- Mad Tea Party -
ATTO SECONDO, SCENA PRIMA
-
Il Giglio Bianco e
« Fuori da questa casa! »
La porta gli si chiuse di fronte con uno sbam la cui forza ebbe dell’incredibile. E
poi, calò il silenzio.
Satoru Okabe rimase lì,
basito e con gli occhi nocciola larghi come due vassoi da pesce lucidati da
poco. Guardò quell’ammasso di legno beatamente serrato che pareva sorridergli goduriosamente e sfotterlo alquanto, e sospirò. Era la
terza volta in due settimane che si ripeteva quella scena, ormai non aveva più
senso neppure che provasse a supplicarlo.
Quell’essere s’era infine rivelato per quel che
era: un demonio.
Uno splendido infingardo fuori di testa
vulcanico esagitato elegantissimo demonio.
In verità c’era un motivo se lui in quel
momento era stato bellamente schiantato sul pianerottolo come un secchio
d’acqua sporca in un mulino abbandonato, e supponeva che avrebbe pure dovuto abituarcisi.
Stava per alzarsi quando d’improvviso la porta
s’aprì e un effimero quanto luminoso barlume di speranza fece capolino in una
testa che ne aveva già abbastanza.
Sorrise, e di tutta risposta si trovò squadrato
da un paio di lucenti occhi nerissimi e sarcastici che facevano il paio con la
smorfia di sufficienza che curvava appena le sottili labbra rosa di un certo
inarrivabile chitarrista di sua conoscenza.
Ci sperò, infantilmente ci sperò.
Ma si limitò a dover evitare le sue scarpe, che
gli furono tranquillamente lanciate contro a tutta forza quasi fossero state
zuccherini.
« Non voglio gente fra le palle mentre faccio
le pulizie. »
Quello fu l’ineffabile, raffinatissimo saluto
di Manabu Satou.
E la porta, con un altro quietissimo sbam, si chiuse di nuovo e trincerò dentro l’adorabile Mana alle prese con aspirapolvere e straccio da bravo
casalingo.
A lui non rimase che tirarsi su, alzare i
tacchi e uscire da quel palazzo talmente ordinario da deludere quasi.
Due settimane erano appunto trascorse dal
giorno del suo repentino trasferimento a Tokyo, dal giorno in cui s’era presentato
con le valigie davanti alla porta di casa di Manabu e
dal giorno in cui la loro un pelo assurda partnership
aveva avuto inizio.
Dal giorno in cui quell’assordante sospetto che
gli aveva bombardato la mente fin dal primo istante – che Mana
fosse ben più di un semplice bel viso con incastonati due onici per occhi –
aveva infine trovato conferma.
Mestamente e con le spalle curve scese le
scale, dando un rapido saluto alla signora del pianerottolo di sotto, una
simpatica vecchietta ancora convinta che Mana fosse
una ragazza e lui suo fratello.
Non c’era proprio niente da fare, più
approfondiva la sua conoscenza più quel chitarrista aveva il potere di
sconvolgerlo. E dire che lui aveva sempre pensato di essere strano a più di un
livello… ma mai quanto quel ragazzo che certe volte riusciva a essere isterico
quanto una casalinga frustrata. Pensare che prima di andarci ad abitare non
l’avrebbe mai detto!
Quello era esattamente uno di quei giorni,
ovvero il sacrosanto pomeriggio che Manabu aveva
deciso di impiegare per fare le pulizie.
Lui s’era offerto più di una volta di dargli
una mano, visto oltretutto che stava a casa sua quasi a sbafo – no, quello non
era del tutto esatto, in verità un venalissimo Mana
aveva subito messo in chiaro che finché fosse rimasto lì avrebbero diviso tutte
le spese – ma Mana l’aveva letteralmente sbattuto
fuori a suon di calci e minacce.
Oh be’, se si
divertiva così tanto a passare la scopa, meglio per lui.
Satoru Okabe proprio non lo
capiva, questo perché Satoru Okabe
odiava dichiaratamente quel genere di faccende che per lui erano solo una fonte
di noia inusitata.
Ebbene, che poteva farci? Era una persona che
preferiva di gran lunga vivere all’aperto che non chiusa dentro quattro mura. A
casa sua ci tornava quasi esclusivamente per dormire dopo le quasi quotidiane
sbronze – che fottuto alcolizzato che era… aveva il
vino nelle vene, altro che sangue!
Quando fu sotto il portone d’ingresso sospirò,
chiedendosi che poteva fare per ingannare un po’ il tempo. Strano a dirsi,
avrebbe creduto che Tokyo fosse una città più… stimolante, da un certo punto di
vista. Non che non lo fosse, però… gli sembrava solo piena di gente. Piena fino
all’inverosimile di cordoni di gente che viveva stipata su se stessa e senza
nemmeno guardare negli occhi il proprio vicino, gente che vedeva solo e
soltanto il proprio essere, senza essere animata da uno scopo, da un desiderio.
Senza essere viva.
Sì, forse era stato quello a colpirlo, di Mana. Quella luce che gli aveva visto dentro agli occhi.
Quel sogno che vi era apparso scintillando.
E quella visione non l’avrebbe cambiata con
nient’altro al mondo.
Suo malgrado, stava sorridendo. Decisamente era
ora che facesse due passi, in modo da cambiare aria e senza gettare ghignando
lo sguardo su in alto verso i balconi del palazzo, quasi a voler sentire il
ronzio sonoro dell’aspirapolvere che quel piccolo pazzo forse stava
utilizzando.
Non gli andava granché di star da solo, non era
un tipo asociale lui e non era per l’isolamento. Certe volte gli mancava
davvero, la sua sconclusionata banale combriccola di amici, quegli scemi che
aveva mollato senza tanti complimenti a Kyoto
veleggiando in cerca del successo.
Certo, li sentiva per telefono quasi tutte le
sere, ma… ma non era la stessa cosa. Gli mancava quella loro assurda e
devastante presenza fisica, quell’amicizia senza pretese che solo loro sapevano
dargli.
Li avrebbe invitati tutti quanti a raggiungerlo
per qualche giorno, una volta che si fosse sistemato. Non per altro, ma se
l’avesse fatto prima Mana l’avrebbe fucilato sul
posto.
Per un singolo istante gli balenò in zucca la
curiosa idea di telefonare a Takeshi, ma bastò mezzo
secondo a farlo ricredere circa la proponibilità di un’ipotesi del genere. Se
avesse chiamato Taka-chan – a cui per carità voleva
un gran bene – quello avrebbe cominciato a parlare parlare
e parlare e avrebbe continuato a parlare fino a sera e lui si sarebbe ritrovato
con un mal di testa colossale da sbornia di parole.
Fu con quell’idea in mente che entrò in una
cabina telefonica e compose un numero.
S’era scritto su un foglio i numeri di telefono
di tutti i membri della band, così in caso di emergenza e visto che comunque
anche per ragioni di unitarietà era bene secondo Mana
che facessero conoscenza il prima possibile.
E guai a contraddire il capo supremo dei Malice Mizer, per quanto Közi riuscisse abbastanza bene a fare la sua parte in tal
senso.
Il telefono squillò a vuoto per un po’, poi una
particolare e marcata voce maschile rispose: « Qui
Kamimura, chi parla? »
« Ciao Kami, sono Gackt! »
Il batterista parve un po’ sorpreso –
piacevolmente sorpreso – di sentirlo.
« Oh ciao Gackt! Qual
buon vento? »
« Ecco, hai da fare? »
« No, sono a casa perché? »
« Senti, ti va di fare un giro? »
Kami ci pensò su per qualche istante.
« Perché no? C’è anche Mana-chan?
»
« No, sta facendo le pulizie. »
Inaspettatamente, Satoru
lo sentì scoppiare a ridere. Una risata lunghissima, che pareva non dover
finire più.
« Capisco, capisco! Fammi indovinare, ti ha
buttato fuori di casa! »
« Ma dai, allora l’ha fatto anche con te? »
« Lo fa con tutti. Comunque se mi dai dieci
minuti esco e ti raggiungo. Dove sei? »
« Davanti al minimarket vicino casa, hai
presente? »
« Sì, ci vediamo lì! »
« A dopo. »
Ukyo Kamimura, il
batterista dei Malice Mizer,
giunse dopo poco.
Come da programma, Satoru
Okabe non avrebbe saputo spiegare con certezza cosa
l’aveva colpito di quella persona. Era molto diverso da tutti i suoi amici, Kami. Non era particolarmente casinista, anzi era pure
tranquillo, e nonostante la voce profonda e il corpo piazzato aveva il sorriso
e i modi di un angelo. E gli piacevano da matti le farfalle, con la loro
delicatezza. Ogni tanto diceva che Mana gliela
ricordava, una farfalla. O una libellula. Un insetto con le ali trasparenti.
Ma quando Gackt gli
domandò il motivo di quel paragone, lui si limitò ad alzare le spalle
sorridendo.
« Allora? Che vogliamo fare? » gli domandò «
Hai un posto che vuoi vedere in particolare? »
« Non saprei… »
« Facciamo un giro a Shinjuku?
»
« Perché no? »
E ci andarono davvero a Shinjuku,
tanto non avevano di meglio da fare per ammazzare la noia.
Per lungo tempo s’aggirarono per quel quartiere
tanto noto e sovraffollato di ragazzi e turisti, e mentre Gackt
si guardava attorno una nuova e strana sensazione lo sorprese. Per la prima
volta in due settimane si trovò a provare nostalgia. Nostalgia per Kyoto, per quella terra piena di piante e di verde.
Da quando era a Tokyo aveva visto solo gente.
Gente e palazzi enormi, luminosi, brulicanti di persone e di vita. Ma non un
solo albero, un prato. Pareva che in
quella città tanto popolosa, tanto artificiale,
di natura non ce ne fosse più bisogno.
« Kami… »
« Sì? »
« …io non ne posso più. »
Non gli sfuggì affatto l’occhiata vagamente
allarmata e perplessa che il batterista gli lanciò, quasi a voler dire che lo
compativa. Oh be’, in effetti s’era trasferito a
Tokyo da due sole settimane, e se cominciava tanto presto a lamentarsi non era
messo poi tanto bene.
« Che c’è? »
Era una domanda che gli era evidentemente stata
posta così per scrupolo, poiché Ukyo Kamimura era ben lontano dal volerlo urtare in qualche
modo.
« Nostalgia di casa? » aggiunse il batterista
tanto per dire, notando che Satoru non pareva voler
rispondere.
« Non proprio… diciamo nostalgia di un aspetto
di casa. »
« Uh? »
« Be’, sai… Kyoto è una città piena di alberi. Di viali, di parchi…
insomma, c’è un sacco di natura. Ma qui a Tokyo mi sembra che se ne siano tutti
dimenticati. Mi sembra che tutti camminino senza guardarsi in faccia, che
parlino a se stessi senza nemmeno vedere se qualcuno li ascolta. »
Kami, con suo grande sconcerto, all’udir quelle
parole rise forte.
« Sei ancora spaesato, è normale che parli
così. Le prime volte Tokyo fa quest’effetto un po’ a tutti noi poveri
provinciali. »
« Santo cielo, ma davvero non esiste un parco
da queste parti? Io rischio di uscirne pazzo se non vedo un albero! »
E Kami scoppiò di
nuovo a ridere, a momenti piegandosi in due in mezzo alla strada.
« Comincio a capire perché Mana
ha tanto insistito per averti nella truppa! »
Gli riuscì di biascicare solo quelle parole, ma
intanto i suoi piedi avevano preso una direzione ben precisa. Senza più dire
una parola, proseguendo col passo di un soldato, si trascinò dietro Camui Gackt fino a lui solo
sapeva dove.
« Non sapevo dove altro portarti e questo è
stata la prima cosa che mi è venuta in mente. Scusami se fa schifo. »
Ukyo glielo disse continuando a sorridere pacatamente
come se non gli fosse interessato fare altro, tenendosi le mani in tasca e
lasciando che il venticello primaverile gli scompigliasse i capelli tinti di
castano.
Gackt si guardò attorno.
« Che razza di posto è? »
« Lo Shinjuku Central Park. Un buco di giardinetto da pochi soldi come
puoi vedere, ma gli alberi ci sono, un tempietto pure e idem le fontane. A
conti fatti non è che gli manchi nulla. Certo, niente a che vedere con lo Shinjuku Gyoen, quello sì che è
un parco di lusso! Difatti è sempre pieno di turisti. Fattici portare da Mana, un giorno o l’altro. »
Fecero due passi nei viali sotto gli alberi,
poi si sedettero su una panchina e a Gackt sembrò di
tornare a respirare, poco gli importava quanto fosse grande quel parco. Ci mise
un po’ a tornare a parlare, prima prese tempo per inalare l’odore degli alberi,
dell’acqua delle fontane, e la luce del sole sulle foglie che li sovrastavano.
« Chissà se Manabu ha
finito con le pulizie… »
In verità, quasi aveva paura di tornare a casa.
Kami gli sorrise di nuovo, come se su
quell’argomento l’avesse saputa parecchio lunga.
« Stai tranquillo, vedrai che quando tornerai
stasera ti accoglierà una bella cena abbondante che Mana-chan
ti servirà evitando di guardarti in faccia, e quando tu gli chiederai a cosa
siano dovuti quei manicaretti ti risponderà che gli era semplicemente avanzato
del tempo. Scommettiamo? Fa così anche con noi, se si deve far perdonare per
qualcosa ci prova a colpi di nabe e crocchette! E ci
riesce puntuale. »
Anche Satoru si trovò
a sorridere a quel punto, perché in cuor suo se lo immaginava fin troppo bene.
« Che dicevi prima, a proposito del fatto che
hai capito come
« Perché sei fuori come un balcone. Come tutti
quanti noi. »
Camui ridacchiò appena.
« È la prima volta che una persona che conosco
da poco me lo dice tanto direttamente. »
Gli veniva irrimediabilmente, incredibilmente
da ridere. Kami però dovette fraintendere, perché si
scusò.
« Mi spiace se ti sono sembrato fuori luogo, ti
assicuro che non era mia intenzione. »
« Ma scherzi? Stai tranquillo, amico. »
Parve che sentirsi chiamare in quel modo non
dispiacesse a Kami, che si rilassò sulla panchina su
cui stavano ed emise un breve sospiro, spostandosi qualche ciocca di capelli
dagli occhi sorridenti.
« Vado a prendere da bere, vuoi qualcosa? »
« Un tè freddo, grazie. Poi ti restituisco i
soldi. »
« Non ci pensare neppure. »
Ukyo si alzò e tornò poco dopo, tenendo nelle
grandi mani un paio di lattine apparentemente gelate prese da un distributore
poco lontano. Per sé aveva preso un caffè freddo, e gli lanciò l’altra lattina
che gli finì direttamente fra le dita come fossero state una calamita.
« Grazie. »
« Figurati. »
Bevvero per un po’ in silenzio, rimanendo
seduti sotto quegli alberi e sotto quel vento fino a che il cielo non iniziò a
scurire un poco nei giorni ancora freschi di aprile.
Fu ancora Kamimura a
parlargli, come se le sue preoccupazioni le avesse intuite col pensiero.
« Andrà bene, non ti preoccupare. Certo, all’inizio
potrebbe esserci qualche problema, ma andrà tutto bene vedrai. Se Mana ti ha scelto un motivo c’è. Sai, lui non è esattamente
il genere di persona che si avvicina al primo tizio che vede per la strada e se
lo porta in casa a cantare per lui. Questo penso che tu l’abbia capito. »
Camui annuì in silenzio.
« Ora avanti, vai! Torna a casa e vai a
gustarti la cena che ti ha preparato quello scemo, anzi già che ci sei
salutamelo! »
Gackt si alzò in piedi allora, e Kami
gli diede una pacca sulla spalla.
« Non avere paura di Mana-chan,
non ti ammazza! »
« Non ti preoccupare. Ti assicuro che in quanto
a testa dura non sono da meno di lui! »
« Be’, almeno non
rischi di diventare il suo schiavo. »
« Già… comunque, Kami?
»
« Sì? »
« Grazie davvero per la compagnia, mi hai
salvato la giornata. Non avrei saputo cosa fare altrimenti! »
« Ma figurati, anzi se vuoi compagnia chiama
quando ti pare! »
« Grazie, ci si sente prossimamente allora! »
« Sì, arrivederci! »
E mentre s’allontanava a passo svelto dallo Shinjuku Central Park,
lasciandosi alle spalle la figura un po’ imponente di un batterista che sarebbe
divenuto il suo migliore amico di sempre, Satoru Okabe in arte Gackt Camui guardò un’ultima volta il cielo leggermente coperto
di nubi che s’approssimava ormai al tramonto.
Mana non gli
aveva dato le chiavi di casa. Neanche una copia.
Quasi a voler dire che se sloggiava di lì alla
svelta e gli restituiva il suo habitat avrebbe fatto cosa gradita. Lui a dire
la verità non aveva ancora nemmeno cominciato a cercar casa – si doveva prima
ambientare, diritto suo sacrosanto – ma quella cosa era meglio non dirla al
chitarrista… avrebbe solo rischiato di rimanere senza derrate alimentari per
qualche settimana, causa crescita improvvisa ed incondizionata di lucchetti alle
maniglie di dispensa sportelli e frigorifero. E l’idea di campare di ramen istantanei e di cestini precotti del supermercato non
lo allettava granché. E nemmeno quella di cenare e pranzare fuori tutti i
giorni. No, decisamente era meglio tralasciare certi aspetti della sua nuova
esistenza a Tokyo quando parlava col fin troppo imprevedibile Mana-chan. Davvero, di primo acchito un caratterino del
genere non l’avrebbe mai minimamente sospettato. E poco c’era da fare ormai, la
frittata stava allegramente cocendo in padella.
Suonò il campanello e per un istante il
silenzio che udì lo preoccupò alquanto.
Poi qualcosa si mosse dall’altra parte della
porta, il che significava che la sua buona sorte – che a quanto pareva si
chiamava Manabu Satou – non
l’aveva ancora abbandonato.
« Sei tornato? »
Fu con quelle quattro sordide ed irritate
sillabe che il suo momentaneo coinquilino lo accolse, lasciandolo tuttavia
libero di mettere piede nell’appartamento.
« Sì, ho fatto un giro con Kamimura.
A proposito, ti saluta. »
« Grazie, poi lo richiamo. »
Fu in quel momento che Gackt
annusò per la prima volta nell’aria un certo prorompente odore squisito di
cibo.
Mana stava facendo attentamente la ronda fra la
porta della cucina e il salotto, il che probabilmente significava che non
voleva che si avvicinasse. Lui non lo fece.
« Ascolta, se per te va bene questo fine
settimana affittiamo una sala prove e cominciamo a esercitarci. »
« Non c’è problema. »
Poi il chitarrista dagli occhi neri gli porse
un pacchetto di fogli, che Camui prese con una certa
inquietudine sulla punta delle dita.
« Che sono? »
Un semplice, istantaneo e punitivo sguardo di
quel volto contornato di capelli neri, e un ordine impartito da quelle labbra
rosa e sottili un po’ lucide di burro di cacao.
« Imparale. »
Erano le canzoni dei Malice
Mizer, dei Malice Mizer di Tetsu.
« Ne preparerò altre prima delle nuove serate
che faremo, ma per le prove queste sono più che sufficienti. »
« Non posso portare i fogli coi testi alle
prove? »
« È che voglio vedere quanto ci metti a
ricordartele. »
E così oltre a essere un despota quel ragazzo
era anche una strana specie di sadico che si divertiva a vedere le sue formiche
sgobbare. Ma alla fine, forse era lui quello che lavorava più di tutti.
« Andiamo a mangiare, su. »
Inaspettatamente, Mana
lo toccò. Gli diede un lievissimo, appena percettibile tocco su una delle
spalle larghe, che gli sembrò incredibilmente una carezza. Un tocco gentile che
per un singolo quanto inquantificabile istante gli lasciò i brividi addosso.
Accadde tutto esattamente come Kami gli aveva predetto.
La cena di quella sera fu incredibilmente
abbondante, aveva comprato perfino del sushi.
Gli venne da ridere. Santo cielo, per la
contentezza gli stava venendo da ridere.
Lo guardò, osservò mentre si sedeva quella
figura sottile che se ne stava a fissarlo poggiata con le spalle allo stipite
della porta, osservò per un attimo le ciocche nere che gli si appoggiavano alle
braccia avvolte come un’edera, e quindi gli sorrise.
Con dolcezza, gli sorrise.
« Grazie. »
Allora lo vide girarsi, dandogli in quel modo
le spalle, per una sorta di inconsueto imbarazzo e per quella timidezza che per
quanto s’atteggiasse non gli riusciva in alcun modo di nascondere. Avrebbe dato
il mondo per poterlo vedere in volto, in quel momento.
« Be’, che stai
aspettando? Mangia, no? »
Non replicò niente a quelle parole, non rispose
a quella persona che stava in piedi su quelle assurde pantofole pelose blu. Non
lo fece perché non poté, sopraffatto da una dolcezza che fu improvvisa quanto
imprevedibile, quanto inarrestabile. Una dolcezza che era di Mana, e che lo lasciò incapace di ogni cosa.
E fu di nuovo allora che, con altrettanto
affetto, gli sorrise.
Non importò che lo vedesse, non importò che lo
sentisse.
Di nuovo, lo sussurrò.
« Grazie… »
- continua -
N.d.A. Mi scuso se ci ho messo un po’ a
terminare questo capitolo, e purtroppo devo annunciarvi che la storia potrebbe
continuare per un po’ a ritmo rallentato. Il motivo è sempre il solito: esami.
Purtroppo l’università non perdona, e giugno e luglio sono praticamente
off-limits per quanto riguarda il tempo libero da utilizzare per scrivere.
Spero che abbiate gradito il primo capitolo di questo
nuovo atto, non è nulla di così speciale ma funge un po’ da tappeto
introduttivo per il crescendo che sarà questo secondo atto.
Vitani