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Autore: kenjina    12/01/2014    4 recensioni
- Betulla sequel -
«Vedo che anche oggi ti sei dato da fare. Trascorri più tempo rinchiuso lì dentro, piuttosto che nella Sala del Trono, mio Re.»
Thorin fece una smorfia ironica. «Sai bene quanto non mi piaccia stare con le mani in mano.»
«Ebbene, non sarò certo io a trascinarti lontano dalla fucina tirandoti per un orecchio!» Balin strizzò un occhio, porgendogli una pergamena. «Ma forse c’è qualcuno, là fuori, che avrà il potere di osare ben oltre.»
L’altro si voltò per guardare l’anziano Nano, che aveva ora tutta la sua attenzione. Prese il rotolo di carta ancora chiuso ed osservò con interesse la cera che lo sigillava: era un albero incorniciato da sette stelle, con una corona alata in alto.
Era lo stemma di Gondor.

(tratto dal secondo capitolo)
Genere: Avventura, Guerra, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Boromir, Nuovo personaggio, Thorin Scudodiquercia, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Foreste di Betulle; giardini di Pietra.'
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Buona domenica, miei cari seguaci!

Ho finalmente trovato un po’ di tempo per completare questo capitolo, che avevo già scritto per metà, ma che a causa tesi non sono riuscita a riprendere in mano fino a ieri.

Mi scuso (nuovamente) per non aver risposto ancora alle recensioni, ma mi metterò d’impegno oggi, che ho una mezz’ora libera – almeno, io me la prendo perché voi ve la meritate tutta!

Per farmi perdonare, questo capitolo è un po’ più lungo del precedente, e finalmente ritroveremo due cari personaggi – dato che alcuni di voi si stavano preoccupando che avessi dimenticato Aragorn e Boromir. Giammai. ;)

Grazie miliardesime a chiunque stia seguendo questa storia!

Vi voglio bene!

A presto!

Marta.

 

 

Pietra

-  sequel di Betulla -

 

 

 

21.

 

28 Settembre 3019 T. E.

 

La porta della stanza cigolò sui cardini e Fili e Kili alzarono contemporaneamente lo sguardo sulla figura che fece capolino sull’uscio. Káel l’aprì completamente, rivelando anche la presenza angosciata del loro zio, che in quei giorni difficili, trascorso a contare i danni, pareva aver concesso una buona parte del suo affetto al ragazzo, proprio come fece con entrambi quando il loro padre non aveva fatto rientro dalla battaglia combattuta ad Azanulbizar.

Káel li salutò con un breve cenno del capo e si avvicinò alla sorella, sdraiata accanto ad un’addormentata Brethil. Era lì da giorni interi e osava muoversi da quella posizione solo per bagnarle la fronte e soddisfare i propri bisogni fisiologici. Aveva un aspetto terribile: i capelli intrecciati da Thorin erano ormai scarmigliati dalle numerose volte in cui si era presa il capo tra le mani, alla disperata ricerca di una motivazione per cui anche suo padre se ne fosse dovuto andare; aveva profonde occhiaie, segno di notti insonni e tormentate, e pareva lo stoppino di una candela, troppo corto e debole per bruciare.

Erano trascorsi due giorni dalla tremenda notizia e della ragazza non rimaneva che una sbiadita ombra di ciò che era stata. Piangeva fino a stremarsi, rifiutava il cibo e l’apprensione di chiunque; persino Thorin si era visto ignorato e solo una volta lei aveva osato incontrare il suo sguardo: quando lui era giunto per starle accanto, la prima volta, e aveva letto l’espressione di agonia che le stava scavando l’anima, aveva chiaramente percepito la gola stringersi; l’aveva abbracciata con vigore, cercando di riscuoterla attraverso quel gesto disperato e pieno di affetto, ma lei non aveva fatto niente per ricambiare.

Non ne aveva la forza.

Ma aveva quella per piangere tutte le lacrime di cui disponeva.

Era rimasto così, a cullarla in silenzio, mentre lei spendeva tutte le sue energie in singhiozzi, finché esausta non si era addormentata tra le sue braccia.

Ed ora eccola lì, una bambola in una coltre di dolore.

«Trán.» la chiamò Káel, dopo un profondo sospiro. «Trán, è ora.»

La Nana parve non udirlo, intenta com’era ad osservare la sua amica che riposava tranquillamente nella quiete delle Case di Guarigione. Aveva una mano tiepida e la spilla della donna tra le sue, il movimento impercettibile di un polpastrello che l’accarezzava con gentilezza.

«Trán–» replicò Káel, la voce spezzata, mentre le si avvicinava e le stringeva un braccio. «–ti prego. Dobbiamo salutarlo...» Non ottenne nuovamente risposta, se non un flebile cenno di diniego col capo. «Non vuoi salutarlo?» Questa volta la ragazza scosse veementemente il capo e il fratello chinò arrendevolmente le spalle.

Che domande le faceva?

Salutarlo?

Lei non voleva salutarlo!

Perché avrebbe significato chiudere definitivamente quel capitolo e lei non sapeva se fosse in grado di farlo.

Anzi, ne era sicura. Non ci sarebbe riuscita.

Thorin chiese silenziosamente ai nipoti di iniziare ad uscire e richiamò il giovane fabbro con una mano sulla spalla. «Vai con loro e i tuoi fratelli. Ti raggiungeremo subito.»

Káel sapeva bene che il Re li avrebbe raggiunti da solo, ma sperava che forse almeno lui fosse in grado di riafferrare la sorella perduta; così le sfiorò la guancia con un bacio e si sforzò di fare come chiesto, unendosi a Fili e Kili e scendendo verso l’ingresso della città.

Thorin rimase immobile per qualche istante, osservandola fare il nulla. «Sei sicura che non vuoi–» Le sue parole vennero subito troncate dall’ennesimo silenzioso no e inspirò con pesantezza. «I tuoi fratelli si chiederanno che fine avrai fatto. Vuoi lasciarli soli?»

Caduta nel suo mutismo, il Nano capì che non avrebbe risolto nulla, almeno per il momento. Avrebbe potuto prenderla di forza e obbligarla alla cerimonia, perché sapeva che con il tempo si sarebbe pentita di non essere stata presente al funerale del padre. Ma non poteva forzarla, in un momento come quello. Non poteva farlo, sapendo quanto fragile fosse.

Così si chinò, mimando il gesto del fratello e baciandola però sulla tempia. Tenne le labbra premute contro la sua pelle per più di qualche secondo, sentendola rabbrividire. «Tornerò presto.» le sussurrò. «Te lo prometto.»

Thorin lasciò la stanza poco dopo, lanciando un’ultima occhiata alle due figure sdraiate ed immobili, nella speranza che almeno una si alzasse e lo seguisse. Ma ciò non accadde e si richiuse la porta alle spalle, raggiungendo i suoi compagni e la folla di Uomini, Nani ed Elfi giunti per commemorare i caduti di Osgiliath e Minas Tirith. Non vi fu bisogno di discorsi da parte del Re di Gondor, se non un profondo ringraziamento a chiunque fosse giunto ad aiutarli nel momento del bisogno – ed Éomer, Dáin, Thorin e il resto dei Generali chinarono il capo alle sue parole.

I corpi dei nemici erano già stati bruciati senza alcuna commemorazione qualche ora dopo la vittoria; mentre i loro caduti erano ora impilati l’uno sull’altro in numerose pire di legno bagnate d’olio, su cui molti cittadini avevano lanciato fiori bianchi e freschi. Fu compito di numerosi soldati, tra cui anche i due Re dei Nani, prendere le torce e accendere i roghi. La voce sinuosa e struggente degli Elfi si innalzò insieme alle fiamme, con un canto di sofferenza e la speranza che Aulë proteggesse le loro anime, e le trombe squillarono in segno di lutto.

 

 

Il fumo si alzava lentamente, poco lontano dal Grande Cancello in costruzione di Minas Tirith, e con esso anche i lamenti di chi era rimasto in vita e ora arrancava nel lutto. Ma nel profondo silenzio delle Case di Guarigione, non giunse altro se non il grave e potente suono delle trombe cittadine. Fu forse in quel momento che Trán, in piedi sul davanzale della finestra, intenta a scrutare la colonna di ceneri dei caduti, capì che fosse davvero tutto perduto.

 

 

Thorin rientrò dalla commemorazione con il cuore pesante. Avrebbe voluto parlare di persona a quel Nano che tempo addietro aveva protetto il suo corpo con il proprio; avrebbe voluto chinare il capo e ammettere di essersi rivolto a lui e alla sua famiglia in maniera indecorosa, all’inizio del loro rapporto; avrebbe voluto chiedergli il permesso di sposare sua figlia, poiché era un uomo d’onore e non le avrebbe fatto una proposta simile senza il suo consenso. Ma di Rulin non rimanevano che ricordi e polveri, e sapere che non poteva fare niente per cambiare il corso delle cose lo faceva sentire impotente.

Ma c’era qualcosa che poteva e doveva fare. Stare accanto alla donna che amava, anche se lei avesse finto di non udirlo o vederlo, anche se avesse deciso di cacciarlo perché nel dolore non voleva nessuno nei paraggi. Thorin le doveva questo e molto più, ed era con quella determinazione che si diresse nuovamente alle Case di Guarigione.

La trovò accanto alla porta finestra che dava sui giardini, mentre osservava il penoso spettacolo di fumo sul Pelennor, e una parte di sé fu sollevata nel vederla in piedi, anche se si era rifiutata di porgere di persona i suoi ultimi saluti al padre. Le si avvicinò, accertandosi con uno sguardo che Brethil riposasse ancora, e le fu alle spalle poco dopo, per abbracciarla. La sentì irrigidirsi per un lungo istante, forse così persa nei suoi pensieri da non essersi accorta del suo arrivo; ma appena Trán riconobbe il suo inconfondibile e penetrante odore di tabacco e ferro, e la morbidezza della sua barba contro la pelle del collo, si rilassò tra le sue braccia, permettendogli di stringerla ancora di più contro il suo petto, mentre le grandi e callose mani le accarezzavano il ventre.

Nessuno dei due parlò. Non vi era del resto niente di cui discutere e nessuna parola di circostanza venne spesa da entrambi. La sola presenza di Thorin, che le premeva con affetto la schiena contro il torace, era sufficiente per farle capire che lui le sarebbe stato accanto, in qualsiasi momento, per qualsiasi motivo.

Fu però lui a spezzare quell’innaturale silenzio. «Hai mangiato?» le domandò, in un sussurro. Lei scosse il capo. «Dovresti mettere qualcosa nello stomaco. L’ora del pranzo è quasi giunta.»

«Non ho fame.»

Thorin sospirò. «Habanuh, devi cercare di reagire.» Non credette di aver detto qualcosa di tremendamente sbagliato finché lei sgusciò dalla sua presa ferrea – ma solo perché lo colse di sorpresa. Trán lo osservava con occhi sbarrati, le sopracciglia aggrottate e tremava. Tremava come se avesse passato una notte al gelo senza il confortante abbraccio di una coperta.

«Reagire?» replicò sotto voce la Nana, passando dallo scetticismo all’ira. «Mi dici di reagire? E per cosa dovrei farlo?»

«I tuoi fratelli sono ancora in vita.» La sua risata priva di divertimento lo interruppe un attimo. Thorin era più che convinto che stesse per scoppiare nuovamente a piangere. «I tuoi fratelli sono vivi, io sono vivo. Ma la cosa più importante è che tu lo sei ugualmente, Trán. Sei viva e non devi ucciderti con le tue man–»

«Ho perso mio padre! E lei–lei ancora non si sveglia!» gridò lei, interrompendolo ancora una volta. «Che senso ha che io sia ancora viva se lui se n’è andato? Credi che mi importi di mangiare? Mio padre è morto! Per sempre!» Si tappò la bocca con le mani nello stesso istante in cui le parole le uscirono dalle labbra, rendendosi conto dell’orrore di ciò che aveva detto realmente.

Suo padre era morto.

Morto, per sempre.

Cadde in ginocchio, colpendo debolmente un pugno sul pavimento in pietra, le lacrime che non parevano voler smettere di bagnarle il viso.

Mahal, quante ne aveva in corpo?

Era normale piangere così tanto? Era sicura di no.

«E non pensi a chi ti ama e si preoccupa per te?» Non pensi a come mi senta io?, avrebbe voluto chiederle.

«Non m’importa! Tu non capisci!»

«In nome di Durin!» esclamò lui, nell’esasperazione, non curandosi di abbassare le voci, giacché ormai quelle della ragazza avevano risvegliato persino i morti. «Mi credi tanto insensibile? Io, che ho dovuto sopportare la caduta di tutta la mia famiglia davanti ai miei occhi? Io, che ho perso la mia casa e la mia giovinezza e che ho dovuto faticare tutta la mia vita pur di riprendermi ciò che spettava a me e al mio popolo? Credi che non conosca il dolore? Credi che non sappia cosa tu stia provando ora? Vidi mio nonno morire nel modo più atroce e ignobile che esistesse; persi mio padre e mio fratello, e il marito di mia sorella, che era parte della mia famiglia come se avesse il mio stesso sangue. Vidi i miei nipoti crescere senza un padre e mia sorella rischiare di sbiadire nel lutto.» Le si inginocchiò di fronte, afferrandola per le braccia, il tono di voce ancora fermo ma ora più morbido. «Il tuo dolore è anche il mio. Ciò che stai vivendo ora è anche la mia pena, Trán. E voglio fare tutto ciò in mio potere per alleviartela. Ma non diventare qualcuno che nessuno di noi riconosce; non andare laddove non posso raggiungerti.»

Trán si lasciò abbracciare, stringendo la stoffa della sua tunica tra le dita e cercando conforto in quelle braccia calde e forti. Anche in momenti come quelli, in cui il dolore era talmente forte da darle la sensazione di soffocare, la sua presenza riusciva a calmarla. Cercò di regolare il suo respiro, concentrandosi su quello di lui, finché si sentì, almeno momentaneamente, in pace con se stessa e il buio che la circondava.

«Tua sorella–» sussurrò finalmente lei, schiarendosi la gola secca ed inumidendosi le labbra secche con la lingua. «–tua sorella come fece a superarlo?»

Thorin le accarezzò il capo con le labbra, sospirando mentre la mente tornava indietro nel tempo. «Dís è sempre stata una donna con un forte carattere. Era la più piccola della famiglia, eppure aveva il temperamento più acceso di tutti. Pareva che niente potesse scalfiggerla; un estraneo avrebbe detto che fosse fredda, ma non lo è mai stata. Ha vissuto la maggior parte della sua infanzia in esilio e non ha mai conosciuto il riposo e la tranquillità, finché non incontrò suo marito. Oh, avresti dovuto vedere come la stoica principessa degli Ered Luin diventasse malleabile come una fetta di burro, in presenza di quel ragazzo. Non avevo mai visto un tale amore e una tale felicità nei suoi occhi, se non quando nacque Fili. Era il ritratto della gioia ed ero oltremodo rassicurato dal fatto che almeno lei, in tutto il nostro dolore, avesse trovato una valida ragione per sorridere. Quando tornammo così pochi da Moria, lei capì immediatamente cosa fosse successo. In un solo istante io ero tutto ciò che le era rimasto della nostra famiglia, proprio nel momento in cui avrebbe dovuto gioire ancora una volta, giacché Kili sarebbe nato poche settimane dopo. Tornò ad essere la donna inflessibile che era sempre stata prima di sposarsi, concentrò tutta la sua attenzione sui suoi figli e sulla politica. E trovò la forza che le mancava solo perché aveva qualcuno a cui badare, qualcuno che aveva ancora bisogno di lei.» Thorin prese un respiro profondo, perdendosi in quei ricordi lontani. Poi chinò lo sguardo sulla Nana e le accarezzò le guance con entrambe le mani, scostandole il capo dal petto e osservandola intensamente. «Tu sei come lei, Trán. E ti ho scelta perché so per certo che saresti una coraggiosa e forte Regina, che tutti amerebbero e loderebbero; me lo hai dimostrato più di una volta, anche se ami nasconderlo nelle tue insicurezze. Non è questo il momento di arrendersi al dolore; sono sicuro che né tuo padre né tua madre sarebbero felici di saperti abbandonata in questo modo. Devi essere forte, ora: per te stessa e per i tuoi fratelli.»

«Thorin, io...» si asciugò l’ennesima lacrima, poggiando la fronte contro quella del Nano, le dita ancora strette nel tessuto delle sue vesti. «Io non so se sono in grado di farcela. Non ci riesco da sola.»

«Allora saremo forti in due, perché ti aiuterò con qualsiasi mezzo. Mi prenderò cura di te, e dei tuo fratelli, se voi me lo permetterete.»

Con un sospiro affaticato, Trán annuì e lo abbracciò con energia, affondando il viso tra i suoi lunghi capelli scuri e sussurrandogli un grazie che faticò ad udire.

Thorin la baciò sulla spalla, accarezzandole con devozione la schiena scossa dai brividi. «Mi consenti di scortarti a pranzo, Habanuh?» le mormorò, solleticandole l’orecchio con il suo fiato caldo. La risposta tardò ad arrivare, tanto che il Nano temette fosse nuovamente caduta nel suo mutismo; ma lei annuì.

«Permesso accordato.»

Con un lieve sorriso d’incoraggiamento, Thorin si mise in piedi, porgendole la mano per aiutarla a rialzarsi, e la osservò con attenzione, bevendo ogni dettaglio della sua espressione. Sapeva che non avrebbe dovuto aspettarsi di vederla sorridere nuovamente con il lutto così fresco, ma la vide arrossire sotto il suo sguardo e il suo sorriso si allargò ancora di più. «Dopo pranzo vorrei rintrecciarti i capelli.» le disse, prendendo la clip della sua casata e rincuorandosi di quella promessa che si erano scambiati solo qualche giorno prima. Trán annuì, chinando gli occhi e osservando le loro mani ancora intrecciate. Senza un’altra parola, Thorin fece scivolare i polpastrelli ruvidi sulla pelle delicata del viso, seguendone il profilo con le dita e gli occhi, fermandosi su quelle piccole e carnose labbra, ora socchiuse, che avevano il potere di fargli dimenticare persino chi fosse. Non si era neppure reso conto di aver chinato il viso verso di lei, se non quando i loro nasi si sfiorarono. Trán deglutì a fatica nel ritrovarsi ad osservare ogni singola sfumatura di quegli occhi blu, che ora parevano chiederle il permesso di andare avanti.

Perché Thorin desiderava baciarla con tutte le fibre del suo corpo, per ricordarle costantemente che aveva il suo cuore, soprattutto in un momento difficile come quello; eppure non voleva approfittare della sua debolezza e del suo lutto per prendersi ciò che voleva. Così rimasero immobili per qualche istante, i loro respiri sulla pelle dell’altro  e il sangue che pompava velocemente nelle vene; finché fu lei a sollevare il mento e a baciarlo con leggerezza, come se fosse la prima volta. E Thorin non fece niente per approfondire quella carezza, delicato, quasi timoroso di spaventarla e farla scappare.

Trán non si sarebbe mai abituata alla devozione e alla sensibilità che quel Nano robusto e letale le dimostrava: come potevano mani dure come le sue stringerla come se fosse un cristallo prezioso che rischiava di rompersi alla minima pressione? Come poteva una bocca affamata come la sua, resistere alla tentazione di divorarla in un bacio che di casto avrebbe avuto ben poco?

Eppure eccolo lì, una mano tra i suoi capelli rossi e sfatti, l’altra che stringeva ancora la sua, mentre depositava piccoli e teneri baci sulle labbra, sulle guance, sul naso. Trán trovò la forza di sorridere e gli soffiò poche parole sull’orecchio.

Lo farò anche io.

Lui parve immobilizzarsi, confuso, e si distanziò un poco per chiederle con lo sguardo cosa volesse dire.

«Anche io mi prenderò cura di te.»

 

29 Settembre 3019 T. E.

 

Brethil aprì stancamente gli occhi e osservò senza realmente vederlo il soffitto voltato della sua vecchia stanza alle Case di Guarigione. Il profumo dei giardini accanto e delle erbe mediche che aleggiava nell’aria la riportò indietro nel tempo, quando era giunta per la prima volta a Minas Tirith, stremata per il lungo viaggio, affamata e disidratata. Ricordava di come Ioreth riuscisse a gridare contro qualunque cosa si muovesse e fosse un potenziale pericolo d’intralcio al suo importante compito di guaritrice e di come Pipino riuscisse ad imitarla alla perfezione, con i suoi lunghi monologhi riguardanti qualche membro della numerosissima famiglia, e facendola ridere di sollievo e divertimento. E ricordò di quando si era risvegliata e la prima cosa che aveva visto era stata il capo di Boromir, poggiato sulle braccia e profondamente addormentato sul bordo del letto. Quel giorno si era permessa per la prima volta di osservarlo veramente, come una donna e non una Dúnadan.

Sembravano passati secoli da quel giorno di Marzo e lei si sentiva infinitamente stanca.

Voltò lo sguardo alla sua sinistra e non si stupì di trovarsi Trán accoccolata contro il suo corpo. Aveva l’espressione carica di dolore anche durante il sonno e anche nella penombra della stanza poteva notare le righe delle lacrime ormai secche sulle guance. Fu il luccichio argentato tra le mani della Nana ad attirare la sua attenzione e si concesse un sorriso nel riconoscere la sua spilla, stretta con forza come se potesse assorbirne l’energia e darsi coraggio. Gliela sfilò con delicatezza, cercando di non svegliarla e se la rigirò tra le dita, accarezzandola con il polpastrello del pollice e ricordando l’onore e l’orgoglio di indossarla, così come la vergogna per ciò che aveva fatto liberando Gollum.

Baciò la spilla con devozione, rimettendola poi tra le mani della Nana. Non avrebbe mai smesso di essere una Dúnadan, di quello era più che certa.

Un movimento nell’angolo della camera attirò la sua attenzione e cercò d’istinto il pugnale sotto il cuscino – che ovviamente non trovò. Ioreth era sempre contraria alla vista di armi e mai come in quel momento la maledì per le sue futili paure. Ma si tranquillizzò appena riconobbe la sagoma bassa eppure imponente muoversi con sofferenza su una sedia.

Thorin sospirò, catturando il suo sguardo, e l’espressione di sollievo per vederla sveglia gli rasserenò il viso stanco. Il Nano si alzò, cercando di non destare l’altra piccola figura sul letto, ancora profondamente addormentata, e si ficcò i pollici sulla cintura della tunica, chinando il capo alla donna. «Lieto di vederti in salute, mia signora.» sussurrò, nella sua voce già bassa di natura. Se non fosse stato per l’irreale silenzio delle Case di Guarigione, Brethil non avrebbe udito una parola.

«Il sollievo è reciproco, sire Thorin.» Fu oltremodo confusa nel vedere lui nella stanza, e non qualcun altro. Si sarebbe aspettata di vedere Elladan e Elrohir, o persino Gimli e Legolas, ma non certo lui.

Così, notando l’espressione della donna, il Nano s’affrettò a spiegare. «Fili e Kili hanno vegliato su di te per ore intere; e anche i due Mezz’Elfi. Ho spedito i miei nipoti a riposarsi per qualche ora, promettendo loro che li avrei svegliati in caso ci fossero stati miglioramenti.»

Brethil sorrise ripensando ai nipoti del Re di Erebor. «Stanno bene, dunque?» Lui annuì. «Ne sono oltremodo felice. Quanto tempo sono stata incosciente?»

«Tre giorni, credo.»

La donna si passò una mano sul viso, fischiando. «Pare che abbia dormito più del dovuto.»

«Hai dormito il necessario. Da quanto mi è stato detto ti è salita la febbre; e hai perso molto sangue.»

«Sì, ricordo qualcosa in proposito.» borbottò Brethil, sfiorandosi il fianco fasciato. «Avete contato molte perdite?»

Thorin sospirò con pesantezza, osservando Trán. «Sì, purtroppo sì. Suo padre è tra i caduti.»

Con lo sguardo carico di orrore, Brethil strinse inconsciamente la ragazza, sentendo il cuore pungere per la sofferenza.

Oh, Trán...

Non poteva credere possibile che anche l’ultimo pilastro della sua famiglia se ne fosse andato, dopo tutto il dolore che aveva dovuto sopportare per la perdita della madre. Trán era una ragazza forte, quando doveva di difendersi, ma era incredibilmente debole di fronte alle avversità che la vita le aveva riservato. Senza la presenza di qualcuno che la confortasse e l’aiutasse a superare anche quel momento, Trán si sarebbe distrutta come un vaso caduto sul pavimento.

«All’inizio...» mormorò il Nano, in un filo di voce. «All’inizio non si rendeva conto.»

Era comprensibile, pensò Brethil. Probabilmente credeva di vivere un incubo. Aveva cercato di convincersi della medesima cosa quando aveva trovato i pochi resti del padre lasciati dagli Orchi; o quando aveva visto Halbarad cadere davanti ai suoi occhi, senza poter fare niente per impedirlo.

«I suoi fratelli?»

«Se la caveranno.»

La donna annuì, consolandosi almeno con quel pensiero. Se avesse perduto anche uno solo di loro, o il gemello in particolare, non ci sarebbe stata via di ritorno.

Con un sospiro, Brethil si mosse sul letto, mettendosi a sedere con fatica e guardando intensamente la porta, che mai come allora le pareva distante. Sentiva i punti della ferita pruderle incessantemente da quando aveva aperto gli occhi, sebbene il dolore pareva passato, e rammentò di come un Haradrim le avesse piantato un pugnale sull’addome, tranciandole i muscoli e facendole perdere l’equilibrio. Se non fosse stato per Ecthirion, a quell’ora starebbe riposando sulla lettiga di morte, piuttosto che su quel letto confortevole.

«Mi è stato ordinato di non lasciarti andare da alcuna parte, mia signora.» l’avvertì Thorin, incrociando le braccia al petto e indovinando le sue intenzioni. D’altronde, per poco che la conosceva, capiva perfettamente quanto scomodo potesse essere per lei restare bloccata in quattro mura.

«Lo immaginavo.» soffiò lei, lasciandosi ricadere sui cuscini e osservando il soffitto. «Ioreth darebbe ordini persino ad Aragorn, se lo ritenesse un peso davanti al suo cammino. Sa essere molto convincente.»

Il Nano si lasciò sfuggire uno sbuffo – se fosse divertito o meno non seppe dirlo, ma quanto pareva aveva avuto a che fare con la vecchia. «Mi pare ovvio che non ho intenzione di seguire le sue direttive. Sei grande abbastanza da saper gestire le tue ferite senza procurartene altre; e sono un Re, non prendo ordini, li do. Quindi–» Prese una gruccia in legno, che l’avrebbe sostenuta meglio. «–vai pure dove credi, poiché immagino voglia accertarti della salute dei tuoi compagni. Baderò io alla ragazza.»

Brethil lo osservò con perplessità, tentando di scovare qualche inganno nella sua gentilezza; ma infine annuì, tentando di mettersi in piedi a fatica, aiutata dal Nano e cercando di non svegliare Trán. Sapeva bene che sarebbe dovuta rimanere immobile, ora che la ferita iniziava a rimarginarsi ed era più delicata che mai. Ma ora che era cosciente non sarebbe rimasta con le mani in mano. Doveva sapere, doveva accertarsi che gli altri stessero bene.

Guardò l’amica con tristezza, sospirando. «Sire Thorin, so che i rapporti tra voi non siano dei migliori, ma vorrei chiederti di prenderti cura di lei ancora per un po’.»

Lui si ritrovò a ridere piano prima ancora che potesse rendersene conto. «Credo che tu abbia bisogno di aggiornamenti, dama Brethil, giacché parecchie cose sono mutate dal giorno della tua partenza. Ma sappi questo: per nessuna ragione al mondo lascerò che la ragazza si annulli con il suo lutto. Ti promisi di badare a lei ed è ciò che ho fatto... e che ho intenzione di continuare a fare, anche una volta che saremo tornati a casa – se lei continuerà a permettermelo.»

Gli occhi grigi della Dúnadan sgranarono nel riconoscere in quello sguardo serio lo stesso che Boromir le rivolgeva quando era preoccupato per la sua sorte. «Sì, credo che avrò bisogno di un resoconto; ma per ora mi accontenterò delle tue parole. Sono felice per voi, Thorin. È ciò che meritate entrambi: un po’ di luce in tutto questo buio.»

Il Nano chinò il capo per ringraziarla. Prima di lasciare la stanza, Brethil si voltò un’ultima volta verso di lui, che ora sedeva sul bordo del letto e accarezzava il viso dell’amica con devozione e affetto, e sorrise, decisamente più tranquilla. Quando fu fuori dalla sua stanza, Brethil si guardò intorno, cercando di capire che ore fossero dalla luce ormai rossastra del sole che filtrava dalle finestre, e decidendo da che parte andare.

Sperò solo di non incappare in Ioreth, altrimenti avrebbe sentito le sue urla per il resto dei suoi giorni.

Non sapeva se ci fosse qualche viso conosciuto, tra le Case, ma si ricordò di Ecthirion e della ferita che aveva riportato durante lo scontro con Mardil, così decise di iniziare a cercare lui; entrambi avevano molto su cui discutere e in cuor suo Brethil sperò che stesse bene. Ma non fu lui che trovò, quando aprì la prima porta che le capitò a tiro, bensì gli occhi preoccupati e lucidi di Faramir, che si spostarono immediatamente su di lei.

Brethil trattenne il fiato, sapendo bene chi avrebbe trovato sul letto della stanza. Si poggiò contro il muro, poiché né le gambe né la stampella ebbero il potere di reggerla più. Boromir era mortalmente pallido e poté dirlo anche senza essersi avvicinata al suo capezzale. Aragorn, anch’esso con un aspetto orribile, era chino su di lui, intento a medicarlo da giorni interi. Il profumo dell’athelas inebriò i suoi sensi, ma neanche l’effetto tranquillante della pianta ebbe il potere di calmarla.

Sentiva la stanza vorticarle intorno e un terribile senso di nausea le fece portare una mano alla bocca. Faramir le fu accanto in un attimo, temendo che crollasse, e fu lesto abbastanza per afferrarla in tempo, prima che cadesse sulle ginocchia. Avvicinò una sedia al letto e la donna lì si sedette, stringendo subito le mani di Boromir, fortunatamente ancora tiepide.

Non ci fu bisogno di domande, poiché il Re sapeva bene quali lei gli stesse tacitamente chiedendo. Un profondo senso di vergogna e svilimento lo invase, portandolo a chinare il capo, incapace di guardare l’amica negli occhi. Non seppe come trovò il coraggio di raccontarle del suo ridicolo piano, di come gli avesse permesso di seguirlo. «Pare che ultimamente io non abbia fatto altro che spedirvi verso missioni suicida.» terminò, con falso sarcasmo.

Brethil, però, non ebbe il cuore né l’intenzione alcuna di accusarlo per le sue decisioni. Non lo avrebbe fatto per averla fatta cavalcare verso l’Harad, pur conoscendo i numeri delle due parti, né per l’idea folle che aveva avuto ad Osgiliath; per tutti i Valar, avevano cavalcato verso le porte del Morannon, solo qualche mese prima! Lo conosceva bene ed era sicura che nessuna delle sue decisioni non fosse prima studiata al dettaglio. Ed erano fin troppo simili, perché anche lei non avrebbe accettato di rimanere con le mani in mano, mentre la morte camminava lungo i confini del suo regno.

Così scosse il capo. «Non temere il mio giudizio, Aragorn, perché non sarò certo io a condannare le tue scelte; non ne ho il diritto. Se tu mi dicessi di correre tra le fiamme di un balrog per salvare il tuo Regno, non esiterei un istante di più, anche se significasse la mia fine.»

Il Re riuscì a sostenere lo sguardo sincero dell’amica, gli occhi lucidi per le lacrime.

«Ora dimmi, si riprenderà?» domandò Brethil, in un filo di voce.

Aragorn annuì. «Sì, vivrà. Ma avrà bisogno di qualche tempo per riprendere le forze.»

«Così tu, mio signore.» disse Faramir, parlando per la prima volta.

«Il mio corpo non chiede ancora pietà, amico mio. Avrò modo di riposarmi, quando avrò terminato i miei doveri e riparato i miei errori.»

Brethil tornò a guardare Boromir e gli accarezzò la mano. Le parve irreale che fosse nuovamente lì, davanti ai suoi occhi. Quelle settimane di lontananza non le erano mai sembrate così lunghe e l’ultimo periodo aveva dovuto addirittura convincersi del fatto che, con molta probabilità, non l’avrebbe potuto più vedere. E invece eccolo lì, grande e grosso come lo ricordava, sebbene ora fosse innocuo come un cucciolo di cane. «Chi abbiamo perduto?»

Lo sguardo di Aragorn si fece duro per la tristezza, ma fu Faramir a rispondere, poiché il caduto era ormai parte dei Raminghi dell’Ithilien ed era morto tra le sue braccia. «Elegost il Dúnadan. Uccise il Comandante degli Esterling, lo stesso che ha ridotto mio fratello in queste condizioni. Le sue ultime parole furono per il Sovrintendente... e per te, mia signora.»

Brethil chiuse gli occhi, sentendo le lacrime pizzicarglieli con urgenza. Elegost era stato un caro e silenzioso amico, da quando aveva memoria; non aveva mai capito, o forse non aveva mai voluto farlo, se la devozione che aveva nei suoi confronti fosse mera amicizia o un sentimento più forte. Boromir, durante sporadici momenti di gelosia, le aveva confessato che credesse che l’uomo l’amasse, e lei rispondeva sempre con una risata e un diniego del capo. Qualsiasi cosa Elegost provasse per lei, era sempre stato un ottimo compagno di viaggio e di battaglie e saperlo in una pira di legno, che attendeva di essere bruciata insieme ai cadaveri degli altri caduti, le strinse il cuore.

La morte era un aspetto della sua vita a cui avrebbe dovuto essere allenata, poiché l’aveva vista in faccia fin troppo spesso; eppure non ci si abituava alla perdita degli amici o della propria famiglia, perché era come se morisse con loro una parte di lei. Quella più grande se n’era andata con i genitori e, successivamente, con la dipartita di Halbarad.

Guardò Boromir, ancora profondamente addormentato, e gli baciò la mano. Era più che sicura che se l’Uomo non avesse riaperto gli occhi, allora sarebbe morta di dolore anche lei. Il pensiero fu confortante, in un certo senso. Qualunque fosse la fine dei loro corpi e delle loro anime, era più che sicura che vi sarebbero andati insieme. Perché il giorno in cui Brethil aveva salvato la vita di Boromir fu lo stesso in cui avevano irrimediabilmente sancito il legame che li univa e che li avrebbe legati fino alla fine dei loro giorni, e oltre.

«La tua ferita?» domandò Aragorn, spezzando il flusso dei suoi pensieri. «Non dovresti essere in piedi, amica mia.»

Lei scrollò le spalle. «Sopravvivrò. Ora è solo fastidiosa... odio non potermi muovere liberamente.»

«Lo so bene; non saresti qui, altrimenti.» Il Re si lasciò sfuggire un sorriso e si rizzò sulla sedia. «Lascia che la controlli. Sono certo che Ioreth e mia moglie abbiano fatto un buon lavoro, ma vorrei assicurarmene di persona.» E lei non si ritrasse, perché sapeva bene che non avrebbe avuto la forza fisica né mentale di farlo.

Fu dopo che l’Uomo le pulì la ferita con le sue erbe e gliela fasciò con bende pulite, che Faramir e Aragorn lasciarono la stanza e lei, con un po’ di fatica ma tanta determinazione, si stese accanto al suo Sovrintendente, Capitano e Signore, accarezzandogli il volto e quei capelli biondi che tanto amava sfiorare. Si addormentò così, con il capo sul cuscino accanto a quello dell’uomo e un braccio attorno al torace robusto e levigato dagli allenamenti.

Le era mancato il suo calore e il suo odore.

E lei, dopo tanto tempo di smarrimento, si sentì finalmente a casa.

 

 

 

*

 

Per tutti i Valar, la prima parte è stata uno strazio da scrivere. Spero di non aver fatto un pasticcio. >_<

Tutti più sollevati che Boromir vivrà? Mi credevate davvero così sadica da ammazzare il mio personaggio preferito? *-* Ah!

Al prossimo capitolo – che non ho idea di quando giungerà, ohibò! Ma spero entro la fine del mese. :)

Un caro saluto,

Marta.

 

 

   
 
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