercando disperatamente di non fare rumore – grazie al cielo le sue scarpe avevano le suole morbide, ma comunque era buio e il pavimento era coperto di detriti e piastrelle scheggiate, e se ne avesse pestata una –

 

Si immobilizzò. Dannazione. Il suo cuore inizò a battere furiosamente, pompando il sangue nelle vene così velocemente che gli rendeva difficile sentirlo – ma ne era sicuro, quel maledetto cecchino si stava avvicinando, si trovava indubbiamente sui gradini di metallo di quella scala traballante, e stava per raggiungere la galleria. L'aveva sentito?

 

Doveva agire in fretta. Arretrò fino all'edificio adiacente, puntando le finestre rotte; poteva già vedere il cielo stellato e le costole dello scheletro di ferro sul muro esterno – la sua via per la salvezza. Anche se l'uomo l'avesse sentito, John ora aveva un piano: il lato del palazzo non era illuminato ed era pieno di ombre indistinte – il cecchino avrebbe potuto tentare qualche colpo nell'oscurità, ma avrebbe perso tempo prezioso nel correre di nuovo al piano terra e poi fuori, all'aperto. Nel frattempo, John sarebbe scomparso.

 

Solo che non arrivò mai a quel punto. Con gli occhi fissi sulla finestra, stava già per salire sul cornicione quando un uomo lo afferrò dalla schiena e lo tirò indietro con una forza sconcertante. Subito una mano gli tappò la bocca, sigillando in essa ogni suono ancor prima che questo potesse lasciare le sue labbra, le dita che premevano dolorosamente sugli zigomi; sentì le costole che si incrinavano sotto la pressione delle braccia fortissime dell'assalitore – l'aria gli fu fatta uscire a forza dai polmoni, mentre l'uomo lo colpiva con le ginocchia, facendogli perdere l'equilibrio, e prima ancora che John potesse anche solo pensare di difendersi, si schiantò contro la parete. L'avversario lo immobilizzò, efficacemente e senza fatica, semplicemente schiacciandolo con il proprio stesso corpo. L'uomo era alto, forte, e implacabile, e John si sentì come una mosca intrappolata in una ragnatela. Le sue orecchie furono pervase da un suono stridulo, e la vista inizò ad appannarsi, con il dolore che si irradiava per tutto il petto, e se non fosse riuscito a fare un bel respiro entro pochi secondi, sarebbe presto morto. Però, nonostante il panico, il suo subconscio riconobbe quelle lunghe dita premute sulla sua bocca, e soprattutto il caldo profumo di quell'amatissima pelle.

 

Oh Dio. Oh mio Dio.

 

Gli occhi di John si aprirono, il suo cuore stretto in una morsa dolorosa, e diede un violento strattone per liberarsi, ansimando in cerca d'aria, l'amato nome già sulla punta della lingua –

 

“Taci.” Era solo un sibilo, udibile a malapena, ma così autoritario che John si zittì all'istante.

 

Scoppiò quasi a ridere – tre anni di agonia, e le prime parole che gli rivolgeva erano “taci”.

 

“Anche a me fa piacere rivederti,” pensò ironicamente, e sbarrò gli occhi, sopraffatto, pregando che il suo cuore non scoppiasse. Obbligò la sua mente, che vagava senza controllo, a concentrarsi, cercando disperatamente di realizzare che era accaduto il miracolo: Sherlock era vivo. Era lì, era tutto intero, ed era terribilmente aggressivo.

 

C'era qualcosa di spaventoso nel modo in cui Sherlock lo aveva spinto contro il muro – era brutale, gli stava facendo male e non c'era alcun bisogno di quella presa di ferro. John cercò di dimenarsi, con l'unico risultato di scontrarsi ancora più dolorosamente con il corpo dell'amico. Non andava bene. Si costrinse a rilassarsi e sentì Sherlock fare lo stesso, anche se solo leggermente, ma abbastanza per consentire a John di girare la testa, avvicinando la bocca all'orecchio di Sherlock – i suoi riccioli erano molto più corti, si accorse con stupore, e il suo corpo era duro e inaspettatamente massiccio; non indossava il suo solito cappotto, ma alcuni pratici indumenti, e sapeva di polvere e sudore e armi e Sherlock, tranne che per lo shampoo costoso, che non era affatto male... John mise un freno ai suoi pensieri incontrollati.

 

“Sherlock,” sussurrò, e improvvisamente, come se avesse detto una parola magica, il suo amico lo lasciò andare e indietreggiò velocemente di due passi, decisamente troppo per i gusti di John. Non gli sarebbe dispiaciuto poterlo toccare, facendo scorrere le dita sul suo corpo, assicurandosi che fosse vivo, sentire il suo calore, il battito del suo cuore, i suoi capelli incrostati di sangue. Era troppo buio per vederlo in faccia, ma il profilo della sua ossatura aristocratica e dei suoi zigomi affilati era inconfondibile. John voleva meravigliarsi di questo miracolo, ma non era il momento: c'era un killer a briglia sciolta.

 

John indicò la finestra, gesticolando freneticamente per spingere Sherlock a scappare, ma lui scosse la testa. Con un movimento repentino, il detective si posizionò accanto alla finestra, sbirciando furtivamente fuori. Poi alzò una mano, richiamando l'attenzione di John, e indicò una macchia sul terreno. Accigliandosi, il dottore si sporse nell'oscurità – e, infine, lo vide. C'era un altro uomo nascosto nell'ombra, accucciato dietro gli arbusti nell'area circostante. Se John si fosse calato giù, gli avrebbero sparato prima ancora che avesse capito da dove veniva il proiettile. Soffocò un'imprecazione: ora erano intrappolati tra un assassino che setacciava la galleria e il suo compagno che li aspettava fuori. L'uomo della galleria doveva essere vicino ormai – si, John poteva sentire il suono ovattato dei suoi passi. Guardò Sherlock; lui tirò fuori una pistola da una tasca della giacca e si premette un dito contro le labbra. John si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo, anche se l'arma non poteva fare molto contro un fucile ad alta precisione.

 

Cercò di attirare l'attenzione di Sherlock, improvvisando un piano per tendere un'imboscata al cecchino, ma lui scosse nuovamente la testa, estraendo un piccolo oggetto dalla tasca. Fece uno strano gesto e ci volle un momento a John per capire che doveva coprirsi le orecchie. Le sue sopracciglia si incurvarono dalla sopresa e dalla confusione, ma fece come gli era stato detto. Sherlock lo guardò; i fari di una macchina giù in strada illuminarono i suoi lineamenti abbastanza da permettere a John di vedere un improvviso ghigno sul volto del detective mentre questi premeva l'interruttore. E poi il mondo venne invaso dalle fiamme.

 

Non molto lontano, un'assordante esplosione lacerò il silenzio, seguita dal ruggito del fuoco e dalle macerie che volavano in aria. Il pavimento tremava, provocando una pioggia di detriti e polvere dalle pareti, il cielo notturno illuminato d'improvviso da un bagliore rossastro. L'uomo a terra si rannicchiò istintivamente ancor di più dietro gli arbusti, ma poi abbandonò la posizione. In un unico, fluido movimento, Sherlock afferrò la pistola, la caricò, prese la mira e sparò due rapidi colpi. L'uomo fu scaraventato via e ricadde sulla schiena colpendo il duro suolo, e poi rimase immobile, le braccia allargate scompostamente come una bambola rotta.

 

John spalancò la bocca, “Cavolo”, esclamò, “quello si che era un colpo!” Ancor prima di poter anche solo reagire, Sherlock gli gettò la pistola tra le mani e lo spinse verso la porta. “John, corri dietro a Moran,” incalzò, “se non gli puoi sparare, cerca di farlo arrivare all'entrata principale, gli uomini di Mycroft arriveranno da lì. Fai attenzione, anche in fuga è estremamente pericoloso. Sparagli alle spalle se devi, non esitare!”

 

“Cosa? Sherlock – ” chiese John, nella confusione più totale, ma il detective stava indicando freneticamente il pavimento.

 

“Ce n'è un altro, non capisci?”

 

“Cosa? Dove?” John guardò in direzione dell'uomo morto, e vide qualcuno affrettarsi verso di esso, una sagoma alta e magra che si muoveva furtivamente. “Dannazione, si, lo vedo – ”

 

“Vai!” gli urlò Sherlock, dandogli una leggera spinta, “Prendi Moran!”

 

“Sherlock! Sei disarmato!” John cercò di ridargli la pistola, ma lui si era già calato dalla finestra. “Non ho bisogno di un'arma!” ringhiò. “Prendi. Moran.”

 

“Diamine!” imprecò John, guardando Sherlock aggrappato alla costruzione di ferro con sorprendente agilità. “E comunque, chi è questo Moran?” gridò, senza ricevere nessuna riposta. Osservò la pistola che aveva tra le mani: era una Glock 17, l'arma standard dell'esercito, niente di speciale. “Oh, sei un bastardo.” ridacchiò. “Ti sei trasformato in un tiratore scelto.” Poi si girò e fece come gli era stato detto, sgattaiolando dentro l'edificio, facendo attenzione che il cecchino non fosse più nella galleria.

 

Non c'era. John si sporse da dietro una colonna giusto in tempo da vedere l'uomo correre verso il fiume, probabilmente per raggiungere la barca. “Oh no, non lo farai,” sibilò il dottore, e sparò velocemente un colpo nella sua direzione. Moran fece una larga curva, capendo che non poteva arrivare alla barca senza attraversare la linea di tiro. Invece, girò a est, facendo attenzione a non andare mai troppo allo scoperto. “Così va meglio,” confermò John torvamente, e improvvisamente sentì l'adrenalina scorrere nel suo corpo, affinandogli i sensi e aumentando il battito cardiaco, e un sorriso incredulo apparve sul suo viso, il cuore pieno di gioia, assaporando il brivido della caccia e la certezza che il suo amico fosse vivo. Sherlock era tornato. E anche lui.

 

Poi, si diede all'inseguimento.

 

  
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