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Autore: avalon9    05/06/2008    8 recensioni
Gli youkai sono essere terribili: affascinano e uccidono. Sono esseri diversi. I ningen sono insignificanti, per uno youkai; creature semplici, irrazionali, che trascinano la vita senza comprenderla. Dei ningen gli youkai non si curano; li ignorano con superiore indifferenza.
Sesshomaru è youkai ed è orgoglioso della sua essenza. Ma un inverno, incontrerà una ningen e, da quel momento, la linea netta che separa uomini e demoni inizierà ad assotigliarsi.
Genere: Romantico, Malinconico, Avventura | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Sesshoumaru
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CAPITOLO 45

Vi ho fatto aspettare. Più di sei mesi prima di riuscire a completare e postare questo capitolo.

Per molti motivi. Uno, l’odio e l’insoddisfazione che mi era nata nei riguardi di Alessandra. E allora, piuttosto che ucciderla, torturarla o altro, ho preferito per un po’ abbandonare la storia. Dedicarmi ad altro; altre fan fiction.

Adesso, ho ripreso in mano questo capitolo che sonnecchiava da troppo tempo nel mio computer. Completato, limato, rifinito e pronto.

Per essere letto da chi, nonostante tutte queste dilatazioni e sbalzi temporali, ha ancora la voglia di seguire questa storia.

 

Grazie infinite, fin da adesso, a tutti coloro che lo leggeranno, e soprattutto a chi mi segue da tanto, fingendo di ignorare questi miei sbalzi e il poco tempo che ho per scrivere. Posso rassicurare su una cosa, però: passassero davvero altri sei mesi dal prossimo capitolo (speriamo di no^^), ho la ferma intenzione di concludere la storia. Nella sua trilogia.

 

Grazie infinite a Lete89, per esserci e per essere la mia prima lettrice. Per strami accanto e farmi sorridere con le tue pazzie e le tue storie piene di ironia.

 

E grazie anche a Celina, Lilika, Lucy6, Hypnotic Poison, Kaimy_11, Miriel67, KaDe e Daniela.

 

 

 

Vi lascio al capitolo adesso e mi permetto di informarmi che, come di consueto, ho aggiornato anche il dizionarietto, soprattutto vista la presenza di vai termini nuovi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CAPITOLO 45

PORTAMI VIA

 

 

Pazienza. Comprensione.

Glielo aveva ripetuto almeno mille volte, prima che lasciasse il palazzo. Non doveva aggredirlo. Per nessun motivo. Altrimenti, lo sapevano benissimo entrambi come si sarebbe concluso quel possibile, quasi fantomatico, dialogo: insulti e mani. Una rissa, che non avrebbe portato a nulla, aumentando acredine e tensione. Inconcludente. Un capriccio da bambini, soprattutto in quella situazione.

 

Glielo aveva ripetuto mentre si era legato al fianco la katana, un istante prima che iniziasse a fiutare l’aria nella speranza di cogliere almeno una traccia, un minimo indizio che gli permettesse di scegliere la direzione da prendere senza doversi affidare completamente alla fortuna. Dannazione! Non aveva la minima idea di dove si potesse esser cacciato, e sapeva benissimo che il suo era un esasperato e quasi disperato tentativo. Ritrovarlo o anche imbattersi in lui o nel suo odore per pura fortuna era una possibilità con minime percentuali di riuscita.

 

Parlare, parlare…Kagome era stata chiara: doveva cercare di farlo ragionare. Possibilmente evitando di lasciarci anche la pelle. Se si era allontanato da palazzo, Sesshomaru doveva avere le sue motivazioni. Soprattutto per defilarsi in un momento critico come quello, con Alessandra che ancora versava in condizioni disperate e la realtà bellica da concludere. In definitiva, però, ciò che aveva maggiormente destato sconcerto era il fatto che lo youkai se ne fosse andato in sordina, senza avvertire nessuno, senza armatura e seguito. Nemmeno quel ridotto gruppo che da sempre lo accompagnava. Sembrava davvero una fuga. Lucida, calcolata nei dettagli, attuata con consapevolezza. Ma pur sempre una fuga. Stonata. Soprattutto se associata a lui. Al Principe.

 

Inuyasha imprecò fra i denti, tuffando la testa sotto la piccola cascata. Era quasi allo stremo delle forze. Tre giorni passati a correre, con i sensi tesi al massimo per captare ogni più piccolo elemento, avrebbero provato anche un demone. Si passò svogliatamente una mano sulla ferita al braccio. Restava una tenue striscia rosata che andava pian piano svanendo. Non credeva che il veleno di quel tirapiedi di Naraku lo avrebbe provato fino a quel punto; in definitiva si era sempre vantato di esser riuscito a sviluppare una forza non inferiore a quella di uno youkai, compresa la resistenza al veleno. Scosse la testa e la tuffò di nuovo nell’acqua. Non erano stati il veleno, la battaglia, tutta la tensione accumulata a sfiancarlo, lo sapeva benissimo. Il motivo della sua debolezza, dell’apatia di cui era stato preda nei giorni passati aveva una spiegazione maledettamente semplice, e dannatamente umana: era preoccupato, e si sentiva impotente. Incapace. Inutile. Se chiudeva gli occhi, rivedeva la piana disseminata di cadaveri e drappelli di uomini ancora intenti a scontrarsi. E poi, loro. Alessandra e Sesshomaru. Lui che la stringe a sé, lui che sembra paralizzato da un qualcosa di sconosciuto, lui che gli lancia quell’occhiata strana, quasi di supplica. Alessandra nuda fra le braccia di suo fratello, le sue urla nelle orecchie, lacrime e sangue. Sesshomaru che abbandona la battaglia, che la riporta indietro, a palazzo, al sicuro. Ci aveva creduto: suo fratello sembrava aver abbandonato la rigidità di sempre. Aveva dato fondo a tutte le sue energie per tenere il suo stesso passo ed essere con lui, al suo fianco, quando avrebbe varcato l’entrata del palazzo. Senza un vero motivo. Di protezione il Principe non abbisognava di certo, nemmeno se esausto e ferito. Eppure, lui aveva sentito il bisogno di esserci. Dietro di lui, un passo dietro di lui; ma presente. A coprirgli le spalle. A rassicurarlo che nessuno lo avrebbe attaccato a tradimento mentre percorreva la piazza d’armi, perché lui lo avrebbe impedito. Ad ogni costo.

 

Sfregò l’acqua fredda sul corpo sudato e accaldato. Un brivido gli fece incurvare le labbra: puro piacere. Non ce la faceva più: la calura estiva era davvero insopportabile, una cappa pesante e opprimenti che rendeva gravoso il respiro, quasi un rantolo strascicato fra le labbra. Riempì le mani e bevve avidamente. Tre, quattro, cinque volte. La gola bruciava in modo fastidioso e lo stomaco si contorceva. Strizzò gli occhi e si sfregò nuovamente la faccia. Pazienza. Aveva troppa sete e troppo poco tempo per aspettare; al diavolo anche la congestione. Un po’ di crampi allo stomaco non gli avrebbero di certo impedito di correr dietro a suo fratello. E quella pausa era solo una piccolissima concessione. Dopo tre giorni che correva, fiutava, ansimava senza concedersi una sosta il tanfo del sudore gli aveva dato il voltastomaco. Aveva sentito il bisogno quasi viscerale di liberarsi del kariginu e della nagajuban e avvertire l’acqua fredda sul suo corpo. Annullare ogni pensiero, naufragare nell’acqua, sentirla scendere lungo i muscoli, invadere la bocca, la gola, allargarsi nello stomaco.

 

Ci stava mettendo troppo. Troppo tempo. E, in quella situazione, anche pochi minuti potevano essere determinanti. Troppo. Troppo. Troppo. A recuperare completamente le forze; a decidersi di staccarsi da quella polla d’acqua; a trovare quel maledetto testardo. Sparito chissà dove. Inuyasha arricciò le labbra a scoprire i canini appuntiti. Se ci pensava gli veniva una rabbia! Rabbia e ancora rabbia. Parlare. Kagome glielo aveva raccomandato in mille modi: appena avesse trovato Sesshomaru doveva parlargli. Farlo ragionare.

 

Scosse la testa. Certo che ci avrebbe parlato, ma non prima di avergli assestato un bel pungo per smuovere almeno un po’ l’indifferenza del fratello. Non la sopportava proprio, la sua espressione di sufficienza, di sprezzante alterigia. Con lui se l’era sempre permessa, quasi naturale, e alla fine Inuyasha si era rassegnato a scorgergli sempre sulle labbra quel sorrisetto di commiserazione. Un angolo inclinato appena, a lasciar intravvedere le zanne pericolose. Sì: gli avrebbe rifilato un pugno, a costo di dover affrontare un altro estenuante duello con lui e dimenticarsi anche il motivo per cui si era messo sulle sue tracce. Alla fine, Inuyasha non credeva che avrebbe comunque potuto risolvere la questione pacificamente: un faccia a faccia fra loro si concludeva quasi sempre, inevitabilmente, con le spade che cozzano e le loro auree che si scontrano.

 

Sospirò. Sesshomaru non si era mai abbassato ad ascoltare le sue richieste e le sue domande; in passato, lo aveva anche schernito del fatto che ignorasse come fosse morto loro padre e che ruolo avesse avuto un ningen in tutta la vicenda. Imprecò, schiaffeggiandosi furiosamente le braccia. Voleva esser certo di lavarsi completamente il sudore, la polvere e il caldo.

 

Si passò una mano sul viso, rialzando la frangia disordinata e fradicia. Cielo azzurro; abbagliante. Socchiuse gli occhi. Quando aveva lasciato il palazzo, albeggiava appena e l’aria sapeva di pioggia ed erbe messe a macerare. Una decisione improvvisa, ma in definitiva ogni sua azione era dettata dall’istinto più che dalla fredda razionalità. Stiracchiò le labbra. Decisamente, non era la guida migliore per un esercito; né per un regno. Kumamoto gli aveva raccontato di come il suo carattere somigliasse a quello di Inutaisho, ma Inuyasha ancora non riusciva a capacitarsene. Per detenere il potere a capo del Clan e della Famiglia erano necessarie astuzia, razionalità esasperante, autocontrollo, disciplina. Tutta una serie di caratteristiche che, volente o nolente, l’hanyou era costretto a riconoscere in Sesshomaru. Ma lui no. Lui non le aveva, quelle qualità. Non che ne avesse mai sentito la mancanza o se ne fosse mai interessato; tuttavia, i mesi trascorsi a palazzo, a stretto contatto con il fratello, in una vicinanza e intimità altrimenti sconosciute, benché sempre centellinate, gli avevano sottolineato differenze che ai suoi occhi erano, ormai, quasi insormontabili.

 

E non da ultimo, il fiuto. Arricciò il naso contrariato. In passato, il suo naso gli aveva permesso di individuare la sua preda anche a distanza. Spesso vi si era affidato per cercare una traccia di Naraku, per incappare nel fetore di Koga o individuare nel vento l’odore di Sesshomaru. Adesso, invece, niente. Suo fratello aveva scelto il momento migliore per dileguarsi: poco prima di un violento temporale, che aveva assorbito ogni possibile traccia. L’unica possibilità che gli rimaneva era quella: continuare a muoversi nella speranza di cogliere il suo odore, di imbattersi in un indizio, in un qualcosa che gli facesse capire che era sulla buona strada. Ringhiò di disappunto e tuffò la testa sott’acqua, permettendo alla piccola corrente di rinfrescargli il viso, insinuandosi nelle pieghe della pelle, nei capelli scarmigliati. Aveva agito d’impulso, come suo solito. E se ne era andato da palazzo senza considerare il vantaggio che Sesshomaru aveva su di lui. Tre giorni. Tre giorni possono essere incolmabili, soprattutto per lui. Risollevò il viso e si stropicciò la faccia; il kaiginu galleggiava pigramente in una piccola pozza a poca distanza, e se non fosse stato per il fatto che doveva decidersi a lasciare quel refrigerio e rimettersi in caccia, Inuyasha si sarebbe volentieri concesso un lungo, lunghissimo bagno. Scosse la testa. Avrebbe avuto tempo. Tempo per un bagno, tempo per distendersi sotto le fronde di un albero e assaporare l’aria un po’ pensate dell’estate. Tempo per incrociare le braccia dietro la testa e osservare con sguardo annoiato i ningen affannarsi nelle risaie sotto quel sole che martella la testa e solleva una nebbiolina umida e malsana. Tempo per trascinare Kagome al piccolo torrente e divertirsi con lei; tempo per gustarsi il suo corpo lontano da occhi indiscreti, mentre lei restava sdraiata al sole con quello strano abito che la copriva appena. Si concesse un sorrisetto a metà fra imbarazzo e malizia. Adorava quando d’estate la portava in spalla; i vestiti di Kagome erano sempre corti e leggeri, e lui poteva accarezzarle le gambe con finta noncuranza, in un gesto apparentemente casuale e necessario per impedirle di cadere. Non che i kimono che aveva indossato nell’ultimo periodo o il costume da miko non le stessero bene, ma era diversa. Era una Kagome diversa.

 

Sì. Avrebbe avuto tempo per litigare con Miroku che cercava di sbirciare Sango e Kagome alle terme, tempo di mangiare una fetta d’anguria lasciata a mollo fino a sera e di preparare lunghe strisce di carta per quella festa che i ningen celebrano in estate. Avrebbe costruito anche lui una piccola lanterna di legno e carta di riso, e alla sera sarebbe andata sul lago con i suoi amici. E l’avrebbe vista allontanarsi nel buio, cullata dalla corrente. Non gli importava cosa volesse dire, non lo sapeva e non gli interessava saperlo; gli bastava la mano di Kagome della sua, il suo respiro a solleticargli l’orecchio con spiegazioni che non ascoltava. Sì; la sua estate era quella. E non aveva alcuna voglia di rinunciarci per correr dietro alle trovate strampalate di suo fratello.

Si massaggiò lo stomaco e si diresse verso la riva. Gli hakama gonfi d’acqua gli rallentavano i movimenti, e anche la casacca sarebbe stata dannatamente pesante, ma non aveva il tempo di aspettare che i vestiti si asciugassero, e poi, in fondo, tenendoli addosso l’acqua che evaporava gli avrebbe dato un po’ di refrigerio. Strizzò gli occhi e cercò di ignorare lo stomaco che brontolava. Erano tre giorni che non si fermava un attimo, nemmeno per mangiare qualcosa. Gli premeva solo ritrovare Sesshomaru, e trascinarlo di nuovo a palazzo. Da Alessandra. Che lui lo volesse o no. In quel momento, non gli interessava minimamente cosa potesse passare per la testa di suo fratello. Sapeva solo che Alessandra era in un futon, allo stramo delle forze, forse davvero al limite della sua resistenza. Da sola. Strinse gli artigli attorno alla stoffa. Non sopportava l’idea che Alessandra potesse non farcela, che sarebbe potuto tornare a palazzo e vederla composta nel futon, con il kimono bianco e le mani intrecciate in grembo. Non si permetteva di soffermarsi su quel pensiero, ma la testa continuava a soffiargli all’orecchio quella possibilità. Quella maledetta, ovvia, semplice possibilità. Perché non c’era nulla di più facile che morire per una ferita riportata in battaglia; perché la morte per una semplice malattia era la quotidianità del suo mondo; perché a volte nemmeno i poteri degli youkai erano in grado di curate certe ferite e i ningen, prima o dopo, comunque, sono destinati ad andarsene.

 

Inuyasha respirò pesantemente. Anche sua madre era morta, e lui non aveva potuto far nulla per impedirlo. Solo restarsene lì, a fissare il suo volto immobile e la luce tenue della candela che tremava nella sua mano. Era stata l’ultima volta che l’aveva vista, con il kimono bianco profumato di ortensia e i capelli con qualche striatura d’argento attorno al viso ancora giovane. Se ne era andata senza nemmeno salutarlo, senza lasciargli un sorriso, una lacrima, un abbraccio troppo debole. Se ne era andata e lui non era seduto accanto al suo futon; lui era da qualche parte. Forse al fiume, forse solo oltre le shoji a sonnecchiare o rincorrere una palla. Se ne era andata in un pomeriggio un po’ nuvoloso, di quelli che portano pioggia e l’odore del mare oltre le colline. Strinse i pugni; appena sua madre era morta, suo nonno aveva provveduto a sbarrargli l’accesso del palazzo e a organizzare il funerale. Veloce e furtivo come se si stesse per seppellire un eretico, un assassino. Ma sua madre non era né assassina né eretica. Aveva fatto solo uno sbaglio in vita sua: permettere a Inutaisho di amarla e tenere lui. Lui che l’aveva costretta a vivere segregata in casa; lui che le aveva tolto la possibilità di un matrimonio onorato, il decoro di una donna consorte di un feudatario potente, la stima di gente, conoscenti e parenti. Lui che le aveva tolto l’affetto di suo padre e l’appoggio della sua famiglia. Izayoi aveva trascorso la vita nella casa paterna, sorridendo alle sorelle che se ne andavano spose di nobili signori, abbassando gli occhi davanti alla bellezza del fratello e inghiottendo lacrime ai suoi severi rimproveri. Nessuno l’aveva mai perdonata. Avrebbero potuto anche capire se si fosse concessa ad un uomo. Sarebbe stato difficile accettare, ma non impossibile. Bene o male, anche una donna svergognata, che si è concessa prima del matrimonio, può ancora sperare di ottenere onore per sé e la propria stirpe. Il figlio bastardo? Non è un problema nemmeno quello. Si può far sparire; venderlo come servo e semplicemente dimenticarsi della sua esistenza. A discapito del marito e in base all’abilità della donna riuscire a farlo entrare nella nuova famiglia.

Sarebbe stato tutto molto più difficile, se si fosse innamorata di un uomo, sposato e scapolo, di un brigante, di un contadino, ma non impossibile. Ma non si può perdonare chi si è concesso a un demone. Chi ha ceduto alle lusinghe di un piacere che è divino, e malvagio. Si possono amare gli dei, ma non si devono amare i demoni. Questo il credo, il dovere. Questa la legge. Izayoi aveva sbagliato. Aveva amato il più potente dei demoni, il signore del mondo, e gli aveva partorito un figlio. Bastardo, sporco, sbagliato, ibrido, ma pur sempre un figlio.

Un bimbo che correva rapido per le sale del palazzo del nonno, che mostrava la superiorità di un sangue diverso, ferino e pericoloso. Un bimbo che aveva i tratti spaventosi di qualcosa di proibito, che era facile riconoscere e additare come diverso; chiamare hanyou.

 

Inuyasha finì di sistemare il karigiru e riformò il nodo degli hakama. Erano fradici, ma non importava. Al massimo due ore, e avrebbe rimpianto la sensazione dell’acqua fredda sulla pelle. Concesse un ultimo sguardo all’acqua e all’ombra, tese i muscoli e saltò. I cespugli di sakaki frusciavano appena al suo passaggio. Non sapeva esattamente dove dirigersi, ma l’importante era non tornare indietro, di quello ne era certo. Sesshomaru non avrebbe mai ripreso la direzione dell’ovest con il rischio di esser fiutato; e nemmeno a sud era possibile. C’era ancora l’esercito di Shin-sama accampato nei territori del Kansai. Se suo fratello voleva passare inosservato, come era ovvio, non si sarebbe mai diretto verso meridione. No. L’istinto gli diceva di continuare verso Est. Solo verso Est. Non sapeva perché, ma qualcosa dentro, nel cuore, nella testa, o in qualunque cosa avesse, gli diceva di correre verso Est. Solo in quel modo avrebbe potuto ritrovarlo.

Per istinto. Come era stato l’istinto a spingerlo nella stanza di sua madre senza sapere esattamente perché. Prima che altri gli dicessero qualcosa; prima che quelli che aveva chiamato zii lo cacciassero e cercassero di ucciderlo. Prima che quello che era stato suo nonno lo afferrasse per i capelli e gli facesse luccicare davanti agli occhi una katana; chiamandolo bastardo, chiamandolo figlio dei demoni.

 

Inuyasha contrasse la mascella in un ringhio sordo in gola. Era stata la prima volta. La prima volta che i suoi artigli aveva ferito; la prima volta che aveva sentito una forza selvaggia, calda, invaderlo, i rumori trasmettersi nitidi ai suoi sensi, gli occhi vedere le lame, le mani, i pugni una frazione di secondo prima di sentirli sulla pelle. La prima volta che i suoi movimenti si erano fatti veloci e precisi, quasi felini; mentre gli occhi terrorizzati continuavano a fissare quell’uomo che aveva chiamato nonno. Quell’uomo a terra che si contorceva dal dolore stringendosi un polso e cercando di arginare il sangue. La prima volta che aveva sentito l’odore del sangue, del sangue di un suo parente, bagnargli la pelle, imprimersi negli artigli e nel cervello, assieme alla sensazione spaventosa, un misto di paura, gioia, terrore e compiacimento, nell’avvertire la pelle lacerarsi, l’osso spezzarsi con un schiocco secco e l’ostacolo che gli impediva di fuggire venir infranto con rabbia cieca.

 

Imprecò fra i denti e si flettè le ginocchia. Avrebbe fatto prima saltando di ramo in ramo; la foresta era troppo fitta, e lui non aveva tempo da perdere nel cercare di aprirsi un varco. Non sapeva esattamente dove fosse; non si era preoccupato di annotare mentalmente la direzione che prendeva, di incidere un qualche segno per ritrovare la strada. Il fiuto lo avrebbe riportato sempre a Musashi, e da lì non sarebbe stato un problema ritornare a palazzo. Da solo ci avrebbe messo al massimo due giorni. Coprire quella distanza non era affatto impossibile per lui, se tagliava diritto e non si faceva distrarre. Ma non era quello che voleva. Tornare, certo. Ma non da solo. Tornare con lui, anche per esser costretto subito dopo ad andarsene. Il tempo era scaduto, lo sapeva bene. La guerra aveva ancora qualche strascico, ma ormai non poteva più considera in corso; Sesshomaru aveva miracolosamente recuperato la vista, e anche se nessuna riusciva a trovare una spiegazione logica per quanto avvenuto, era palese che a quel punto la sua presenza a palazzo era totalmente inutile. Spezzò un ramo basso che gli aveva strisciato il volto. Non gli interessava restare nella casa di suo padre; lo sapeva fin dall’inizio, fin da quando aveva accettato di seguire Alessandra, che sarebbe stata solo una situazione temporanea. Labile. Si era adagiato in quella realtà instabile e indefinita, lasciandosi cullare dalle sensazioni nuove che ne aveva ricevuto. La vicinanza con demoni che non lo disprezzavano per ciò che era, come Koga e soprattutto Kumamoto; gli squarci sul passato di suo padre, sul suo temperamento acceso e ironico, capace di infiammarsi per una sciocchezza e altrettanto abile nel mantenere la freddezza lucida e analitica di un sovrano. Il cozzare di convinzioni certe e di dubbi insinuati e lasciati lì, a maturare. Senza spiegazioni esaurienti. La consapevolezza di non esser più, davvero, solo, di aver trovato amici che sono pronti a sfidarti perché ti vogliono bene. In quei mesi aveva scoperto una realtà diversa da quella che aveva sempre visto o che si era rifiutato di vedere.

 

E poi, c’erano loro. Il legame con Alessandra; nato lentamente in una tenda da campo, sbirciando un volto umano troppo serio e controllato per essere vero. Scoprire una ragazza fragile e insicura, costretta a reggere le occhiate accusatrici e maliziose della corte; obbligata a frenare e calibrare ogni gesto per evitare dicerie e tensioni. Si era chiesto mille volte perché. Perché una ragazza dello stesso mondo di Kagome, una ragazza che di certo era abituata a un’altra vita, ad altre regole, che non era per nulla abituata alla scarsa considerazione di cui erano oggetto le donne nella sua epoca, accettasse tutto quello. Perché piegasse la testa e soffocasse i singhiozzi quando i guaritori la schernivano con malcelata ironia. Offese pesanti, a volte. Molto pesanti. E Alessandra si limitava a un sorriso leggero, strano, quasi inquietante. Un sorriso troppo tranquillo per esser naturale e spontaneo. L’aveva trovata più volte nella zona del grande padiglione che le era riservata, mentre di affaccendava inutilmente attorno al suo tavolo. Senza riuscire a concludere nulla; provette rovesciate e mani tremanti. Di rabbia o di tristezza. E lui fermo dietro il paravento improvvisato, a sbirciarla mentre sbatteva i pungi sul tavolo, mentre le spalle si stringevano e incurvavano prima di tornare dritte e ferme. Falsamente sicure e composte. Fermo a spiarla per cogliere delle lacrime che non ha mai visto, confuse con l’acqua con cui si lavava il viso per cancellare i segni della rabbia, della frustrazione e dell’umiliazione.

 

Aveva imparato a conoscere Alessandra e soprattutto a riconoscere la sua maschera di perfezione. Bugiarda, ma perfetta. Capace di gettare fumo negli occhi alla corte youkai, troppo inesperta di comportamenti umani e troppo assuefatta alla sua superiorità per riuscire a concepire che un ningen fosse qualcos’altro oltre a istinto animale. Inuyasha si concesse un sorriso quasi divertito. Anche gli youkai sono mossi dall’istinto; eppure accusano i ningen di esserne schiavi. Certi ragionamenti non riusciva a seguirli del tutto, forse in virtù del fatto che possedeva entrambe le nature, anche se incomplete. Conosceva per esperienza diretta l’istinto irrazionale e violento dei ningen: ti travolge come un fiume in piena, sottraendo qualsiasi capacità di discernimento, portando gli uomini a seguire una pulsione anche improvvisa senza soppesare le azioni e soprattutto le conseguenze. Per gli youkai è diverso: loro sono istinto al grado più alto. Pulsione irrazionale controllata dall’abitudine a calibrare ogni più piccola azione. Non tutti, certamente. Alcuni oni e soprattutto i demoni di infimo livello sono preda delle pulsioni al pari dei ningen. Ma youkai maggiori, come suo padre e suo fratello, loro sono capaci di frenare razionalmente l’istinto trasformandolo in qualcosa che è insieme passione violenta e lucida razionalità. Qualcosa che non si può nemmeno pretendere di capire, almeno di non provarla a propria volta. E Inuyasha ricordava quelle sensazioni, anche se distorte. Quando il suo sangue demoniaco prendeva il sopravvento, c’era un momento, un brevissimo, labile, inconsistente momento, in cui non era più un hanyou e non era ancora un mostro senza intelletto. Soltanto uno youkai. Perfetto, puro, completo. Con le strisce viola regolari, i canini appena più pronunciati del normale, i sensi più fini e i capelli serici e lucenti. Con gli artigli leggermente più acuminati senza esser ancora complete. In quei brevissimi secondi, avvertiva qualcosa. Qualcosa che non sapeva e non avrebbe mai saputo definire, ma che c’era. Una altro modo di percepire, di sentire. E non solo il mondo, non la semplice realtà che lo circondava. La percezione di se stesso, della sua essenza. Era quella che mutava. Totalmente. Strinse gli occhi. Era sempre stato tutto troppo maledettamente veloce. Non era mai riuscito a controllare quelle emozioni; il primo pensiero, poi, era sempre stato quello di dominare il sangue, riprendere il controllo e tornare indietro. Prima di trasformarsi, prima di perdere il proprio ego. Prima.

 

Si fermò su un ramo pulendosi con il dorso della mano il sudore che colava dal viso. Voltandosi indietro. Da qualche parte, a Ovest, oltre la foresta che stava attraversando, verso il contorno azzurrognolo delle montagne, c’era il palazzo. E nel palazzo i suoi amici, Kagome e Alessandra. Strinse il pugno contro la corteccia dell’albero. Se ne era andato appena avuta la conferma che Alessandra aveva ripreso conoscenza e che era fuori pericolo. Pochi minuti di veglia, in un’alba uguale alle altre, e che si era trasformata in un momento capace di render loro di nuovo il respiro. Yaone gli aveva confermato con quel sorriso orgoglioso che era fuori pericolo; il decorso sarebbe stato ancora lungo, ma la ferita era ormai cicatrizzata all’interno. Alessandra sarebbe sopravvissuto. Alessandra sarebbe tornata a vivere.

Inuyasha imprecò fra i denti, alzando una mano per ripararsi dal sole troppo forte. Non si era accorto di aver attraversato tutta la foresta. Si accucciò automaticamente fra i cespugli al limitare del cerchio d’ombra e spiò la vallata che gli si apriva davanti. Sembrava tranquilla, quasi monotona. In lontananza, credeva di scorgere il cratere grigio viola del Fuji; era quasi arrivato a Musashi. Procedendo ancora verso Est, nel giro di un giorno e mezzo al massimo sarebbe arrivato al villaggio. Si alzò e chiuse gli occhi, respirando lentamente l’aria pesante. Cercava una traccia, un odore anche solo appena accennato. Il fatto che l’erba non fosse piegata, ma compatta non significava niente. Suo fratello poteva esser passato da giorni, o semplicemente aver volato. Per spostarsi velocemente, Sesshomaru disponeva di varie risorse. Inuyasha si concesse un sorrisino storto. Benchè fosse un demone puro e potente, anche Sesshomaru aveva riportato gravi ferite durante la battaglia e per quanto il suo corpo demoniaco impiegasse poco tempo a rimarginarle, non poteva bastargli poco più di una settimana a restituirgli tutto le forze che la fatica, l’adrenalina e il sangue gli avevano sottratto. Anche se fosse stato in grado di ricorrere appieno a tutte le sue capacità, non avrebbe potuto reggere ancora una sforzo eccessivo. Ne era certo. Voleva esserne certo. Era l’ultimo brandello di speranza che gli restava; l’unica possibilità cui aggrapparsi per convincersi di poterlo ritrovare.

 

Schiaffeggiò la gamba in un gesto esasperato. Non lo sentiva. Non riusciva a sentirlo. Il vento non portava nessun odore, nessuna traccia. In quel momento, rimpianse di essersi messo a litigare con Koga per impedirgli di seguirlo. Se l’ookami lo avesse accompagnato, avrebbero potuto battere un territorio più vasto e nel dubbio dividersi per non escludere alcuna possibilità. No, invece. Aveva sbraitato e insultato in ogni modo pur di convincerlo a rimanere a palazzo; tirando fuori le scuse più assurde e cadendo e ricadendo nelle sue stesse parole. Per fortuna che Koga non ci aveva fatto troppa attenzione, preso anche lui dalla foga del discorso. Mosse istintivamente le orecchiette. Aveva sentito qualcosa. Qualcosa di poco chiaro. Tese i muscoli e fece scivolare la mano verso l’elsa della katana. Ancora nessun odore.

 

Se non fosse stato per l’intervento di Ayame, Inuyasha sapeva che avrebbe perso ancora mezza giornata a discutere. Dannazione! Anche Koga aveva le sue ragioni a volerlo seguire: restare a palazzo era una vera tortura per lui, ma non era quella l’occasione per evadere. Inuyasha era fermamente determinato a ritrovare suo fratello e a trascinarlo indietro. Questo era certo. E per farlo doveva esser solo. Doveva decidersi a parlar chiaro con lui come aveva parlato ad Alessandra. Tentennare e cincischiare era inutile, controproducente, dannoso e soprattutto non era da lui. Ma ammetteva che era spaventato. Non tanto da suo fratello; erano anni che aveva imparato a non temere Sesshomaru. A obbligarsi a non doverlo temere. Per dimostragli, senza un vero perché, che non aveva tutti i diritti di disprezzarlo solo per il suo sangue misto. Non temeva un discorso con lui; che si fosse risolto in una semplice conversazione o in un vero e proprio scontro. Temeva l’argomento da affrontare: Alessandra.

 

Fletté le ginocchia e fece scattare gli artigli. C’era qualcuno. C’era davvero qualcuno. E scivolava fra l’erba alta smuovendola appena. Un demone forse, o più semplicemente un serpente. Fiutò l’aria e rilassò i muscoli. Il musetto tremante di un leprotto si affacciò fra l’erba. Occhi grandi e orecchie in continuo movimento. Inuyasha distese la mano per colpire. Mangiare carne cruda non lo entusiasmava, ma non aveva tempo di accendere un fuoco e cucinare quella preda in modo decente. Pazienza. Si sarebbe accontentato di mettere qualcosa nello stomaco.

Il leprotto di acquattò fra le graminacee e continuava a fissarlo. Indeciso se scappare o restare. Inuyasha incurvò appena le dita e ruotò leggermente l’avambraccio. Tre, due, uno…Il vento gli solleticò il naso, e lo fece voltare verso nord-est di scatto. Odore di demone. Di inuyoukai. Cercò di afferrare meglio la sensazione, ma era stata troppo veloce. E troppo fievole. Rilassò la mano e scrollò le spalle, rimettendosi a correre. Lo stomaco avrebbe aspettato. Non era certo che potesse trattarsi di Sesshomaru, ma il suo naso non poteva sbagliarsi: odore di inuyoukai.

 

Inuyasha forzò l’andatura, realizzando con un brivido che si stava dirigendo proprio verso Musashi. Iniziava a riconoscere alcune pietre; il vecchio mulino abbandonato a un giorno di cammino dal villaggio. Allungò il collo respirando con urgenza. Niente. Non c’era odore di sangue nell’aria. Il villaggio non era stato attaccato. Masticò l’interno della guancia e saltò oltre il piccolo torrente. Non era normale. Sesshomaru evitava accuratamente il contatto con i ningen. Non aveva senso che si dirigesse verso un villaggio, ammesso che non avesse un motivo più che valido. Eppure, in quel momento, Inuyasha non riusciva a trovare una spiegazione logica al possibile agire di suo fratello.

Inghiottì saliva e gli balenò per la mente il sospetto che, se se lo fosse ritrovato davanti, non avrebbe saputo esattamente cosa dirgli. Come fare a convincerlo a tornare. Kami! Motivi ne aveva finchè ne voleva, ma in quel momento, mentre imprecava contro le gambe che ormai stavano iniziando a rallentare contro sua volontà, si domandò se Sesshomaru lo avrebbe ascoltato e soprattutto se lui sarebbe riuscito a convincerlo. Ridotto in quello stato, grondante sudore e con il fiato corto, ingaggiare un duello era una condanna a morte.

 

Scosse la testa. Energicamente. Anche quando aveva abbattuto le shoji degli appartamenti del fratello non era al massimo della forma, ma l’adrenalina e la rabbia erano state tali da fargli dimenticare ogni altra cosa. Alessandra stava male, era peggiorata all’improvviso, il sangue le impediva di respirare e davvero quella volta, avrebbe potuto rischiare di non superare la notte. E Sesshomaru se ne stava comodamente seduto nelle sue stanza. Inuyasha era giunto al limite della sopportazione e se ne era fregato che suo fratello avrebbe potuto sfoderare la spada, che le guardie a palazzo avrebbero potuto soverchiarlo facilmente. Se ne era fregato di tutto e aveva iniziato a picchiare sul telaio delle porte e a urlare. Fino a prendere le shoji a spallate e scardinarle; precipitarsi lungo le scale e spalancare la fusuma della camera da letto di Sesshomaru. E trovare il vuoto. Il futon ripiegato in un angolo, quello che avanzava della corazza di suo fratello disseminato sul tatami e le vesti lacere e insanguinate che aveva indossato il giorno della battaglia abbandonate davanti al fukurodana. Tokijin riposava tranquillamente al suo posto sul katanakake.

 

Nessuno si era accorto che il Principe aveva lasciato i suoi appartamenti; nessuno sapeva da quanto e perché. Inuyasha era rimasto lì per tutta la notte, seduto accanto alla mado a fissare le shoji della stanza di Alessandra. La tremula fiammella che definiva appena le ombre di Yaone e Homoe. Era da quella finestra che era saltato all’alba, con il cuore in gola e un sudore freddo a bagnargli la fronte. Spalancando le shoji e lasciandosi cadere a terra lungo il telaio mentre le parole di Yaone rimbombavano nella sua testa: Alessandra aveva passato al notte e anche se per poco aveva ripreso conoscenza. Poteva farcela. Poteva ancora farcela.

E Sesshomaru non c’era. Inuyasha imprecò e si protesse il viso con le braccia; si lasciò rotolare malamente lungo il pendio, sbattere contro i sassi che affiorano dal terreno e finire nel torrente. Disteso per metà sul greto sassoso e con la faccia al cielo che va arrossandosi. Il respiro pesante e affaticato e il corpo pressoché inesistente. Le gambe avevano ceduto all’improvviso dopo l’ennesimo balzo, facendogli perdere l’equilibrio e lasciandolo rotolare sull’erba alta e leggermente bagnata, scivolosa. E adesso era lì: faccia al cielo e mormorio dell’acqua nelle orecchie. Incapace di capire quale parte del corpo fosse per terra e quale in acqua. Se avesse qualche osso rotto o solo un po’ di ammaccature ed ematomi.

 

Aveva deciso di andare a cercare suo fratello; così. Quella mattina, vedendo il volto pallido di Alessandra e la speranza che guarisse riaprigli il cuore, aveva deciso che Sesshomaru sarebbe stato lì, quando la ragazza si sarebbe alzata da quel futon. Sarebbe stato lì che lo volesse o no. Anche solo per un’occhiata indifferente. Anche solo per un insulto rivolto a lui e un sopracciglio alzato verso la debolezza umana della ragazza. Per qualsiasi cosa, ma sarebbe stato lì. Non si aspettava che le prendesse la mano e le restasse accanto, ma nemmeno che se ne disinteressasse in quel modo. Era in collera con lei perché gli aveva disobbedito e aveva lasciato il palazzo? Era arrabbiato con se stesso perché non aveva potuto battere Morigawa? Benissimo! Per qualsiasi stramaledetto motivo fosse arrabbiato, Inuyasha aveva deciso che primo lo avrebbe fatto sfogare, e poi lo avrebbe trascinato indietro volente o nolente. E non ci pensasse nemmeno a far la predica ad Alessandra. Lei aveva agito in modo avventato, poteva concederlo, ma la colpa era anche di Sesshomaru e sua. Sua che non aveva saputo proteggerla, e di suo fratello che si era messo in una situazione tale per cui era normale che la donna che ti ama sia in preda al panico e all’angoscia.

Voleva proprio rimproverarla? Libero di farlo. Ma dopo. Quando Alessandra fosse stata bene; quando si fosse accorta che lui era lì al suo fianco e lei non rischiava più di tossire sangue. Dopo. Dopo avrebbe potuto dirle tutto quello che gli passava per la testa. E comunque avrebbe dovuto stare attento a non esagerare. Inuyasha sapeva che suo fratello era capace di ferire con la lingua in modo più preciso e doloroso che con la spada. E se lui era ormai avvezzo a quel comportamento, Alessandra avrebbe potuto reagire male. Troppo male.

 

Fece forza sui gomiti e riuscì a sedersi. La testa gli girava un po’ e aveva una fortissima nausea. Riguadagnò con fatica la posizione eretta e barcollò un po’ prima di trovarsi piegato sulle ginocchia. Una mano alla bocca a reprimere un conato. Immerse la testa nell’acqua per scacciare tutte le fastidiose lucine che gli appannavano la vista. Lo stomaco gorgogliava e continuava a mandargli crampi affamati. Maledizione, maledizione, maledizione! In quella settimana si era nutrito poco, e adesso aveva chiesto al suo corpo uno sforzo eccessivo e troppo prolungato. E pensare che poteva essere a pochi passi da suo fratello. Pensare che avrebbe potuto vederlo, avvolto dal tenue alone luminoso che lo contraddistingue, che lo lascia scorgere anche nel buio della notte. Cercò di nuovo di alzarsi in piedi, ma riuscì solo a mettersi seduto. Le forze stavano lentamente scivolando via; la testa sempre più pesante e la bocca secca. Strinse il saya. Se fosse svenuto, la barriere della spada lo avrebbe protetto per un po’. Ma gli faceva rabbia l’idea di esser bloccato lì, sul greto di quel torrente, troppo stanco per muovere anche solo un passo.

Un fruscio arrivò appena al suo udito. Assieme al riverbero rosso di una fiaccola. Strinse i denti e cercò di appiattirsi contro una roccia. Se erano ningen, forse non lo avrebbero visto e se ne sarebbero andati. Probabilmente c’era un villaggio nelle vicinanze.

Demoni era poco probabile, e soprattutto non era Sesshomaru.

Si tolse lentamente il kariginu e vi avvolse una pietra. Avrebbe creato un diversivo e avrebbe colto alle spalle chiunque fosse. Non aveva né la forza né la voglia di doverli uccidere; sarebbe bastato spaventarli un po’. Fino all’alba si sarebbero tenuti a debita distanza e lui avrebbe potuto riposare tranquillamente.

Fece scattare gli artigli e concentrò le ultimissime energie rimastegli per saltare. Un bello spavento e via, non ci avrebbe più pensato. Scattò.

 

“Inuyasha!”

 

 

 

*****

 

 

 

Non credeva che sarebbe arrivato fin lì.

Quando aveva lasciato il palazzo, l’unico pensiero che gli aveva attraversato la mente era stato quello di mettere più distanza possibile fra lui e quelle maledette mura. Fra lui e Alessandra. Era sgattaiolato oltre il muro di cinta guardingo e silenzioso, affidandosi all’innata leggerezza nei movimenti e confidando nella perfetta conoscenza di ogni centimetro di quel luogo. Era stato estremamente facile eludere le sentinelle di ronda, attraversare la cerchia interna, quello che restava dei giardini nascondendosi nell’ombra delle nuvole che si ammassavano dense e nere in cielo, scavalcare la recinzione esterna con un balzo agile e poi correre. Correre senza pensare alla direzione e a calibrare lo sforzo. Correre e basta. Per sentire l’aria insinuarsi nel kimono, sferzare il volto e sollevare i capelli. Sentire i muscoli protestare leggermente per la lunga inattività cui li aveva costretti, i tendini tirare quasi in modo impercettibile, ma costante. Fastidioso. Le gambe molli rafforzarsi sempre di più, per ostinato desiderio di non fermarsi, di vincere quell’ombra di sforzo che per un attimo, all’inizio, gli aveva inumidito la fronte. I passi attutiti appena dall’erba e il ritmico, cadenzato tintinnio di Tenseiga al fianco. Correre nella notte che si andava sempre più scurendo, infilandosi in banchi di nuvole basse e scure e uscirne appena inumidito. Correre mentre l’acqua si rovesciava sul suo corpo, cancellando ogni traccia del suo odore e il segno del suo passaggio. Inoltrarsi nelle foreste di bambù con un fruscio leggerissimo di vento, compiacendosi del silenzio naturale che non si interrompeva al suo passaggio veloce. Senza pensare al sole che acceca e fa assottigliare gli occhi, che appesantisce il giorno e rende gravoso il respiro. Solo correre. Correre. Correre.

 

E finalmente fermarsi senza il coraggio di voltarsi. Senza la forza e la voglia di afferrare la consapevolezza di dover tornare. Eppure, resta lì. Racchiusa in un nodo alla gola che non va né su né giù. Attorcigliata a mille altri pensieri che si riversano di nuovo violenti. Riprendere il cammino con passo sicuro e calibrato; un piede davanti all’altro nell’aria immobile e arroventata dell’estate, tenendosi ai margini di ogni possibile centro abitato, evitando qualsiasi contatto anche solo lontanamente visivo o olfattivo con i ningen. Permettendo al debole riflesso della sua youki di avvolgerlo nella notte, rendendolo affascinante e terribile. Un ignoto bagliore che si irradia nel buio, monito a chiunque.

Fermarsi e accorgersi che non è cambiato nulla. Che è come esser chiusi in quella stanza. Con gli occhi fissi sull’engawa poco distante. Fissi su shoji appena rischiarate dal tremore di una candela o spalancate per permettere all’aria di rinfrescare quella stanza e portarsi via l’odore di medicinali ed erbe. Gli occhi fissi su quel futon; sulla ragazza in quel futon. E risentirne il respiro strozzato nelle orecchie, i colpi di tosse e il sangue che gorgoglia nel respiro. Riavvertire il suo corpo sotto le mani, la pelle scivolare viscida per il sangue e il sudore; capelli attorcigliarsi in nodi attorno alle dita, impigliarsi crespi e disordinati agli artigli. E poi l’odore. Odore di ningen, di donna, di essere umano. Di carne che si sta abbandonando, di carne che pulsa sangue e si bagna di sudore. Odore appena amarognolo, di eccitazione e di paura. Mescolato a quello dell’acqua. A un odore che lui si ostinava a identificare con l’acqua. Quella fredda delle sorgenti più alte, quella che scorre dai ghiacciai delle montagne.

 

Correre per scoprire di essere ancora lì. Con gli stessi pensieri e la stessa confusione. E la sensazione di non potersi fermare. Di non avere risposte e non sapere dove cercarle. Se davvero si vuole cercarle. O se sarebbe meglio ignorare ogni cosa. Soffocare qualsiasi cosa sia iniziata, quello che lui ha permesso iniziasse. Strappare quella maschera di falsa perfezione e scoprire le carte. Accettare davvero quello che è e comportarsi di conseguenza. Disinteressandosene. Ascoltare la ragione lucida e razionale, ascoltare il suo cervello ripetergli che non può compromettersi, non deve farlo. Soffocare l’umiliazione di essersi già esposto troppo per una umana. Per una semplice, patetica, insignificante ningen. Accettare, archiviare, dimenticare. Cancellare. Cancellare il suo volto, la sua voce, il suo odore. Le sue mani che accarezzano il suo corpo, la bocca seducente gonfia e tumida, assetata di un qualcosa che non ha un nome preciso. Lussuria o desiderio. Desiderio di carne, e di provare un piacere che è degenerante. Di soffocare quella sensazione irritante che gli brucia nel petto, nel ventre, nel corpo. Che infiamma ogni frammento della sua pelle e gli sembra farlo impazzire. Incendiare ogni atomo del suo essere freddo con una scarica violenta e sbagliata. Maledettamente sbagliata.

 

È un demone.

E i demoni non sanno amare. Non conoscono i sentimenti. Non i sentimenti umani. Sono altri i sentimenti che li muovono. Diversa la rabbia, il furore, la gioia, il desiderio. Diverso anche il modo di amare, di recepire l’amore. Sempre se poteva usare quella parola. I ningen hanno bisogno di parole per spiegarsi. Lui no. I ningen necessitano sempre di avere chiarezze, di etichettare ogni cosa in modo chiaro. Lui no. Lui conosce perfettamente il suo essere, la completezza totale e perfetta che gli è propria. Non gli servono parole o etichette per definire i suoi pensieri. Un flusso continuo e perfettamente lucido, mosso da un istinto che è insieme selvaggia ferinità e totale autocontrollo. Onnipresente dominio del proprio io. Consapevolezza di ogni più piccolo centro nervoso come della totalità della propria essenza. Non servono le parole per comunicare una consapevolezza che fra gli youkai è innata. Capaci di leggerla nell’odore, nell’inclinazione della testa, nell’intensità dello sguardo, nel baluginare delle zanne.

 

Uno youkai non può amare. Almeno non può amare come un ningen. Anche se non sa cosa significhi. Sa solo che è diverso. Profondamente, totalmente, necessariamente diverso. L’uomo tradisce. Anche in amore. Non riesce a essere chiaro nemmeno in quello. Brama, desidera, possiede mascherandosi dietro parole false e promesse fugaci. Illudendosi di vincere la forza del tempo partorendo una progenie che tramandi una memoria. Una effimera, labile, inutile memoria. Secondo un ragionamento degno di uno stupido. Di un essere inferiore che non ha percepito nemmeno un barlume dell’essenza del mondo e dell’infinito. Un essere che pretende di governare e soggiogare ed ignora gli infiniti, atavici, immensi equilibri che reggono la sua stessa vita. Lui no. Lui li conosce. Ad uno ad uno. Ha imparato con il tempo a discernerne i fili invisibili, le trame di una tela che si limita a tessersi attorno a lui. Senza coinvolgerlo. Senza il diritto di toccarlo e coinvolgerlo. Demoni e ningen condividono lo stesso piano d’azione; solo quello. Non sono uguali. Nemmeno per come calcano la terra. Lui percepisce il respiro antico della terra; conosce la voce degli alberi e i silenzi del cielo; lui appartiene a quella schiatta che ha popolato la terra agli albori della sua origine, quando gli uomini ancora non erano e gli dei più non si curavano del mondo da loro creato. Lui e la sua stirpe pura, fedeli a se stessi, pari alle divinità. Divinità a propria volta. Loro. Gli unici fra i demoni a poter ambire a quella condizione assoluta. Di perfezione totale, ancora più completa ed esaustiva di quella che già è loro propria.

 

Sesshomaru socchiuse appena gli occhi reclinando la testa. Era perfettamente conscio di tutto quello. Ogni sillaba di quel ragionamento era prodotto della sua mente; lucido e razionale calcolo della sua essenza e della sua stessa natura. La consapevolezza di esser mosso da un insieme di elementi che i ningen forse avrebbero chiamato sentimenti, con una parola che lo inorridiva. Lui non provava sentimenti; lo aveva sperimentato e glielo avevano insegnato. Era diverso. Né migliore né peggiore. Solo diverso. Sarebbe stato impossibile da spiegare; lui stesso ne aveva consapevolezza, ma non avrebbe mai potuto mutarla in parole. Se ne era drammaticamente accorto. Non riusciva a concretizzare in nulla quel rimescolio che piano piano era cresciuto dentro di lui. Verso Alessandra. Il massimo cui era riuscito a spingersi era stata quella parola: importante.

 

All’inizio aveva pensato che fosse l’orgoglio, la sua atavica abitudine a rifiutare tutto ciò che è anche vagamente umano a spingerlo a non soffermarsi su quel pensiero. A ignorare Alessandra e il legame che si stava a poco a poco formando. Forte o debole che possa essere. Aveva accampato la scusa della guerra, degli impegni militari e la priorità di trovarsi con le spalle coperte prima di affrontare quel discorso. Con lei e con se stesso. E invece, erano tutte scuse. Tutte solo grandissime menzogne che accatastava le une sulle altre. Con inconscia necessità e una consapevolezza che volutamente ignorava. Perché il difficile non era analizzare quelle sensazioni, ma doverle tradurre in forma umana. Dover dare loro un nome. Sospirò e si sedette lentamente contro il tronco del salice. Aveva un nome quello che stava provando? Se lo era chiesto continuamente e, alla fine, si era adagiato nell’indefinito. Aveva usato ogni possibile mezzo per non dover cercare di concretizzare i suoi pensieri. E Alessandra aveva contribuito, pur se inconsciamente, a rafforzare quella situazione di indefinitezza.

 

Sesshomaru accarezzò la stoffa degli hakama, allargò gli artigli lungo la coscia e abbandonò mollemente la mano sul vertice del ginocchio. Quattro giorni di corsa ininterrotta lo avevano sfinito più di quanto volesse ammettere. Precisando meglio, quattro giorni di corsa ininterrotta continuando a pensare e rimuginare lo avevano sfinito. Assieme a quella parola che continuava a rimbombare nella testa: umana. Umana. Umana. Accompagnata ossessivamente dalla solita domanda: perché? Perché non se ne era accorto prima? Perché non aveva afferrato prima il vero, autentico significato della condizione della ragazza? Lo aveva volutamente ignorato per un motivo che non riusciva più a discernere o semplicemente non lo aveva mai concretizzato?

Il vento leggero del tardo pomeriggio increspò le acqua del laghetto. Sesshomaru si lasciò lambire appena da alcuni rami del salice. Sarebbe bastato poco per avere una risposta; sarebbe bastato ricorrere a quell’antico potere. Chiedere per ottenere, per sapere. Troppo facile, però. Abbassarsi a chiedere spiegazioni non appartiene al Principe. Soprattutto se le spiegazioni incidono sulla sua razionalità.

 

Tastò in un gesto inconscio la spalla destra. La ferita era completamente rimarginata e quei quattro giorni di sforzo fisico avevano contribuito a restituire al suo corpo elasticità e forza. Arricciò appena le labbra percependo il suo stesso odore. Mischiato a quello ferino che gli era proprio ce n’era un altro, totalmente estraneo. Diverso. Odore di sangue e sudore. Odore di umano. Di Alessandra.

Aveva cambiato il kimono ma quell’odore era ancora lì. Sulla sua pelle, nei suoi capelli. Assieme al sangue che doveva imbrattargli la pelle candida. Sangue suo e di altri: di Morigawa, di demoni, di Alessandra.

 

Poggiò distrattamente Tenseiga al tronco e si liberò con un gesto secco dell’obi e del kimono. Quasi con urgenza. Come avvertendo la necessità di liberare il suo corpo da ogni altro odore che non fosse il suo proprio. Si immerse nel laghetto finchè l’acqua non gli abbracciò i fianchi. Doveva essere fresca, eppure il suo corpo non percepiva nulla. Appena un formicolio fastidioso. Si immerse completamente prendendo un lungo respiro. Lasciando che il copro affondasse e i sensi venissero ovattati dalla pressione dell’acqua. Aveva bisogno di azzerare ogni pensiero e ricominciare. Riformulare ogni istante, ripercorrere passo passo il cammino che lo aveva portato a desiderare Alessandra nel letto. Senza quasi accorgersene. Ripetere tutto. Con mente fredda e lucida. Senza lasciarsi andare a quei rimescolii interiori che erano solo controproducenti seccature. Aveva bisogno di capire veramente, perfettamente, cosa rappresentava per lui quella ragazza. Perché il saperla fra la vita e la morte, lo scoprirla veramente umana gli avesse provocato una simile reazione. Cosa bramasse il suo corpo e se davvero era solo un semplice desiderio della carne o c’era altro. Non negava a se stesso che avrebbe potuto andare oltre. Oltre ad un interesse puramente fisico che prima non aveva mai provato.

 

Alessandra avrebbe potuto essere solo la scintilla. Il pretesto per il suo cervello di risvegliare il desiderio del suo corpo, di ricordargli la necessità di unirsi ad una femmina e generare un erede. Un desiderio puramente istintivo, di sopravvivenza. Esploso così, per ancestrale abitudine. Sesshomaru aveva imparato a convivere con il suo corpo, a conoscerne ogni più piccolo particolare, dalla forza potente e innata al letale veleno che scorre nelle vene. La forza ferina della sua forma animale e la devastazione della sua furia cieca lasciata libera. Aveva imparato a far convergere corpo e mente nella medesima direzione, unendoli in un unico intento di…sì, avrebbe potuto chiamarlo spirito. Un armonizzarsi perfetto di mente e azione, per controllare ancora giovanissimo ogni stimolo e ogni istinto. Ma aveva anche imparato che, a volte, era il suo corpo ad avvertirlo di un cambiamento. Era stata una strana eccitazione ad attraversargli le vene, sottile e serpeggiante sotto la pelle, quando si era trasformato per la prima volta. Il suo corpo lo aveva avvertito di essere pronto. Che finalmente sarebbe riuscito a mutarsi nella sua forma completa. Ed era sempre stato il suo corpo a ricalibrare ogni sua caratteristica quando aveva perso il braccio sinistro. In un automatico, endemico sforzo di autoprotezione e conservazione. Sesshomaru era conscio della precisione istintiva, demoniaca, della sua mente; ma altrettanto era consapevole che il suo corpo segnava le fasi della sua esistenza. Per quanto lui cercasse di dominarlo, c’erano sensazioni e pulsioni che non poteva ignorare e sopprimere. E il desiderio di Alessandra, con suo immenso sconcerto, era uno di quelle.

 

Riemerse ormai da parecchi secondi in carenza d’ossigeno, le labbra leggermente esangui e un fremito impercettibile nel corpo. Si sentiva strano. Appoggiò il palmo della mano al pelo dell’acqua, sfiorando appena la superficie. Una carezza lentissima e sensuale. Come se avesse sotto gli artigli la pelle di una yasha o di una donna. Si reimmerse fino a quando l’acqua gli sfiorò le labbra, delicatamente e costantemente. Se socchiudeva la bocca, un labbro era immerso e l’altro accarezzato dall’aria. Lisciò con la lingua i denti acuminati e le labbra. Lentamente, come a ricercare una sensazione precisa. Il ricordo di un sapore capace di inebriargli il cervello e farlo fremere. Eppure, per quanto concentrasse la sua memoria, nemmeno il ricordo del sangue che macchia la pelle e la sua lingua che se ne nutre era capace di trasmettergli quell’eccitazione del corpo di Alessandra contro il suo, del calore delle sue forme e del solletico dei suoi capelli.

 

Pericoloso.

 

Non poteva continuare a girarci attorno: non avrebbe mai concluso nulla. Prese un respiro e getto indietro la testa. Va bene: il suo copro desiderava unirsi con una donna. Forse voleva semplicemente dirgli che era tempo che pensasse alla sua discendenza; forse erano solo le avvisaglie di un viscerale bisogno di assicurare la continuità alla sua stirpe. Probabilmente, così come era nato, si sarebbe estinto non appena appagato. Un semplice, futile, fastidioso bisogno di unirsi ad un corpo complementare al suo, di affidare il suo seme a qualcuno che lo avrebbe fatto crescere e avrebbe assicurato vita a loro inuyoukai. Una spiegazione logica: perfetta per motivare perché quel desiderio fosse esploso all’improvviso, prepotente e bruciante. La guerra lo aveva messo di fronte all’eventualità di poter morire, e con la morte era apparsa l’ombra di un vuoto. Sesshomaru realizzò con un fremito di angoscia e dolore di essere l’ultimo. L’ultimo erede della sua stirpe, l’ultimo discendente dei Signori dell’Ovest. Se lui fosse morto, tutto sarebbe morto. Consumato senza possibilità di ritorno, e il loro sangue puro e orgoglioso smarrito per sempre. Increspò le labbra in un sorriso che non era un sorriso. Suo padre avrebbe fatto bene a considera di più le conseguenze delle sue azioni. E invece, non solo non si era preoccupato di assicurare totalmente la discendenza con un altro figlio, ma quello che aveva generato era anche un bastardo. Un ibrido indegno del sangue che gli scorreva nelle vene, un essere che avrebbe dovuto solo strisciare per terra e invocare pietà, invece di fissarlo caparbiamente negli occhi e restituirgli colpo su colpo parole e offese.

 

Inuyasha.

 

Arricciò le labbra in un ringhio roco che si fermò in gola. Lo rivedeva zoppicare sull’engawa fino alla porta di Alessandra, sedersi lì e aspettare. Lo rivedeva cercare di domare Sounga con disperata caparbietà, impazzire e attaccare senza possibilità di controllo. Risentiva la sua voce chiamarlo con rabbia, con astio, con un fremito che non gli era proprio. Lo rivedeva nella tomba di loro padre vincere la barriera di Tessaiga, sottrargli la spada del guerriero, l’eredità che lui rivendicava per sé. Risentiva il suo urlo umano ed eccitato mentre la lama gli tagliava il braccio, la determinazione folle di quando gli aveva offerto la schiena pur di permettere al monaco e alla ragazza di mettersi al sicuro. Risentiva lo sconcerto avvertito nel percepire il suo sangue mutare, avvicinarsi all’odore del suo perdendo la sfumatura umana. Per un attimo, essere come il suo e poi diventare altro. Qualcosa che non è totalmente demoniaco, qualcosa che è troppo simile, e non è perfetto.

 

Serrò il pungo in un gesto frustrato. Se Inuyasha non fosse mai esistito. Se suo padre non avesse coltivato l’insana idea di salvare la sua amante umana e quel figlio bastardo. Se lui avesse fatto qualcosa per fermarlo, invece di voltare semplicemente le spalle. Per Inuyasha. Suo padre era morto per un lurido bastardo; aveva ignorato per anni lui e si era concentrato per pochi mesi su una donna umana e sul bambino che portava in grembo. In quei mesi, Sesshomaru aveva visto suo padre cambiare totalmente. Ridere con Kumamoto e improvvisare una battuta di caccia; diradare impegni e incombenze e sgattaiolare da palazzo o dall’accampamento come un ladro. Lo aveva sentito fantasticare di una famiglia con un cucciolo che ruzzola per casa, di urla che lo avrebbero svegliato nella notte e di lezioni di vita da impartire. Lo aveva sentito, e si era sentito abbandonato. Suo padre parlava di Inuyasha come di un figlio già vivo, aprendo e chiudendo le mani quasi lo avesse davvero in braccio. E ignorava lui. Si disinteressava della sua educazione, della sua crescita; dei progressi o delle difficoltà incontrate.

 

Se solo tu non fossi nato, Inuyasha.

 

Eppure, Sesshomaru si sorprese di altri ricordi. Si scoprì a ricercare quella sensazione strana, di tranquillità e sicurezza che lo aveva attraversato in quei mesi a palazzo; l’abitudine quasi necessaria degli scontri nel dojo fra una frecciata si scherno e la risata strana di suo fratello. Il bisogno di sapere dove fosse, cosa stesse facendo in ogni momento. La rabbia esplosa con la consapevolezza che lui fosse l’unico a potergli prestare aiuto durante la cecità. La schiettezza con cui lo trattava, con quel tono un po’ rozzo e sbrigativo, ma capace di incidere più della retorica inutile della corte. E poi, il vederlo lì, su quel campo di battaglia, esausto e allo stremo, ma con la spada ancora stretta in mano, alzata a difendere. Alessandra, e lui. Assieme alla consapevolezza di avergli accordato fiducia. Per istinto e necessità. Di avergli lasciato toccare Alessandra ed estrarre quell’arma. Di non averlo fermato nonostante gli spasimi della ragazza, fidandosi di lui, accettando lui e la sua presenza. Sempre. Accettando che corresse a due passi da lui mentre stringeva Alessandra fra le bracci in quella disperata ritirata; accondiscendendo quasi con sollievo a saperlo alle sue spalle mentre attraversava la piazza d’armi del palazzo.

 

Scosse debolmente la testa e si sdraiò sull’erba. Il cielo iniziava appena a sfumare in nero verso oriente. Stirò le braccia e si concesse quell’attimo di totale abbandono, con l’odore umido della terra nella testa: muschio, acqua, corteccia ed erba. Rilassò i muscoli e distese il collo; permise ai sensi di vagare e affievolirsi. Non c’era pericolo: nessun odore sospetto nell’aria né una qualche aura nelle vicinanze. Poteva ignorare per un istante il mondo circostante e concentrarsi solo sul suo respiro. Sulla sensazione di vertigine che il cuore e l’aria che appena lo lambiva gli davano. Come se cercasse di strappare la sua anima al corpo e liberarla in volo. Assaporò il fruscio tenue delle fronde e l’incresparsi silenzioso delle acqua. La calura si era attenuata e aprendo gli occhi si immerse nel cielo ormai scuro e pieno di stelle. Non avvertiva più il corpo nudo disteso sulla terra; non avvertiva più i pensieri assillargli la mente. Vedeva solo quel cielo e provava con tutto il suo essere a catapultarcisi dentro. A vincere la pesantezza che lo incatenava al suolo e salire fino a quelle stelle. Per comprendere meglio se stesso. Per discernere ancora di più le profondità della sua essenza.

 

In definitiva, la sua vita si consumava fra quei due poli: la ricerca costante del potere e della consapevolezza piena di sé. E più riusciva a cogliere la sua essenza autentica e divina, più la sua forza aumentava e la sua sicurezza rasentava l’assoluta cognizione degli dei. Non gli bastava mai; la consapevolezza della propria superiorità; l’indifferenza quasi annoiata con cui trattava chiunque non fosse alla sua altezza; lo sguardo sprezzante che riservava a chi, pateticamente, pretendeva troppo da se stesso pur non avendone le capacità: tutto quello non lo domava, non lo appagava appieno.

Sfiorò il viso, disegnando inconsciamente lo spicchio di luna in fronte. Qualcosa era cambiato. Ed era stato l’incontro con Alessandra a farlo mutare. Né maturare né indebolirsi. Solo mutare. Accorgersi che anche il suo corpo divino può desiderare qualcosa che non è solo potere; qualcosa che riesce a fargli infiammare il sangue nelle vene e disorientare la sua mente.

Eppure, Alessandra era solo una femmina umana. Una semplice e inutile femmine umana. Ma era arrivata dentro di lui. Così in profondità da ottenebrargli il cervello e riuscire a stimolare quella parte biologica e istintiva che credeva di aver dominato completamente.

 

C’era stata una volta. Una sola volta in cui aveva condiviso il suo letto. Seguendo un capriccio improvviso e privo di senso. Sfidando se stesso: provare, si era detto. Provare a vedere fino a che punto le arti di una yasha sono capaci di affascinarlo, fino a quando la sua razionalità sarebbe stata in grado di controllare l’istinto. Era bella, quella demone. Pelle ambrata, seni turgidi, ventre morbido. Bella e maliziosa mentre si sfilava il kimono nella luce prepotente del tardo pomeriggio e ancheggiava sinuosa e felina fino a lui. Bella e pericolosa. Con una bocca rossa e lucida che saggiava la sua pelle svelandola a poco a poco. Infilando le mani fra le pieghe della veste e assaggiando il suo petto, la sua muscolatura ancora giovane.

L’aveva amata. L’aveva amata in quel pomeriggio che andava declinando, fissando un elaborato ricamo del suo haori abbandonato per terra; ignorando il corpo che gemeva e si dimenava sotto di lui; ritornando con la mente alla strada percorsa fino a quel momento e chiedendosi ancora quanta dovesse frane. L’aveva amata senza degnarla di una parola, di uno sguardo, di un gemito; per lasciarla ansimante e nuda sul tatami di quella stanza. Una stanza che non ha pareti, suppellettili, mobili o altro nella sua mente. Una stanza che affacciava su un giardino con un maggiociondolo fiorito. Non era più andato. L’aveva dimenticata e aveva, in seguito, evitato qualsiasi contatto femminile. Non gli interessava. Non gli suscitava niente: attrazione o repulsione che potesse essere.

 

Ho baciato te per prima.

 

Sesshomaru sfiorò le labbra in un movimento fugace. Quasi con stizza e disappunto. Per poi tornare a definire con gli artigli il contorno. Labbra sottili e fredde. Tutto il suo corpo era freddo. E anche in quello era diverso da Alessandra. Il corpo della ragazza si gela nel vento o nella neve, rattrappisce a contatto con l’acqua. Ha visto le sue mani arrossarsi bagnate dalla neve, e poi diventare sempre più pallide. Bianche e gonfie. L’ha vista sfregarle con forza l’una sull’altra e soffiarci sopra. I corpi morti per gelo sono lividi. Con quella colorazione che diventa sempre più scura, attorno alla bocca, lungo le braccia, e poi prende il corpo. Tutto il corpo. Le yuki-onna hanno quel colore. Quella sfumatura intensa e mortale di azzurro. Negli occhi. La pelle bianchissima e gli occhi quasi cerulei mentre abbracciano la loro preda, il loro sventurato amante. Occhi azzurri che diventano sempre più scuri, sempre più vuoti e profondi. Il corpo di quegli spiriti è di gelo. Neve cristallizzata in una figura di seduzione mortale, esca allettante per gli istinti dei ningen. Senza attrattiva per un demone come lui. Una volta una yuki-onna credette di poterlo ammaliare, e si dissolse nel vento della bufera senza un gemito, avvolta solo da un tenue bagliore verde.

 

No. Il suo corpo non è gelido come quello degli spiriti della neve, ma ugualmente non è in grado di generare quel calore che ha il corpo di un ningen. Il corpo di Alessandra quando riposa abbracciata a lui; il rossore che le imporpora il viso quando è imbarazzata o accaldata. Sesshomaru è perfettamente cosciente di quella differenza: per quanto lui resti immerso nell’acqua gelida o vicino al calore di un fuoco, la sua pelle muta appena il suo calore. Rimane sostanzialmente fredda, appena appena tiepida al massimo. Quasi una promessa di quel gelo che può dare semplicemente socchiudendo gli occhi, per noia o capriccio. Per fastidio o disgusto. Eppure. Eppure Alessandra lo cercava. Cercava quel debolissimo tepore che può emanare; non si ritraeva quando le sue mani diverse la sfioravano. Non se ne stupiva o preoccupava. Lasciava che la toccasse, che la esplorasse. Sempre più intensamente, sempre più a fondo.

 

Alessandra.

Ha baciato lei per prima. La prima e unica donna cui ha concesso le sue labbra. Seguendo quell’istinto che credeva di saper domare; accettando di non cercare una risposta razionale a quel gesto. E scoprire che non la spaventava il suo respiro troppo freddo, le sue labbra pallide e senza calore. Scoprire il piacere strano di un calore che ti sfiora appena, che entra umido dentro di te. Assaporare quel respiro così diverso. Estraneo e pericoloso. Caldo. Che lo avvolge e si fonde con il suo. Incapace di vincerne il freddo; e allora accondiscendente ad avvolgerlo, a inglobarlo e lasciarsene affondare.

Ha baciato lei per prima. In una notte d’inverno, con la guancia arrossata per uno schiaffo e un formicolio leggero che non era nemmeno fastidio. Baciata senza poterla guardare, avvertendo il sapore delle lacrime sulle labbra, e poi quello della carne appena tremante e poi sempre più turgida e gonfia. Cercando di ritrovare nella mente il ricordo di un sapore simile, di un qualcosa di già assaporato. Si era ricordato l’odore zuccherino e aspro di un giorno lontano di primavera; l’odore delle fragoline di bosco che Rin aveva raccolto e che mangiava sorridendo in sella ad Ah-Un, schiacciando con meticolosa lentezza la polpa sul palato per rabbrividire di piacere per il sapore un po’ amarognolo. Ecco. Aveva ricordato quell’odore, e lo aveva ritrovato sulle labbra, nella bocca di Alessandra. Socchiuse gli occhi liberando un respiro impercettibile.

La sua mente aveva sentito la necessità di costruirgli quella via di fuga; il pensiero falso e fugace di un qualcosa di conosciuto e provato. Sperimentato. Per dire che no, non stava commettendo un errore; no, non rischiava di lasciarsi avvincere da qualcosa di estraneo e irrazionale. Sfuggente e impossibile da definire anche per lui, per la sua razionalità analitica e spietata. Qualcosa che si conosce e si può lasciare. Senza rimpianto e senza pensiero. Un sapore conosciuto, già assaggiato. Inutile.

 

Invece. Invece con il tempo aveva dimenticato di cercare un termine di paragone. Si era concentrato solo su quel sapore nuovo. Su quel gusto che lo sfiorava, lo inebriava in modo sbagliato. Maledettamente sbagliato. Ma che non gli interessava. Con il tempo, non aveva più pensato al gusto delle fragole, al viso di Rin. Con il tempo, quel sapore era diventato Alessandra. Solo lei. Il suo odore, il suo gusto, quello che la differenziava, che gliela faceva riconoscere in mezzo a mille altre percezioni. Suo e di nessun altro. Proprio. Impossibile da attribuire o confondere. E si era sorpreso a desiderarlo sempre di più; sempre più approfonditamente e in modo completo. Volere l’odore umano di Alessandra sul corpo e non averne disgusto; cercare quel sottile profumo di donna aleggiare nelle sue stanza, disperdersi nell’aria dei suoi appartamenti. Come una cosa naturale; come una ovvietà sempre esistita.

Sesshomaru premette una mano sugli occhi. Alessandra era entrata lentamente nella sua vita, insinuandosi prima con l’odore, poi con il corpo. E infine; infine con quel qualcosa che non riusciva bene a definire. Che lo aveva preso e non lo lasciava andare. La causa di quell’improvviso, intollerabile sbandamento. Di quell’irrazionale istinto che lo aveva portato ad abbandonare una battaglia già vinta; spinto a scappare dal suo orgoglio, dal suo trionfo, solo per non lasciar morire una femmina umana.

 

Che avrei potuto tranquillamente riportare in vita.

 

Si soffermò sulla pietra che si lasciava intuire poco distante, fra le ombre della notte e il muschio. Gli dava una sensazione strana; un misto di rimpianto, sollievo e…E non riusciva a definirlo nemmeno lui. Non provava paura, eppure non riusciva a scacciare l’idea e la sensazione di essere come spaventato. All’apatia del ritorno a palazzo era seguita la smania della fuga, meglio della tranquillità. E adesso, nonostante avesse elaborato e scartato mille pensieri, mille considerazioni, era subentrata quella sottile e irritante, illogica, trepidazione. La sua mente si rifiutava di afferrare una realtà che il suo corpo aveva tradito più e più volte. Lo sapeva e non riusciva ad accettarlo razionalmente. Non riusciva a capacitarsi del perché desiderasse una donna, una femmina umana.

 

Poteva accettare di provare desiderio per una donna. Poteva accondiscendere al fatto che il suo corpo fosse ancora giovane, e che potesse risvegliare in lui istinti che lo disgustavano, ma che non poteva totalmente ignorare. Almeno nell’ottica di dare un erede al Clan. Va bene. Poteva provare ad accettarlo razionalmente. Anche suo padre si era unito a sua madre; per necessità certo, per dare un principe alla stirpe. Poco importa se poi i rapporti fra i suoi genitori si erano colorati di qualcosa di strano, di sospetto agli occhi della corte. Lui allora non se ne era accorto; troppo piccolo per prestarci attenzione. Era stato dopo. Era stato quando sua madre era morta e i precettori si erano fatti più assillanti che aveva sentito per la prima volta i discorsi dei cortigiani. Ascoltati e non capiti fino ad un certo punto. Non ricordava né quando né perché. Sapeva solo che ad un certo punto, nella sua mente, si era delineata chiara la consapevolezza di un qualcosa di sbagliato. Di anormale. A palazzo esistevano ancora le camere dei suoi genitori; i gabinetti separati e la stanza matrimoniale comune. Lui aveva sempre rifiutato l’idea di prendervi dimora, benché la consuetudine volesse che il nuovo Principe lasciasse le stanze della fanciullezza per abitare quelle dei suoi predecessori. Lui no. Per un recondito motivo, aveva sempre rifiutato di entrare in quelle che erano state le stanze di suo padre. Chiuse. Le aveva fatte chiudere come quelle della madre. Dimenticate. Cancellate. Assieme a un tempo trascorso e perduto. Lontano. Troppo e irrimediabilmente lontano.

 

Sospirò. Va bene: il suo corpo desiderava piacere; un godimento diverso da quello della youki nelle vene e dell’adrenalina che scorre durante un duello. Un piacere che è solo lascivia e lussuria, solo carne; un desiderio disgustosamente simile a quello umano. Irritante, ma accettabile. Glielo avevano detto, lo avevano avvertito che ad un certo punto della sua vita sarebbe potuto succedere: anche il sangue di un demone può esser attratto dal corpo femminile; anche il corpo di uno youkai può bramare qualcosa che è semplicemente istinto. Nulla di strano, semplicemente doveva assecondare e approfittare per generare un discendente. Quella vampa calda che poteva bruciare la mente e infiammare il corpo era tanto improvvisa nel comparire quanto nello svanire. Gli sarebbe convenuto approfittare, per sperimentare un piacere diverso da quello della battaglia. Se si fosse lasciato sfuggire l’opportunità, in seguito l’impegno della discendenza sarebbe stata solo un’incombenza senza nessuna prospettiva di piacere.

 

Scrollò le spalle. Fino ad alcuni mesi prima, non concepiva nemmeno l’idea di unirsi con una yasha, se escludeva quel capriccio che aveva affrontato e accettato con razionalità, senza assecondare l’istinto, decidendo con la testa di concedersi, di permettere ad una yasha di toccarlo e di amarlo. Ecco, quello era il punto: una yasha.

Desiderare una yasha era normale; unirsi a lei e trarne piacere. Ma non una ningen. Non bramare un corpo così diverso dal suo, un’essenza limitata e corruttibile, lontana dal suo mondo, dal suo modo di percepire, di sentire e accettare la realtà. Incapace di cogliere il dilatarsi del tempo nei suoi occhi, di percepire il lento accartocciarsi di una foglia e l’indifferente scorrere dell’acqua. Impossibilitata a respirare con il vento, a fondersi con la vegetazione. Una donna umana che sa di desiderio, carne, sangue e sudore; che ansima dopo una corsa e si congela con il freddo e si riscalda davanti a un fuoco. E piange, ride, si dispera e si sopravvaluta.

 

Eppure. Eppure Alessandra aveva risvegliato il suo corpo. Aveva destato da uno strano torpore la parte più ferina e incontrollata del suo essere. Quella che più pericolosamente si avvicinava a quella umana; quella che avrebbe volentieri estirpato dalla sua anima. Lo aveva fatto; lui le aveva permesso di farlo. Senza remore o castelli mentali. Semplicemente assecondando i suoi movimenti leggeri, la confidenza che cercava e il contatto sempre più intenso e necessario. Averla accanto era diventata un’abitudine; sentirla respira nel sonno contro la sua pelle, rubarle un bacio a tradimento per assaporare il suo stupore e l’imbarazzo, crogiolarsi nel fastidio di averla davanti, di parlarle e non poterla toccare. Toccare, sfiorare, stringere.

 

Aprì e chiuse le mani lentamente. Non aveva permesso a nessuno, per moltissimo tempo, di toccarlo. Il contatto fisico gli provocava noia, fastidio. Era inutile. Nemmeno suo padre si era mai arrischiato ad andare oltre una semplice mano sulla spalla, una carezza fugace e sbrigativa, appena accennata. Prima. Prima era diverso; quando sua madre era ancora viva. Ma ormai non aveva senso pensarci; non sarebbe cambiato nulla. Non gli interessava ricordare perché una volta si lasciasse abbracciare e poi fosse cambiato, avesse iniziato a detestare le mani che cercavano di toccarlo, di sfiorarlo. Era successo e basta. E fino ad Alessandra non aveva permesso a nessuno di avvicinarsi a lui; nemmeno a livello fisico. Nemmeno Rin si era mai esposta nel toccarlo. Gli correva incontro, sorrideva e scherzava con lui con naturalezza, ma non lo toccava mai. Al massimo poteva accadere che fosse lui, per necessità, a doverlo fare. Ma null’altro: solo necessità. Poi, Rin sembrava aver capito. Aver capito che qualcosa era cambiato e si era spinta a cercare da lui di più. Qualcosa che non fosse solo una mano impalpabile e veloce sulla testa o un’occhiata appena accennata. Aveva iniziato a cercare la sua presenza fisica, le sue mani, le sue gambe. Fino a dargli quel bacio nello studio nero; il bacio di una bimba impaurita e tramante, dal profumo di terra e sale.

 

Dopo Alessandra. Era cambiato tutto dopo di lei.

Quella ragazza che lo aveva guardato negli occhi senza tremare; che gli aveva offerto la gola con uno sguardo vuoto. Sesshomaru sospirò: quella volta, gli sarebbe bastata una pressione leggerissima della mano, e la testa di Alessandra avrebbe ciondolato sul collo rotto. Quella volta, avrebbe potuto averla senza preoccuparsi dei suoi pensieri e di quello che avrebbe provato lei; ma il suo corpo non aveva reagito, non gli aveva trasmesso nulla. Solo un rimasuglio appena accennato di stupore. Per la piega quasi ironica delle labbra, per quel sorrisetto che era una smorfia di inconscio stupore, e che lui non sopportava. Non riusciva a sopportare. Come era fastidioso il tono della sua voce. L’ostinarsi a mancargli di rispetto e a pretendere di essere ascoltata. Come se una donna avesse diritto di parlare al cospetto di un uomo; come se una donna potesse ardire a restare in piedi davanti a un uomo, davanti a lui.

 

Alessandra lo aveva fatto. E lui ormai aveva capito che era stato quello uno dei motivi per cui non l’aveva uccisa subito. Per divertirsi, per vedere fino a quando avrebbe resistito. Aveva ignorato il suo atteggiamento per giocare con lei come il gatto con il topo; fino a intrappolarla in un angolo e poi ucciderla. E allora, si era detto, avrebbe visto la paura nei suoi occhi mentre gli artigli si avvicinavano letali. Allora l’avrebbe vista aprire la bocca per gridare e ritrovarsi senza voce, con gli occhi spalancati e vuoti. E tutto sarebbe tornato normale; lui indifferente agli umani, loro atterriti anche solo dal tenue riverbero del suo potere. Tutto regolare, tutto normale.

 

Ma Alessandra aveva mandato in fumo quel progetto. Lo aveva sradicato fin nel profondo. E lui si era ritrovato a desiderarla al suo fianco; si era abbassato a difenderla e a venir ferito per lei. Aveva accettato la cecità che lei gli aveva procurato senza dolersi della perdita più di tanto. La rabbia e la frustrazione latenti e pronte a esplodere ma mai verso di lei. L’aveva fatta avvicinare ancor prima di razionalizzare il suo comportamento; e poi ritrovarsi irritato dal fatto che si inginocchiasse davanti a lui per parlargli, che aggiungesse il suffisso onorifico e si inchinasse. Irritato dalla sua voce controllata e lontana; dal distacco con cui lo trattava nelle sale pubbliche del palazzo; dall’arrendevolezza fremente con cui accettava le sue decisioni.

 

Sesshomaru sorrise fra sé: Alessandra era riuscita a nascondere il suo carattere, la fragilità e le debolezze umane dietro una efficientissima maschera di freddezza e perfezione. Si era adattata alla vita di corte, così parca di parole e di contatti, così affettata e abituata a elargire offese con un sorriso cordiale, così teatrale che lui aveva dimenticato chi fosse. Aveva scordato cosa significasse l’avere al fianco una femmina umana, e soprattutto che fosse umana. Diversa.

 

Si passò una mano sul petto. Alessandra era stata capace di eccitarlo, di portarlo a dimenticare il desiderio della battaglia pur di giacere con lei. Non lo aveva fatto; si era dominato, ma aveva promesso a se stesso di averla appena la guerra fosse finita. E adesso si rendeva conto di non sapere perché. Non riuscire a capire per quale motivo il suo corpo la desiderasse: semplice brama, lussuria o forse qualcos’altro. Doveva esserci un motivo, perché altrimenti non si sarebbe fermato. Tutte le volte che la ragazza era fra le sue braccia, tutte le volte che gli sarebbe bastato stringere un po’ di più la presa sui suoi polsi, premere appena il suo corpo sul futon per imprigionarla, forzare le gambe per averla…tutte le volte si era fermato. Trattenuto da qualcosa che non era semplicemente rifiuto di una ningen. No; non la rifiutava, ma non riusciva a decidersi ad averla. Non riusciva a immaginarla piangere e urlare sotto il suo corpo mentre lui prendeva semplicemente quello che desiderava. Non riusciva a sopportare l’idea del suo odio e del terrore nei suoi occhi se l’avesse violentata. Eppure, sarebbe stata la cosa più semplice e naturale del mondo. Costringerla perché inferiore, perché debole e umana. Senza remore o pensieri. Per togliersi una voglia, un piacere passeggero che lo stava facendo impazzire solo perché non si decideva a soddisfarlo.

 

Sesshomaru scosse la testa e si alzò. Camminare gli serviva per ordinare i pensieri; per riprendere il controllo della mente che formulava considerazioni e ripercorreva avvenimenti creando false conclusioni. Non aveva amato Alessandra perché non lo aveva voluto. Lo avrebbe potuto, ma non lo aveva voluto. Di questo era certo. Ma non riusciva a configurare nella testa cosa sarebbe successo se lo avesse fatto o se la battaglia finale contro Morigawa si fosse conclusa diversamente. Se lui fosse rientrato a palazzo, come si sarebbe comportato? Davvero era disposto ad amarla, davvero era disposto a portarla via e finalmente mettere a tacere quel desiderio che non era solo lussuria? Se Alessandra gli si fosse davvero offerta, in quell’alba prima dello scontro, se gli avesse chiesto di amarla, con i vestiti discinti e i capelli scarmigliati, in preda alla paura di perderlo e al disorientamento per il precipitare degli avvenimenti, l’avrebbe amata? Anche sapendo che probabilmente Alessandra non lo desiderava davvero, ma cercava solo di esorcizzare le sue paure?

 

Se. Se. Se. Frustò l’aria in un gesto stanco. Era inutile arrovellarsi il cervello con i se. Avrebbe continuato a farsi domande, senza decidersi ad affrontare la situazione. Comodo, ma controproducente. Maledettamente controproducente. Fatti. Doveva attenersi solo ai fatti. Rigidi, certi, sicuri.

Ed erano quelli: Alessandra non gli era indifferente. Non sapeva ancora se solo per desiderio giovanile o se per qualcos’altro. Tuttavia, era consapevole che non l’avrebbe comunque trattata come una yotaka. Se fosse sopravvissuta. Ecco. Questo era un punto decisamente spinoso. La ragazza era in un futon agonizzante, e lui si trovava placidamente seduto in riva ad un laghetto. Senza l’intenzione di correre di nuovo a palazzo e verificare le sue condizioni. È preoccupato, ma preferisce non pensarci. Ignorare che potrebbe essere morta, e che Tenseiga al suo fianco sarebbe stata la sola carta da giocare. Dimenticare il suo corpo nudo, il suo odore di carne, sangue e sudore. Dimenticare per non dover accettare quella ovvia consapevolezza. Alessandra umana. Umana. Umana. Una realtà scomoda e detestabile. Perché non accettava di poter rifare l’errore di suo padre. Non razionalizzava il pensiero di essersi lasciato irretire da lei. Anche se sapeva benissimo che la ragazza non aveva fatto nulla per attrarlo a sé. Assolutamente nulla.

 

La guerra, il destino dei prigionieri, le conseguenze della morte di Morigawa e del suo avversario. Tutto quello passava in secondo piano. L’unica pensiero fisso nella sua mente era lei: Alessandra. Cosa fare, come comportarsi, cosa accettare, cosa dover realizzare di aver accettato, e perché. Averla baciata; va bene. Volerla amare. Va di nuovo bene. Sapere che non potrà mai essere la sua compagna, che prima o dopo la perderà con la morte. Va sempre bene. Ma non capire perché non la vedeva come amante, non accettasse l’idea che dovesse esserci una yasha al suo fianco, e che lei gli avrebbe dato un erede. Quello non riusciva ad andare bene. Anche se un ringhio roco gli saliva alla gola all’idea che un figlio da Alessandra sarebbe stato naturalmente un bastardo. Un hanyou che lo avrebbe solo disgustato. E che avrebbe ucciso. Senza pensieri. Senza preoccupazioni.

 

Premette la mano sulla fronte e si concesse un sospiro lungo e pesante. Per la prima volta, la sua natura demoniaca gli impediva una soluzione. Perché era nel suo sangue essere troppo rigido e non accettare compromessi. Era proprio della sua natura ricercare l’assoluto, e di conseguenza assolutizzare anche ogni sensazione. I suoi sentimenti, quelli che probabilmente i ningen avrebbero chiamato sentimenti, altro non erano che l’essenza stessa, autentica e al massimo livello di ciò che l’uomo può solo percepire distorto e abbruttire e corrompere con la carne. Odio, amore, rabbia, gelosia, paura, gioia. Non li provava perché li viveva nella loro espressione più alta. Non li avvertiva perché erano fusi con il suo essere, con la capacità che aveva di recepire l’assoluto e di farne parte. L’orgoglio per la stirpe non è puerile desiderio di supremazia e potere; ma consapevolezza della propria condizione diversa e inarrivabile. Precisione di caratteristiche e di possibilità. Sesshomaru non era umile di ciò che possedeva e non ricercava ciò che per innato istinto sapeva di non poter avere. Il cielo lo lasciava agli dei; le profondità oscure della morte agli spiriti. Lui era youkai puro, e il suo regno era la terra. La terra con i suoi spiriti e i ningen. E lui vi passava attraverso, fuso con essa senza farne parte. Attraverso il tempo, le distanze e gli spazi. Per questo Alessandra non doveva essere; per questo non capiva perché fosse.

 

Cosa provo davvero per te?

 

 

 

*****

 

 

 

Si raggomitolò sul fianco e chiuse gli occhi.

Respiro sempre più leggero, regolare. Dilatando l’aria il più possibile, rallentando il cuore che batteva veloce, troppo veloce. E le faceva male. Un nodo di impotenza, rabbia e delusione. Mentre ogni fibra del suo essere ero una semplice e lontana sensazione. La consapevolezza di qualcosa che la preme su quel materasso, che la tiene bloccata lì. Adesso. Adesso non avverte quasi il peso della trapunta, la stoffa bagnata sotto la guancia, il sudore che appiccica la pelle. Adesso. Non sente le labbra secche e i crampi continui come piccole scosse.

Le mani raggomitolate accanto alla testa. Le fissava quasi stranita. Le sue mani. Pallide e un po’ gonfie. Con segni violacei attorno al polso. Le sue mani. Eppure non le sentiva. Il cervello non riusciva a dar loro un comando, a far sollevare nemmeno un dito. Erano lì, a pochi centimetri da lei, ed era come se non le appartenessero. Come se non fossero sue.

 

“…Ale-chan…”

 

Percepì il corpicino di Rin accostarsi appena al futon, premere leggermente sulle coperte per sporgersi verso il suo volto. Una manina doveva essersi appoggiata alla sua spalla, o forse al fianco. Stava aspettando se le avesse risposto. Aspettava sempre che le rispondesse. Ogni giorno. Ogni maledetto giorno da quella sera. Quanto tempo era passato? Un mese, un anno, poche ore, qualche minuto? Quanto tempo era trascorso da quando quei demoni…quei demoni…Strinse appena gli occhi. Mentre il cervello continuava a ripeterle: non pensarci, non pensarci. E’ stato solo un incubo, un brutto sogno. Uno di quei sogni che non sai perché fai, che ti lasciano con un misto di agitazione e angoscia, che restano fissi lì, nella testa, perché sembrano veri, maledettamente veri. E non lo sono. Sono solo una fantasia; forse un film troppo violento, una notizia letta sul giornale, la pagina di un libro dell’orrore. Solo uno stupido, insensato sogno. Ci pensi per un po’, e poi se ne va. Ti dimentichi anche di averlo fatto, quel sogno.

 

Alessandra si morse l’interno della guancia per soffocare un singhiozzo. Non era stato un sogno. Per quanto cercasse di convincersene, non aveva sognato nulla. Gli stimoli che il suo corpo le mandava, i lividi che la ricoprivano, sulle braccia, l’alone che le gonfiava il viso, gli ematomi sul ventre. Non era stato un sogno, un incubo. E di notte, nel silenzio profondo della camera, quei demoni tornavano. Di nuovo. E di nuovo la spogliavano, le percorrevano il corpo con mani affamate e violente; strappando lo yogi, stringendo e graffiando il seno, alitandole sulla pelle e poi sempre più in basso. Mentre lei si dibatteva e ansimava. Raschiando la gola con urla che non uscivano, con grida che diventavano gemiti. Orribili e disgustosi. Mentre la testa faceva male, sempre più male, e il suo corpo rispondeva. Maledizione! Rispondeva! Sentiva un piacere diverso, violento, caldo invaderla, attraversarle le vene serpeggiando sotto la pelle, facendola gemere e sudare, dimenare con quella forza troppo debole, troppo spenta.

E loro continuavano. Sempre più pressanti, sempre più violenti. Scendevano lungo il seno, sul ventre; risalivano le gambe e…e…Si ritrovava a fissare il soffitto. Con il respiro pesante e affannato e gli occhi sbarrati. Asciutti e terrorizzati. Si risvegliava inchiodata a quel letto diverso e maledettamente uguale. Uguali le pareti, uguale la stanza e quel silenzio rotto solo dal suo respiro. Con la stessa voglia di scappare, di gridare, per accorgersi solo del cuore che pulsa selvaggio in gola e del senso di nausea e vertigine che ti tiene inchiodata lì, ferma e impotente.

 

Lo sognava quasi ogni notte. E ogni notte sperava di svegliarsi e trovare lui. Aprire gli occhi e vedere il suo viso; allungare una mano e incontrare quel corpo appena tenue, respirare il suo respiro freddo. Ogni notte, si illudeva delle sue braccia a stringerla, delle sue labbra a soffiargli all’orecchio suoni che non sono parole, ma che bastano a tranquillizzarla. Ogni notte sperava che lui arrivasse nei suoi incubi, che la liberasse da quei corpi che la schiacciavano sul futon, che la spogliavano e la facevano gemere, che volevano violarla. Ogni notte. E ogni notte apriva gli occhi e lui non c’era. Non c’era mai stato. Lo sapeva. Lo sapeva senza chiedersi il perché. Era come se lo avesse sempre saputo; come se lo aspettasse da sempre.

 

Sesshomaru non era al suo fianco, e probabilmente non lo era stato nemmeno quando era incosciente. L’ultima cosa che ricordava era un campo di battaglia e lui in ginocchio; il respiro pesante per la corsa e la milza che sembra scoppiare per lo sforzo. Poi un dolore lancinante toglierle il fiato e il mondo muoversi. Continuare a muoversi. Dopo, i ricordi si facevano confusi, si riducevano a sensazioni violente e lancinanti, ma prive di articolazione. Dolore, dolore, dolore. E qualcos’altro che non aveva definito. Non aveva senso, tempo e possibilità di definirlo. Il buio e quel leggero strato di coscienza in un alba che non sapeva nemmeno quanto fosse vicina o lontana. Parole che sono movimenti su labbra appena sbiadite, gesti che non hanno volti e aria pesante e calda. Assieme a un panno che le rinfresca la fronte, il seno, il corpo.

Ha sognato di alzarsi e uscire. Ha sognato di avere la forza di arrivare fino al lago che si insinua sotto il padiglione privato laterale. Liberarsi degli abiti e tuffarsi in acqua, ignorando i brividi di gelo e il senso si vertigine. Ha sognato di lavare la pelle da quelle sensazioni orribili, di cancellare, sfregare, arrossare il suo corpo contro rami, foglie, sassi. Raschiare con rabbia fino a scorticarsi, fino a sentire il sangue bruciare con l’acqua e le labbra stringersi per non gemere. E continuare. Continuare ancora. Togliere la pelle e i ricordi di quelle sensazioni, togliere lo sporco, il ribrezzo e il desiderio sbagliato che quei demoni le avevano lasciato addosso. Lo ha sognato tanto. Lo ha desiderato tanto. Per restare invece confinata in quel letto, lucida per poche ore al giorno e sperare solo di esser troppo stanca per sognare qualcosa; augurarsi di addormentarsi con un buco nero in testa e continuare a vedere quello. Solo un buco nero profondo e senza fine. Lasciarsi avvolgere e non dover pensare a nient’altro. Non dover pensare più a niente.

 

“…Ale-chan…”

 

Rin cantilenava ancora il suo nome. Lo faceva ogni giorno. Ogni volta che entrava nella sua stanza. Si sporgeva sul futon e la chiamava; con la voce sempre più debole e un’ombra roca di lacrime inghiottite. Sfiorando appena le coperte; senza cercare di toccarla. Rin non la toccava più. Da quando l’aveva allontanata isterica, Rin aveva quasi paura ad avvicinarsi a lei. Eppure non demordeva. Continuava; insisteva; perseverava. Le sarebbe bastato anche solo che la guardasse. Che le rivolgesse un’occhiata qualsiasi. Invece, Ale-chan dormiva sempre. Non faceva altro che dormire. E Rin orami aveva capito che non era vero. Ale-chan non voleva parlare con nessuno e allora fingeva di dormire.

Accarezzò Kiba accucciato accanto a lei. Il solco rosso che gli attraversava il musetto e le orecchiette leggermente piegate. Kiba non la lasciava da sola un solo minuto. Da quando Inuyasha-kun e Sesshomaru-sama se ne erano andati, il lupacchiotto era diventato ancora più protettivo. Rin si sfiorò la gola, ricalcando con il dito i segni rossi che gli artigli di quel demone le avevano lasciato. Forse sarebbe rimasta una piccola cicatrice. Sospirò e arruffò un po’ il pelo di Kiba, prima di uscire silenziosa dalla stanza.

 

Alessandra liberò un leggero respiro. Impedirsi di lasciarsi cogliere da una specie di nervosismo e di agitazione quando avvertiva la presenza attorno a sé di persone era uno sforzo che le prosciugava le poche forze recuperate. Eppure, il solo pensiero di essere osservata, di qualcuno che fissa il suo corpo sotto le coperte, che può allungare una mano e sfiorarla, la rendeva tesa e la riempiva di angoscia. E la reazione era incontrollata. Pericolosa, doveva ammettere a se stessa. Come con Rin. Come quando la bimba era sgattaiolata nella sua stanza senza il permesso di Yaone. Il giorno dopo quella dannata sera. Solo per vedere come stava; solo per abbracciarla. Alessandra, invece, appena aveva avvertito le mani della bimba, aveva iniziato a dimenarsi e urlare con tutta la forza che aveva. Anche dopo aver riconosciuto Rin. Tremava e singhiozzava. Tartagliava parole mescolate a suoni gutturali e disarticolati. Non voleva che la toccasse, che si avvicinasse. Si era raggomitolata su se stessa, scuotendo furiosamente la testa e cercando disperatamente di zittire le voci che sentiva con il respiro pesante e le urla sempre più acute e stridule. Mentre la gola bruciava per lo sforzo della voce e i colpi di tosse che la squassavano. Cercando disperatamente di liberarsi delle mani che tentavano di tranquillizzarla, di riportarla sdraiata nel futon. Per la seconda volta. Era stata la seconda volta che aveva avuto una reazione simile, violenta e incontrollabile.

 

Rin aveva continuato a fissare sconvolta il corpo di Ale-chan dimenarsi sotto la presa di Miroku e Koga, la voce della ragazza affievolirsi sempre di più, i gesti perdere la poca forza che li aveva caratterizzati e alla fine abbandonarsi con il respiro pesante e gli occhi sbarrati. Sconvolta, scarmigliata, terrorizzata e impotente. Incapace di riconoscere i volti dei suoi amici, imprigionata in quei momenti di abbruttimento e impotenza totali. Si era drammaticamente accorta che l’unica cosa che funzionasse egregiamente era il suo cervello. Per poco, ma riusciva a pensare con lucidità profonda. Uno sforzo che la lasciava vuota e in stato semicomatoso. Le permetteva di sentire il corpo abbandonato e indifferente; il respiro fermarsi in gola anche solo ad un piccolo refolo di vento. Terrorizzata. Sconvolta. Disperata.

 

E alle crisi isteriche delle prima ore, era seguita l’apatia. Totale. Assoluta. Alessandra si era racchiusa dentro se stessa, ignorando qualsiasi stimolo provenisse dall’esterno; dormendo o fingendo di dormire per limitare al massimo qualsiasi contatto. Detestava le visite dei suoi amici; detestava le mani leggere di Yaone che le medicavano il corpo; odiava la sensazione che il suo stesso odore le dava. E mordeva a sangue le labbra per non piangere; per mostrasi forte. Anche se ormai non aveva importanza. Non aveva più alcuna importanza. Non piangeva semplicemente perché non aveva la forza per farlo. Oppure, le lacrime scorrevano indifferenti sul suo viso, senza che lei ne avesse reale coscienza; sia che fosse sveglia sia che dormisse. La sua mente era una cosa; il corpo ormai era lontano. Diverso. Estraneo. Detestabile.

 

Detestava lividi e graffi; detestava la pesantezza e i crampi che avvertiva. Odiava quel malessere diffuso che le aveva impedito di ribellarsi, di provarci almeno. Il ricordo di un corpo a schiacciarla; delle insinuazioni volgari ed esplicite. I conati che l’avevano scossa dopo. Dopo che si era ritrovata sola nella stanza, in quel futon sfatto, imbrattato di sangue, sudore e …e…Strinse gli occhi raggomitolandosi di più. Aveva freddo. Tanto freddo. Nonostante fosse piena estate e il sole inondasse l’engawa. Le veneziane di bambù disegnavano un reticolato abbagliante, lasciando filtrare solo un po’ d’aria pesante e afosa. Non le importava. Tremava. Solo quello. Tremava e batteva i denti.

 

Avrebbe voluto Sesshomaru. Lì accanto a lei. Sdraiato contro la sua schiena; le braccia a stringerle la vita; il viso nell’incavo del collo, mentre le labbra la sfioravano piano. La sensazione del suo corpo freddo che si riscalda leggermente attingendo calore da lei. Il desiderio dei suoi occhi. Quegli occhi indifferenti accendersi di una luce strana, selvaggia e ferina. Simile al lampo che li illuminava nell’orgoglio e nell’eccitazione del duello. Avrebbe voluto Sesshomaru accanto a sé. Il suo silenzio rilassato; il respiro tranquillo a vegliare sul suo sonno. Avrebbe voluto che la stringesse e la portasse via. Via da quella corte che non l’aveva accettata e non lo avrebbe mai fatto. Via da quel mondo che è solo falsità, perfezione, rigore. Lontana da una vita trascorsa nel sangue, da giorni consumati con il cuore in gola, il terrore di perderlo e la logorroica necessità di fingere. Di controllare ogni più piccolo moto del volto, ogni piega incerta della pelle.

 

Strinse forte un lembo del lenzuolo. Lo avrebbe voluto lì. Per cosa? Per mettersi a urlare se solo avesse tentato di avvicinarsi? Per implorarlo di non toccarla, di non sfiorarla, di non guardarla? Perché dovrebbe essere lì? Le apparenze prima di tutto. E lei non era niente. Per il Principe, lei era solo l’archiatra. Si concesse un sorriso amaro. Nemmeno quello: Yaone vestiva quei panni, ormai. Molto meglio di quanto lei avrebbe mai potuto fare, Alessandra ne era certa. Lei aveva perso la sua carica, ed era tornata ad essere solo una ningen. Una stupida, inutile, sciocca ningen. E il Principe non ha nulla da spartire con una come lei. Per il Principe, non è nulla.

 

E per te, Sesshomaru?

 

Cosa provava Sesshomaru per lei? Cosa avrebbe provato adesso? Quando avrebbe sentito sulla sua pelle l’odore di quei demoni, quando lei lo avrebbe allontanato, gli avrebbe premuto le mani sul corpo e cercato disperatamente di cacciarlo, di fuggire dal suo sguardo freddo, indifferente? Se lo sentiva addosso. Sempre. Sempre. Quell’odore ferino e selvaggio che le aveva dato la nausea; l’odore di quel demone che aveva approfittato di lei. Assieme al ricordo degli spasimi del suo corpo; di quel piacere sbagliato e maledettamente doloroso. Ma sempre piacere. E negarlo non serviva a nulla. Non avrebbe cambiato la realtà.

Non l’avevano violata fisicamente; non del tutto almeno. Alessandra ci sperava, benché non ne fosse pienamente certa. Ricordava di essersi ritrovata completamente nuda nel futon, singhiozzando e premendosi lo stomaco contratto dai crampi. Nuda. Eppure, non avrebbe saputo dire quando le avessero strappato il fundoshi. Forse mentre le unghie le tastavano il ventre avevano anche lacerato la stoffa; forse era stato dopo, quando l’avevano lasciata ricadere sul letto, o mentre la obbligavano a bere quel liquido disgustoso. Non lo sapeva; non lo ricordava. E allora, poteva benissimo esser diventata il divertimento di un demone. Anche solo per pochi minuti.

 

Raggomitolò con fatica le mani contro il petto. Il seno pieno e sodo. Fece scorrere lentamente le dita lungo i fianchi, segnando sulla stoffa la forma arrotondata. Chiuse gli occhi e represse un singhiozzo. Il suo corpo. Il suo corpo pieno e dalle curve segnate, sempre più femminile, sempre più simile a quello di una donna. Un corpo così diverso da quello delle donne del Giappone medievale. Corpi minuti e pallidi, con seni piccoli schiacciati da fasce e fianchi appena accennati, ideali stampelle per abiti meravigliosi. Su di lei, i kimono erano più simili ad una vestaglia abbondante e complessa. Segnavano i fianchi e fasciavano il seno. In quel momento, Alessandra provò ribrezzo della sua stessa immagine mentale. Doveva esser sempre apparsa sciatta, orribile, volgare agli occhi della corte. Nonostante tentasse in tutti i modi di ammorbidire le pieghe del kimono, comunque la stoffa la fasciava. In un modo o nell’altro, le segnava le curve.

 

Non le era mai importato, ma all’improvviso un senso di soffocamento le prese la gola. Sesshomaru poteva anche non provare attrazione per le grazie di una donna, ma non dovevano essergli sconosciuti i corpi femminili. Corpi così perfettamente diversi dal suo. Come avrebbe reagito nel vederla nuda, con i seni troppo pieni e i fianchi troppo larghi? Come avrebbe reagito a riconoscere una costituzione diversa da quella che da sempre poteva conoscere? Non solo umana, ma anche lontanissima dai canoni della bellezza orientale. Scosse la testa. Era ridicolo pensarci in quel momento. La stanchezza, la delusione, la paura e la disillusione la stavano gettando in uno stato depressivo che la portava a ragionamenti sconclusionati e insensati. Passava da un pensiero all’altro senza soluzione di continuità; accostamenti mentali che seguivano la ragione per sprofondare poi all’improvviso nell’incoscienza di un sonno agitato e riprendere come se niente fosse. Pensieri che le affollavano la mente senza darle tregua, insieme a immagini, mani, parole, voce. E il desiderio di scomparire, di annullarsi e non sentire più niente. La voglia insaziabile di vedere Sesshomaru, di sentire i suoi occhi addosso, e la consapevolezza della vergogna e del dolore che ne avrebbe provato. La lucidità delirante di una sola sicurezza: non gli avrebbe permesso di avvicinarsi, di toccarla.

 

Di nuovo.

 

Di nuovo. Di nuovo tenere tutti a distanza. Tremare se solo qualcuno accennava il gesto di sfiorarla; tremare e prepararsi mentalmente a difendersi, a cercare di ritrarsi. Mordere le labbra e soffocare l’affanno mentre Yaone la visitava, ringraziando il cielo che il suo corpo fosse ancora troppo debole per provare a reagire. Mentre le lacrime continuavano a scendere senza mai un vero perché; senza cercare una spiegazione. Ringraziando Dio di essere allo stremo e maledicendolo per averle lasciato la sensibilità. Per averle fatto provare quelle dannate, false, sbagliate emozioni quella notte, sotto mani che non voleva, fra fremiti e sussurri che non avrebbe mai voluto sentire, sotto schiaffi, graffi, esplorazioni che ancora la facevano fremere e la nauseavano. E che non sarebbero scomparse mai. Immagini, fotogrammi di sensazioni che sarebbero rimasti sempre nella sua testa. Indelebili. Forse il tempo li avrebbe un po’ sbiaditi, ma sarebbe bastato un colpo di vento per sollevare la polvere della memoria, un odore particolare, un gioco di luci, e Alessandra sapeva che sarebbero tornati. Di nuovo e di nuovo. Ancora e ancora. Sempre. Come i frammenti della notte di quattro anni prima. Come la confusione quasi onirica della notte dell’incidente. Accettata, digerita, ma sempre presente. Pronta a ritornare all’improvviso fra le pieghe di un sogno; pronta a sbatterle di nuovo in faccia quel terrore e quel senso di vuoto.

 

Sola.

Si sentiva drammaticamente sola. E non permetteva a nessuno di avvicinarsi. Lo sapeva bene. Se tralasciava Yaone che si prendeva cura di lei e Rin che non demordeva e ogni giorno si recava a farle visita, benché non ottenesse mai risposta, nessun altro si azzardava più ad avvicinarla. Non dopo le sue reazioni spropositate e incontrollate di quasi una settimana prima; quel dimenarsi selvaggio e irrazionale, che l’aveva portata a ferirsi con gli artigli di Koga, che le aveva riaperto la sutura appena rimarginata alla spalla, che l’aveva fatta sanguinare da piccoli tagli procurati contro i cocci di alcune scodelle. Rotte chissà come. Forse mentre cercava di allontanare i suoi amici tirando loro oggetti; forse mentre Miroku e Koga cercavano di immobilizzarla per terra prima che si facesse davvero male.

 

Era stata la prima volta. La prima volta in cui Alessandra era riuscita a muoversi decentemente. Mentre l’adrenalina le attraversava il corpo e le annebbiava la testa. Un guizzo di disperata vitalità, che l’aveva portata a esplodere violenta e l’aveva prosciugata di ogni piccola forza. Dieci minuti, forse meno, in cui l’unico suo pensiero era stato quello di scappare. Scappare dai suoi incubi, dalle mani che continuava a sentire su di sé, dagli occhi sprezzanti di Sesshomaru che non smettevano di fissarla, di accusarla.

Perché non poteva mentire: il suo corpo aveva goduto di quelle carezze. Sotto mani estranee. Il suo corpo aveva goduto, e poco importava che lei fosse consenziente o meno. Le piaceva. Con nausea e disgusto, Alessandra aveva dovuto razionalizzare che alla sua parte corporea era piaciuta quella violenza. Strinse gli occhi e lasciò sfuggire alcune lacrime. Era un controsenso, un qualcosa che non riusciva a spiegare; forse non ci sarebbe mai realmente riuscita. Ma Sesshomaru lo avrebbe capito. Lo avrebbe intuito. E allora cosa avrebbe pensato?

 

Le mani fredde del demone sulla pelle; le labbra che scendono sempre più audaci lungo la gola. Il suo respiro che le raffredda la nuca, mentre i canini giocano con le pieghe della pelle. No. Non ci sarebbe più riuscita. Non sarebbe più riuscita a farlo avvicinare, a lasciarsi toccare da lui. Non doveva più toccarla nessuno. Il suo corpo era sporco. Sbagliato, maledetto, traditore. Il suo corpo doveva avere ancora addosso l’odore di quella notte; e nessun bagno, balsamo o profumo lo avrebbe tolto. E Sesshomaru lo avrebbe sempre percepito; lo avrebbe annusato da ogni poro della sua pelle. Piegando le labbra in una smorfia appena accennata di disgusto. Di giusto, naturale, doloroso disgusto. Non importava che lei avesse pianto, avesse provato a ribellarsi. Non ha mai importanza; e soprattutto non ne ha lì. In un mondo dove una donna conta poco o niente; soprattutto una donna umana. Sesshomaru avrebbe potuto avere tutte le donne che voleva. La poligamia era una pratica diffusa nella realtà nipponica medievale. Complessa, ma diffusa. Difficile che un Principe ci rinunci per capriccio. Difficile e sciocco. Perché mai privarsi di possibili, importanti, preziosi contratti matrimoniali? E del piacere che ne si poteva trarre, soprattutto?

 

Sesshomaru è youkai.

 

Alessandra sospirò stancamente. Cosa voleva dire essere youkai? Cosa li differenziava dai ningen? L’essenza, certo. Lo aveva visto. Eppure, aveva ritrovato in quel palazzo quel poco che sapeva della civiltà medievale giapponese. Le pratiche, il formalismo esasperato, il controllo e l’autocontrollo, lo spirito di gruppo e l’ostilità verso il nuovo, verso il diverso. Probabilmente loro non lo sapevano, ma fra i ningen vigevano gli stessi atteggiamenti. E una donna svergognata non avrà mai un avvenire.

Premette una mano sugli occhi. Stava esagerando. Forse non era vero che l’avevano violentata; forse era solo la sua paura a farglielo credere. Avrebbe potuto chiedere; facile e veloce. E troppo maledettamente pericoloso. Perché se quel sottile sospetto che fluttuava nella sua testa avesse assunto nome definito e corpo, fosse stato reale, allora avrebbe perso tutto. Tutto quel poco, quel nulla che ancora, inconsciamente, cercava di tenere vivo. La tenue, tacita speranza che Sesshomaru non la disprezzasse per esser stata incapace di sottrarsi; che non la compatisse e non provasse repulsione per lei, per quel corpo che altri prima di lui avevano toccato, assaggiato, svelato.

 

Alessandra-san. Posso entrare?”

 

Ayame. Era da molto che non la vedeva. E quello non era certamente il momento migliore per intrattenersi in una conversazione. Non voleva vedere nessuno. Non voleva esser costretta a parlare, in quel poco tempo che la debolezza le concedeva, mentre era obbligata ad una veglia più simile al delirio, ad un lento e rovinoso lacerarsi interiore, insensato e fluttuante insieme a domande che erano quasi esclusivamente proiezioni di una mente sconvolta e incapace di razionalizzare. Di riprendere anche solo un minimo di lucidità; ed insieme erano di una precisione allucinante.

Ayame. Non avrebbe voluto saperla lì. Non avrebbe voluto che qualcuno entrasse nella sua stanza. Nemmeno lui. Per quanto lo desiderasse; per quanto si chiedesse se fosse mai stato seduto accanto a lei in tutto quel tempo. Anche solo per pochi minuti; anche solo fermo sulla soglia, a fissarla con indifferenza. Sapere che non si era dimenticato di lei. Che forse sarebbe cambiato tutto, ma che non l’avrebbe gettata via come un oggetto.

 

Socchiuse gli occhi. La luce del sole era accecante, nonostante la protezione delle shoji e del tetto dell’engawa. Ayame aveva socchiuso una shoji, permettendo al lupo che l’accompagnava di uscire all’esterno e accoccolarsi sulla veranda di legno, accanto agli altri. Due, o forse tre. Quando si svegliava, ne vedeva l’ombra muoversi lentamente contro la carta di riso. Non le davano fastidio. Restavano fuori. Sentinelle presenti e continue. Inutili, purtroppo. Ormai inutili.

Era stato Koga a ordinar loro di restare lì. Lo aveva sentito, mentre discuteva con Miroku e Yaone. Aveva continuato a tenere gli occhi chiusi, ma le loro voci si sentivano bene nonostante la fusuma socchiusa. Il principe degli Yoro aveva sbraitati e imprecato, ma Alessandra non era riuscita a capire con chi fosse arrabbiato. Inizialmente aveva immaginato Inuyasha, e si aspettava di sentire l’immediata risposta dell’hanyou; invece era arrivata la voce stranamente pacata e bassa di Miroku. Poi altre parole, altre frasi pronunciate troppo a bassa voce perché non fossero che un bisbiglio quasi fastidioso. E infine i lupi. La sua guardia personale. Koga li aveva trattenuti a palazzo nonostante il resto del branco fosse stato rimandato alle rispettive tane. Per quel poco che sapeva lei, degli ookami restavano a palazzo solo i due principi e alcuni lupi di scorta. Ma in fondo, che importava?

Non è di una donna la politica. A lei compete solo il letto. E lo stava imparando troppo bene. Troppo dolorosamente bene. Soffocò a fatica un singhiozzo, ricordandosi troppo tardi di non esser più sola nella camera.

 

Alessandra-san. Volete parlare? Vi farebbe bene”

 

Ayame ritrasse la mano. Stava tremando. Alessandra stava tremando. Probabilmente era la sola reazione che il suo corpo le permettesse in quel momento. Tremare. Tremare per far capire l’ansia, la paura e anche la vergogna che sentiva. Il rifiuto di essere avvicinata. Era bastata solo la leggera pressione della mano della yasha e quelle parole, quel tentativo di avvicinarsi, e Alessandra aveva sentito come se il respiro fosse tagliato di netto e stesse soffocando. L’angoscia divorare la gola e portare il corpo a reagire. In un modo qualsiasi, ma reagire.

 

La yasha sospirò attorcigliandosi un ricciolo. Lei, Kagome e Sango speravano solo che servisse tempo. Alessandra aveva bisogno prima di tutto di recuperare le forze; quell’intruglio che le avevano fatto bere l’aveva prima indotta a vomitare, e poi le aveva tolto completamente l’appetito. Era quasi una settimana che il poco brodo che mangiava glielo facevano sorbire praticamente a forza. Se ancora non erano passate a maniere meno delicate era solo perché Yaone-san era stata categorica: non si doveva assolutamente sforzarla nel mangiare; sarebbe stato completamente inutile e anzi dannoso. Lo stomaco della ragazza era troppo assuefatto al poco cibo, e riempirlo troppo velocemente avrebbe provocato una reazione di rigetto anche violenta. L’unica era continuare a piccoli passi. Ma intanto, Alessandra dimagriva. Sempre di più. Già in quei mesi di assedio la tensione e il nervosismo, l’esasperato autocontrollo cui non era abituata e che si era imposta l’avevano provata molto anche a livello fisico; aggiungendo la settimana di coma trascorsa, il corpo della ragazza era debilitato in modo preoccupante, e se non si trovava una soluzione soddisfacente, Alessandra non avrebbe recuperato le forze in modo corretto. Tuttavia, anche se fossero riusciti a farla mangiare di più, era soprattutto lo stato psicologico a preoccupare.

 

Nessuno di loro aveva mai visto Alessandra prima di incontrarla a palazzo. Basandosi su quello che Kagome ricordava di aver scoperto mesi prima, Yaone aveva supposto che Alessandra avesse già attraversato una fase di rigetto simile. Rin-chan aveva detto che una volta, quando ancora non c’era stata la guerra, Ale-chan non si lasciava toccare da nessuno. Aveva anche smesso di parlare e dormiva pochissimo. Non ne sapeva molto di più; era anche comprensibile, visto che una bambina non può cogliere certi sintomi, e soprattutto non si fa tante domande. Rin però aveva detto anche che ad un certo punto si era accorta che Ale-chan stava bene, e che Sesshomaru-sama e la ragazza parlavano spesso. Non sapeva di cosa, però.

 

Ayame scosse la testa. Inuyasha non era ancora tornato, ed erano già passati sei giorni. Sei giorni da quando aveva lasciato il palazzo sotto la minaccia di dense nuvole nere. Koga aveva provato a mandare ai confini del territorio alcuni lupi, ma erano tornati senza un nulla di fatto. Inuyasha aveva fatto perdere le sue tracce, come Sesshomaru prima di lui. E intanto che quei due giocavano a rimpiattino, i membri più influenti della corte si stavano organizzando per riprendere le redini del regno dell’Ovest. Non che Sesshomaru dispiacesse come Principe. Efferato e freddo come deve essere uno youkai, era però troppo giovane ancora. Una sbandata per una donna umana la si poteva perdonare; tenersela come amante era accettabile, ma avrebbe dovuto anche pensare alla discendenza. Ed era meglio affiancargli una compagna in quel momento, mentre era ancora un ragazzo. Una yasha loro fedele e ben istruita, che nell’alcova avrebbe potuto esercitare una tacita, indiretta, sibillina influenza sul compagno. Piegare Sesshomaru alla volontà della corte significava avere come alleato la yasha che gli sarebbe stata al fianco. Le donne, anche se demoni, non hanno mai vita politica, ma sono esperte seduttrici, e hanno occhi e orecchie dovunque. La compagna del Principe sarebbe stata per prima cosa l’asso nella manica della corte; e la pedina per tendere e stringere i fili attorno al figlio di Inutaisho, per controllarlo come non era stato possibile con il padre. In definitiva, qualsiasi faccenda politica, alla fine, diventa sempre una faccenda di letto.

 

Ayame aggirò il futon e uscì sull’engawa. Era inutile chiamare qualcuno. Alessandra si sarebbe calmata da sola e solo se lasciata tranquilla. Far accorre più gente sarebbe stato maledettamente controproducente; lo avevano scoperto a loro spese. Sospirò e raggiunse Koga che accarezzava uno dei lupi di guardia. La sera prima avevano avuto una violenta discussione, ma sembrava che ormai non avesse più importanza. Fin quando Sesshomaru non fosse tornato e Alessandra non fosse stata visibilmente, se non rimessa, ormai sulla via della completa guarigione, i due principi avevano concordato di restare a palazzo. Anche perché erano solo loro, con i loro lupi, a poter garantire un minimo di tranquillità non solo ad Alessandra, ma anche a Kagome e agli altri ningen. E anche ai signori del Kansai. Fosse dipeso dalla corte, il nuovo principe avrebbe già incontrato la morte, Kumamoto favorevole o meno. Ma almeno il vecchio generale era riuscito a imporre la sua autorità su quella questione: Kyoko, Shin e i suoi fratelli erano prede di Sesshomaru. A lui solo spettava decidere la loro sorte, e anche se a malincuore la corte aveva dovuto ammettere che era meglio cedere su quello che inimicarsi il Principe.

 

“Come sta?”

 

Ayame scosse la testa e poggiò il viso sulla spalla di Koga. Non c’era nessuno nei giardini del Principe, e lei aveva bisogno della presenza del suo compagno. In definitiva, quelli erano gli ultimi giorni che avrebbero potuto trascorrere assieme. Poi, sistemate le questioni militari e logistiche, Koga l’avrebbe riportata sulla montagna, da suo nonno, e avrebbe ripreso la caccia a Naraku. Mentre lei si sarebbe consumata nell’attesa, nella speranza di vederlo tornare. Aspettando. Aspettando di vederlo correre lungo il sentiero montano. Aspettando di poter raccontare a suo nonno il segreto che le marchiava la pelle e di poter mutare la sua pelliccia da bianca in marrone.

 

“Credi che Inuyasha lo troverà?”

 

Koga le passò una mano attorno alle spalle. C’era un’altra questione da risolvere: Nijiya. Ma non era quello il momento di pensarci. In quel momento, la cosa importante era restare concentrati e preparati. Non si sarebbe fatto fregare di nuovo da un branco di stupidi cagnolini boriosi. E soprattutto non avrebbe accettato di sentirsi rimbeccare dal botolo. Storse la bocca in una smorfia. Detestava doverlo ammettere, ma se qualcuno poteva ritrovare Sesshomaru, quello era solo Inuaysha.

 

Devi trovarlo. Devi!

Prima che perda la pazienza e faccia fuori questi cagnacci rognosi. E perché Alessandra-san ha bisogno di lui.

 

 

 

*****

 

 

 

“Sei preoccupata per Inyasha?”

 

Kagome scrollò le spalle. Era preoccupata, certo; soprattutto ripensando ai pochi giorni che lo speravano dal suigetsu e al fatto che, in quel momento, poteva trovarsi faccia a faccia con Sesshomaru e lei non era con lui a frenarne il carattere troppo impulsivo e collerico. Arricciò le labbra. Chi voleva prendere in giro? Probabilmente, se si fosse trovata davanti Sesshomaru si sarebbe lanciata in una ramanzina infervorata, una sfuriata di quelle che di solito fanno abbassare le orecchie e la testa dell’hanyou e lo fanno raggomitolare guaendo. E non gliene sarebbe importato nulla del fatto che avesse davanti il Principe dei demoni, l’erede del dominatore del mondo, l’ultimo di una stirpe potente e pericolosa, uno youkai che avrebbe potuto ucciderla anche solo per essersi soffermata troppo con lo sguardo su di lui. Non le sarebbe importate. E continuava a non importarle. Aveva raccomandato ad Inyasha di cercare di mantenere la calma, di parlare con suo fratello e riportarlo a palazzo, evitando il più possibile di ricorrere alle mani. Ma appena Sesshomaru fosse rientrato, gli avrebbe concesso giusto il tempo di recarsi in visita da Alessandra e poi era bene decisa a fargli un bel discorsetto. Uno dei suoi. E se ancora si rifiutava di visitare la ragazza, allora…allora avrebbe inventato qualcosa.

 

Prese a giocherellare nervosamente con il rosario che portava al polso. Da quando Inuyasha aveva lasciato il palazzo lo indossava. Le dava sicurezza; le trasmetteva la sensazione della vicinanza dell’hanyou. Si era abituata a vederlo senza rosario mistico, ormai; non rimpiangeva affatto la scelta che aveva fatto di toglierglielo. Era accaduto più di una volta che sulla lingua le bruciasse quella parola; era accaduto che la sussurrasse, che la urlasse anche, per vedere Inuyasha irrigidirsi e incassare automaticamente la testa nelle spalle. E restarsene lì, ritto davanti a lei; occhi stretti e una smorfia contratta. Era accaduto, e in un certo senso Kagome era stizzita del fatto di non aver pieno controllo del ragazzo. Adesso, poteva sgusciarle fra le mani senza che lei avesse la forza di fermarlo. Però, doveva ammettere a se stessa, Inuyasha sembrava essere maturato molto in quei mesi. Non si faceva molte illusioni: finita quella parentesi, sarebbe tornato il solito arrogante e scorbutico. Ma qualcosa sarebbe rimasto. Forse l’ombra sottile nei suoi occhi; forse quel modo di inclinare la testa di lato e incrociare le braccia. Forse semplicemente la maggior abitudine a tendere i sensi in mezzo alla gente, ad una vita costantemente condotta in allarme, pronto a scattare ad ogni più piccolo accenno di pericolo. O forse, più semplicemente, l’innato desiderio di mostrare a suo fratello chi fosse, le possibilità di cui anche lui disponeva. Per non farlo vergognare. Per provare, se non a renderlo orgoglioso, almeno a farsi accettare. Un po’. Solo un po’.

 

Sesshomaru. Il Principe restava un’incognita. Ma in quel momento Kagome non ci voleva pensare. Era già furente perché se ne era andato, indispettita e delusa per quanto successo alcuni giorni prima, amareggiata e arrabbiata con se stessa per aver assistito a quella violenza e non aver mosso un muscolo. Non aver potuto muovere un muscolo. Se solo fosse stata un po’ più forte; se solo avesse mantenuto la necessaria lucidità. Kikyo non si sarebbe fatta sorprendere in un modo così sciocco. Kikyo avrebbe mantenuto il distacco e avrebbe eretto una barriera. Una potente barriera; non molto grande, ma sufficiente a racchiudere loro e Alessandra. Già; avrebbe potuto farlo. Ma non aveva avuto la freddezza per aggirare le emozioni che l’avevano invasa, stordita, annullata. E poi, c’era Rin. In mano ai demoni;

 

Sollevò una mano a riparare gli occhi. Rin era affacciata sul piccolo laghetto del giardino. Una manina in acqua e un piccolo sorriso. Kiba accucciato di lato e Miroku accanto, a muovere le mani in modo ipnotico, irreale. Se chiudeva gli occhi, Kagome rivedeva il terrore negli occhi della bambina; la consapevolezza che Sesshomaru-sama non c’era per aiutarla. Rivedeva il suo labbro tremare quasi impercettibilmente, mentre gli artigli premevano. Sempre di più. Sempre più nella pelle. Incidendo la gola. Kagome si sfiorò il collo in un gesto inconscio. Rin avrebbe conservato quelle cicatrici; semplici aloni che con il tempo si sarebbero sbiaditi, ma sarebbero rimaste.

Era cambiata, la piccola Rin. Sembrava che si stesse rendendo veramente conto del mondo diverso, lontano, in cui aveva iniziato a vivere. Forse era solo un rimasuglio di paura; forse era banalmente la lontananza di Sesshomaru a renderla più schiva ed evasiva. Tuttavia, Kagome si chiedeva come vivesse la bimba a palazzo. In un mondo completamente diverso, lontano, strano. Un mondo dove anche il tempo sembra scorrere diversamente. Te lo senti addosso come una brezza; un’aria di cristallo pressoché immobile. Sa di stantio, di stagnante. Ecco. C’è un clima stagnante, logoro a palazzo. Eppure, non è rivoltante. Non è l’odore del marcio di uno stagno; non è la percezione della decadenza. Se pensava a qualcosa che si consuma, Kagome ricordava il rametto di momo che suo padre le aveva regalato durante un momo no sekku. Lo aveva messo in un vasetto in camera. Era bello, profumato; poi, piano piano il rosa dei petali era diventato giallino chiaro, marroncino, marrone e poi erano caduti. Uno dopo l’altro. Mentre le foglie raggrinzivano e si accartocciavano. E l’odore. Il buon profumo del pesco a confondersi con qualcosa di nauseante e fastidioso.

Ecco. La sensazione che provava in quel momento era diversa. Simile ad una bolla di vetro. Come se il mondo degli youkai avesse un altro ritmo. Come se, nonostante il susseguirsi dei giorni, degli avvenimenti, non mutasse nulla. E forse era davvero così.

 

Kagome sospirò e si stropicciò gli occhi. Dormiva poco la notte. Nonostante Kirara restasse sempre vigile e attenta e la presenza di Sango in assetto da battaglia fosse rassicurante, non riusciva a dormire. Si concedeva solo quelle poche ore di sonno strettamente necessarie. Trascorrendo le giornate vagando per i corridoi dell’edificio privato del Principe. Ogni tanto si intratteneva con i lupi di Koga; ogni tanto raccontava a Rin qualcosa del suo mondo o prendeva arco e frecce e si esercitava. Dannatamente inutile, ormai. Ma almeno le svuotava la testa. Non poteva fare altro, purtroppo. E vedere quelle shoji socchiuse in fondo al padiglione le faceva ribollire il sangue e contorcere lo stomaco.

 

Alessandra non voleva vedere nessuno. E lo aveva detto chiaramente. Non con le parole, non con la calma quasi innaturale, fasulla che le aveva conosciuto. Lo aveva urlato con voce roca per lo sforzo e la prolungata afonia. Lo aveva urlato con gli occhi spiritati, con la pupilla troppo dilatata e la bocca che perdeva saliva. Lo aveva urlato cercando di sottrarsi alle mani di Koga e Miroku; rifiutando il contatto con qualsiasi persona. Nei gesti scordinati e violenti; nell’isterismo di urla che si riducevano a singhiozzi quasi impercettibili. Nel dimenare selvaggiamente la testa e cercare di mordere. Mordere. Mordere. Qualsiasi cosa che si avvicinasse; che cercasse di sfiorarla. Diventando sempre più pallida e sudata; lo yogi scomposto e scivolato lungo una spalla a mostrare i rimasugli di ematomi e lividi; la pelle arrossata da escoriazioni e graffi. L’alone disgustoso di sudore e umori sulla stoffa. E l’odore. Quell’odore rivoltante di sudore, urina, marciume.

 

Kagome chiuse gli occhi. Rivedeva Alessandra in quella sera d’inverno, quando si era presentata a Musashi con la sua affettata sicurezza e la sua folle richiesta. La rivedeva raccontare con distacco e indifferenza la discussione avuta con Sesshomaru quando lei e Inuyasha erano arrivati a palazzo. Risentiva la sua voce pacata e sicura; lo sfuggire rapido degli occhi; i gesti appena accennati e troncati quasi temendo di osare troppo, di prendesi confidenze sbagliate. Il piegarsi rigida e innaturale davanti al Principe; quel modo che aveva di fissare Sesshomaru, con sfrontatezza e quasi adorazione. Come se stesse studiando, valutando esattamente cosa approvare nel demone, cosa accettare. L’attorcigliare i capelli alle dita mentre era nervosa e il mordere a metà il labbro inferiore, stringendo gli occhi. Le risate discrete e l’intervenire sporadico nelle conversazioni, con un’ironia un po’ sottile e mai volgare. Quel giocare con le parole che Kagome aveva sentito solo da Alessandra. Anche Miroku ne era rimasto affascinato: il calibrare perfettamente termini, sinonimi e assonanze. Quel coniugare in modo quasi sospetto l’abitudine giapponese tradizionale all’essenziale con una esuberanza, una spontaneità che era tutta del paese d’origine della ragazza.

 

Alessandra era chiusa, introversa, riservata. Si presentava inavvicinabile e quasi odiosa. Poteva farsi odiare; con quell’aria di superiorità che era solo una maschera. Kagome l’aveva vista arrabbiarsi, intristirsi, abbattersi e stringere i denti per non cedere. Aveva assistito al lento sfaldarsi della sua maschera. Come cera. Molliccia, gocciolante. Un cerone che si era staccato pezzo a pezzo, rivelando loro la ragazza fragile, attanagliata dai dubbi e insieme risoluta una volta presa la sua decisione. Alessandra si era lasciata avvicinare da loro, e aveva mostrato le sue incertezze. Gli occhi che vagano nella tenda alla ricerca di un cenno di assenso, di presenza. Il terrore di uno sbaglio e del peso di una responsabilità troppo grande per lei, per un archiatra che appena conosceva le prime pratiche di pronto soccorso. I grumi di saliva ingoiati quando, per protocollo, doveva piegarsi e mordersi la lingua davanti a dignitari e generali. L’umiliazione trattenuta con orgoglio o forse disperazione al sussurro di insinuazioni e allusioni.

 

Kagome aveva imparato a vedere Alessandra sotto molti aspetti. Ma non in quello stato. Quando, finalmente, dopo ore, Yaone aveva preso il coraggio di aprire la fusuma della stanza, lo spettacolo che si era presentato loro li aveva raggelati. Alessandra giaceva in un angolo della stanza, raggomitolata su se stessa; capelli scarmigliati, occhi gonfi e arrossati, sguardo stralunato. Dalla bocca, assieme a un rivolo di saliva mischiato a sangue, usciva un respiro pesante e affaticato. Stringeva al petto le braccia, cercando inconsciamente di coprirsi con i brandelli dello yogi, mentre le bende che le fasciavano il busto penzolavano sinistre macchiate di sangue. Fissava senza nemmeno vederlo il futon; le coperte ammassate in modo informe e macchie indefinite a imbrattarlo e ammorbare l’aria.

 

Accanto a Kagome, Koga aveva stretto gli artigli e ringhiato, mentre le vene del collo gli si gonfiavano per la furia. Era stato un attimo, il tempo che Yaone provasse ad avvicinarsi, che Alessandra si era girata verso di loro, fissandoli con occhi terrorizzati e quasi senza iride, rannicchiarsi ancora di più su se stessa, che aveva iniziato a urlare e dimenarsi. Lamenti sempre più acuti, che scoppiavano improvvisamente in grida rauche e poi si spegnevano in un lungo singhiozzo ansimante. Parlava in una lingua che loro non capivano. Continuando a ripetere quelle che, dal tono, sembravano suppliche. Miroku aveva provato ad avvicinarsi lentamente, ma appena si era inginocchiato, Alessandra lo aveva aggredito gettandogli contro una delle scodelle sparse sul tatami. C’era voluta la forza demoniaca di Koga per riuscire a stenderla e immobilizzarla, farle aprire a forza la bocca e costringerla a inghiottire un calmante preparato da Homoe. E ancora Alessandra aveva scalciato e urlato, graffiato, morso e costretto Miroku a intervenire a sua volta, per evitare che la ragazza si ferisse troppo seriamente sotto gli artigli dell’ookami. Sembrava che desiderasse il dolore; sembrava che facesse di tutto per sentire il sangue colare dai tagli, premendo le braccia, le spalle, il busto, le gambe contro le mani che disperatamente cercavano di tranquillizzarla, di contenerla, rivelando un’energia che era solo disperazione, costringendo il suo corpo debilitato e provato a uno sforzo che avrebbe anche potuto esserle fatale. Alla fine, mentre il farmaco faceva effetto, mentre Alessandra si accorgeva che le forze e la coscienza stavano per abbandonarla e il pensiero di essere di nuovo inerme le attraversava confusamente la testa, due grosse lacrime erano scivolate sul suo viso, occhi dilatati, spalancati, fissi al soffitto, e le braccia che si abbandonano, che smettono di stringere convulsamente pelle, stoffa, metallo, capelli.

 

Kagome si lasciò scivolare dall’irikawa sul gradino di pietra, accucciandosi accanto a Kirara che le strofinò il muso contro una spalla. Non riusciva a togliersi quelle immagini dalla testa. La voglia di chiudere gli occhi e scoprire di non avere la forza di farlo; il ritrovarsi seduta per terra senza nemmeno sapere come possa esser successo, e sentire la gola chiusa e non chiedersi come ancora non si sia morti soffocati. Trovare le forze, inconsce, assuefatte, per rispondere alle indicazioni di Yaone e Homoe; aiutare Sango a liberare la ragazza dei rimasugli della stoffa e scoprire un corpo quasi scheletrito, con le costole basse ben delineate sotto la pelle, i seni deformemente gonfi e quasi stonati contro le braccia e le gambe secche; il ventre segnato da graffi ed ematomi violacei che già stavano virando ad un verde-giallino rivoltante. E di nuovo rivederla con abiti troppo larghi, con i kimono portati un po’ ribelle e i colori scuri a smussare le forme occidentali, il seno prosperoso e i fianchi larghi. Spariti, svaniti, dissolti. Kagome e Sango avevano avuto il terrore che potesse frantumarsi un osso alla semplice pressione delle mani. L’avevano lavata e ricomposta; avevano sostituito il futon e gli abiti, bruciando poi tutto il resto. Koga aveva congedato il suo clan, affidandolo a Ginta e Hakaku, e aveva trattenuto a palazzo solo una dozzina di lupi, giovani di forze, ma non inesperti. Presidiavano costantemente il padiglione di Sesshomaru, vegliando sui ningen e sulla loro hime. Koga aveva preso posto nella stanza di Miroku, infatti, e aveva obbligato Ayame a lasciare la sua tenda per dividere la camera con Sango e Kagome. Ma, soprattutto, i lupi controllavano la stanza di Alessandra, impedendo l’accesso a chiunque il loro Principe non avesse accordato il permesso.

 

“Smettila di pensarci, Kagome. È inutile”

 

Sango scrollò le spalle. Cercava di dimostrarsi risoluta e battagliera, ma entrambe sapevano che quanto successo le aveva profondamente colpite. Sarebbe passato molto tempo prima che riuscissero di nuovo a guardare Alessandra senza rivederla in quello stato, senza risentirne le grida disperate e le invocazioni flebili martellare loro nella testa. Inoltre, la situazione in generale non era rassicurante. Nonostante le precauzioni prese, se gli inuyoukai avessero deciso di tentare qualcosa, nessuno di loro era certo di riuscire a fermarli. L’autorità di Sesshomaru aleggiava su di loro, ma avevano avuto la prova drammaticamente tangibile di come alcuni membri della corte arrogassero a sé certi diritti di comando in assenza del Principe. Forse non avrebbero tirato ancora la corta, ma in fondo il danno maggiore che potessero fare lo avevano già perpetrato. Sango, tuttavia, non rinunciava ormai più alla sua divisa di sterminatrice, e se non aveva sempre accanto hiraikotsu, non si esimeva dal portare con sé anche un semplice ventaglio da guerra. E soprattutto, nessuno di loro si azzardava a lasciare il padiglione del Principe. Alle loro necessità provvedevano Koga o Jaken, oppure Yaone e Homoe. Loro demoni potevano muoversi con tranquillità anche negli altri corpi del palazzo, ma se i ningen si fossero avventurati, non era certo che non sarebbe successo nulla. Secondo Homoe, e Sango condivideva l’opinione, era sospetto che i membri della corte non avessero più tentato nulla. Ormai era palese che non interessava loro il fatto che Alessandra e i ningen fossero protetti del loro Principe. Spintisi a quel punto, era già di per sé incredibile che non avessero concretamente violentato Alessandra. Un gesto che lasciava Sango alquanto perplessa. Dopo essersi divertiti con la ragazza psicologicamente, per quale motivo non distruggerla completamente anche a livello fisico? Non era una sciocca; sapeva perfettamente come andassero certe cose. Sebbene Miroku fosse un pervertito, un donnaiolo, era innocuo, non si sarebbe mai permesso di forzare una donna ai suoi desideri; ma Sango sapeva bene che, se non doveva temere concretamente Miroku, al tempo stesso esistevano uomini che non si sarebbero fatti nessun problema a sbattere per terra una donna e godere di lei. Ne aveva anche viste, di donne violentate durante un saccheggio. Al suo villaggio, quando lei era bambina, uno sterminatore era rientrato assieme ad una donna sconvolta. Nove mesi dopo, quella donna aveva partorito un figlio. Allora lei era troppo piccola per capire, per sapere. Ma poi. Poi aveva compreso. Poi aveva capito perché il pianto di quel bambino, una notte, era smesso improvvisamente, e si era sentito un altro pianto. Completamente diverso. E lo aveva visto: il corpo del neonato a terra, e la madre in piedi. Con l’espressione di una pazza sulla faccia e le braccia ancora aperte. Spalancate.

 

Sango sospirò e si passò una mano fra i capelli. L’unica cosa che sembrava voler esser risparmiata ad Alessandra era proprio quella: il vedere il proprio ventre crescere, aumentare e sapere che dentro c’è una vita. Un bambino non voluto, nato dalla violenza, dalla costrizione. E odiarlo. Odiarlo con tutta te stessa. Fino a lasciartelo cadere dalle braccia. Fino a volerlo zittire completamente; per sempre. Cancellare la fisionomia di un uomo che non avresti mai voluto vedere, che non smetterai mai di vedere. Nei tuoi incubi, nelle tue notti agitate.

Quello no. Quello era l’unica preoccupazione degli inyoukai: Alessandra non doveva assolutamente concepire un figlio. Per il resto…Sango sapeva benissimo quanto valesse la vita della ragazza e la loro per i demoni. O almeno per i demoni che formavano la corte dell’Ovest.

 

Era curioso come, in quei mesi, avesse imparato ad accettare al suo fianco, in combattimento youkai che solitamente aveva sempre combattuto. Con Inuyasha non si era posto il problema. Lui era un hanyou, e quindi potenzialmente umano. Possedeva una parte umana che glielo aveva resto più vicino, più simile. A Inuyasha mancava completamente quella logica diversa, imperscrutabile che muove i demoni. Lui agiva d’impulso, secondo le passioni, secondo pulsioni chiaramente umane. Eppure, in quei mesi si era trovata costretta a conoscere demoni. Koga e Kumamoto; Homoe e Yaone. E per quanto non riuscisse a discernere certi loro atteggiamenti, aveva dovuto ammettere a se stessa di riuscire a fidarsi di loro.

 

Seguì il movimento lento di Kagome che rientrava nelle loro stanze; concesse un fuggevole sguardo a Koga e Ayame dall’altro lato dell’engawa, indugiando sulle shoji socchiuse della stanza di Alessandra. Yaone sarebbe arrivata più tardi, insieme a Homoe. Per provare a far mangiare la ragazza. Alessandra riusciva a fatica a ingerire qualcosa; e un po’ per la debilitazione un po’ per gli effetti che l’aconito aveva dato, sconvolgendole lo stomaco più di quanto non fosse già provato, quel poco che riusciva a mangiare era quasi inevitabilmente vomitato. Se Yaone non trovava una soluzione più che soddisfacente, Alessandra rischiava di morire d’inedia, oltre che per i postumi della ferita. Accarezzò Kirara e fissò il muro di cinta. Si sentiva inutile, impotente, svuotata. Le parole dell’archiatra facevano male, ma, purtroppo, erano l’unica drammatica, sfibrante certezza.

 

“Possiamo solo aspettare. E sperare che Alessandra-san abbia ancora un po’ di forza

 

 

*****

 

 

Il ventre della trota era argentato. Un brillio sommesso a pelo d’acqua; fra le canne e il basso fondale fangoso. Il ventre bianco, lucido, che lentamente si stava facendo livido. Partendo dall’esterno, dalle pinne pettorali; e gli occhi fissi. Bianchi e immobili. Con la pupilla opaca a fissare il vuoto. Galleggiava pigramente fra il liquame della riva; la pinna codale leggermente falcata semitrasparente. Si sarebbe consumata presto. La cartilagine sarebbe diventata sottile e poi dissoltasi. Il corpo sarebbe affondato nel fango; mangiato da batteri e ridotto a lisca. Una piccola lisca bianca. Invisibile. E di quegli occhi fissi, quasi beffardi, sarebbe rimasta un’orbita nera e vuota.

 

Nulla di interessante. Un già visto. Un già conosciuto che lo infastidiva appena; assieme all’odore di marcio che saliva dalla piccola insenatura semistagnante; con l’acqua oleosa e leggermente muffita. Quel pesce aveva la gola squarciata; e le labbra del taglio ormai nere e putrefatte. Un corpo marcio; definitivamente destinato a perdersi. Seguendo una legge naturale e ovvia. Banale. Seguendo un tempo che segna l’alzarsi e l’abbassarsi del sole, l’avvicendarsi sui rami delle gemme tenere e nuove; il ciclico ritorno delle piogge prima di quel calore pesante e malsano. Infido per i ningen.

 

Sesshomaru continuava a fissare quel pesce. Senza una reale motivazione. Lo guardava come avrebbe guardato un insetto fastidioso, come avrebbe guardato un massacro umano. Senza interesse; senza cercare nulla. Semplicemente osservare. Per sottolineare a se stesso la differenza. Le molte, palesi, molteplici differenze. Quel pesce; una preda di caccia; un ningen. Erano la stessa cosa: nulla. Polvere. Carne destinata a diventare polvere. Sangue, pulsioni, istinti, umori che non avrebbero avuto nemmeno il tempo, il reale tempo, di capire cosa succedesse attorno a loro. Cosa fossero.

Allungò impercettibilmente gli artigli. Lui poteva rendere cenere la carne. Lui poteva disfare in sangue un corpo. Quel sottile benessere degli artigli vischiosi e caldi; il rumore secco e improvviso di sciocco, ossa frantumate sotto la pressione della sua mano. Una pressione leggerissima e lenta. Sentendo le vene della vittima pulsare impazzite sotto la pelle.

 

Non gli interessavano i ningen. Indegni anche solo della sua più piccola attenzione. Semplice cibo, in condizione di estrema necessità. Si lisciò lentamente le labbra. Quanto era trascorso dall’ultima volta? Quanto era passato da quando aveva assaggiato la carne di un ningen? Strappandola con i denti da un corpo straziato dai suoi artigli. Perché? Non lo ricordava. Non avrebbe saputo dire perché si fosse accanito con precisa, lucida ferocia su…cos’era? Un bambino? No; non era un bambino. Sapeva di dolce. Sì; un sapore leggermente zuccherino. Ed era morbido. Una donna. Una donna gravida. Sì. Adesso lo ricordava. Una contadina. Il kosode marrone si era aperto mentre il corpo cadeva a terra, rivelando il ventre leggermente gonfio; il collo innaturalmente piegato spruzzato di sangue e del nero dei capelli fuggito al katsura tsutsumi. Perché l’aveva uccisa? Era stato per capriccio, per godersi i suoi occhi sbarrati? O forse proprio perché gravida, perché portava in grembo quel cucciolo umano.

 

Sposò lentamente lo sguardo. La trota continuava a galleggiare pigramente. E il cielo si stava coprendo a sprazzi di nubi scure e fuligginose. Si ritrovò sotto una pioggia sottile e leggera, finissima, che si insinuava fra i raggi del sole. L’aveva uccisa perché gravida. Quella femmina. Quella maledetta femmina con quell’odore dolciastro e fastidioso. L’odore che suo padre aveva addosso quando tornava dopo esser stato da lei, da quella donna. Un odore sbagliato, incoerente, ingiusto. Non aveva potuto uccidere la donna che aveva ucciso suo padre; e allora aveva ucciso quella contadina. Solo perché aveva lo stesso odore. Lo stesso maledetto odore di latte e sangue nuovo.

 

Non era riuscito a ucciderla. Quella volta, la prima e l’ultima in cui l’aveva incontrata. Nel padiglione femminile di un palazzo, ormai distrutto dal tempo e dalle guerre. Sola. Mentre allattava quel figlio indegno, quel figlio eretico. Inuyasha. Un pomeriggio di metà primavera, con l’odore del glicine e del ciliegio nell’aria. Era arrivato senza alcuno sforzo fino alle sue stanze; invisibile. Ma lei no. Lei si era accorta di qualcosa. Era come se lo avesse percepito, benché Sesshomaru sapesse che era impossibile. Sarebbe stato facile; immediato. Allungare gli artigli e aprire quella gola sottile, bianca; troppo bianca. Tutto in quella donna era troppo. Troppo luminosi i suoi occhi mentre guardava l’hanyou; troppo neri i suoi capelli; troppo rosse le labbra; troppo forte l’odore di suo padre su di lei. Sesshomaru aveva sentito una vampata calda invadergli la testa, salirgli lungo il corpo e concentrarsi negli artigli, nella volontà di dilaniare, lacerare, fare a pezzi. Ma non si era mosso. Era stata lei a vederlo; e lui a lasciarsi guardare. Voleva che lo guardasse, che sapesse chi era e capisse perché. Perché doveva morire. Desiderava la sua bocca socchiusa, con il labbro inferiore che lentamente inizia a tremare, assieme al movimento impercettibile del mento. Le mani che stringono al seno ancora nudo il figlio, che premono leggermente e poi comprimono, stringendo quasi convulsamente la stoffa della leggera coperta.

 

Sesshomaru si era avvicinato lentamente, preparando gli artigli e gustando intimamente quegli occhi grigi allargarsi, la pupilla dilatarsi fino a inghiottire l’iride e restare così, fermi su di lui, instabili e acquosi. Non riusciva a parlare. Probabilmente non sapeva nemmeno chi avesse di fronte; lo poteva intuire, ma certamente non conosceva il suo nome. Sesshomaru si era inginocchiato, piegando appena il viso di lato. Fissandola. Cercando di capire cosa avesse trovato suo padre in lei. Cosa gli avesse dato per riuscire a farlo morire per lei, a stregarlo fino a ucciderlo. Aveva lasciato scivolare la mano fino alla stoffa dello junihitoe, risalendo sfiorandolo appena. Aveva superato ignorandolo il corpicino stretto fra le braccia, aveva sentito sotto gli artigli la pelle sudata e fredda del seno, il brivido che la sua mano gelida aveva strappato. La gola. L’aveva avvolta con calcolata lentezza, mentre la donna continuava a guardarlo. Sconvolta. Terrorizzata. Sì: i suoi occhi erano terrorizzati. Perché aveva capito. Aveva capito che li avrebbe uccisi; aveva capito chi fosse e perché fosse venuto. E sapeva che non lo avrebbe fermato, che non sarebbero bastate le suppliche che cercava di balbettare e le lacrime che scendevano fino alla sua mano a fermarlo. Aveva stretto un po’ la presa e la donna aveva sussultato. Aveva continuato a premere incrementando la forza millimetro per millimetro. Di solito, non gli interessava dare una morte lenta e dolorosa ai suoi avversari o ucciderli immediatamente. Di solito, bastava che morissero. Ma lei no. Lei non doveva solo morire. Lei doveva capire. Doveva sentire l’aria andarsene, bloccarsi nei polmoni, nella gola. Doveva sentire i suoi artigli premere fino a entrare nella carne, il suo respiro regolare e i suoi occhi indifferenti. Occhi capaci di guardarla morire senza provare pietà, rammarico, rabbia, disgusto o compassione. Solo guardarla morire. Eliminarla.

 

Aveva sterro ancora. Le labbra pallide e il viso leggermente cianotico. La donna aveva lasciato cadere il bambino; suo fratello piangeva disperato. Fastidioso e irritante. Avrebbe ucciso anche lui. Prima la donna, poi lui. Ancora un altro po’; ancor una leggera pressione e la carotide si sarebbe spezzata. Aveva soppesato gli occhi velati per la dispnea, sempre più pallidi e vitrei. Rovesciarsi lentamente all’indietro, mostrare sempre di più il bulbo bianco e le sottili striature rosate dei capillari. Le mani che stringevano la manica del suo kimono e il polso allentarsi e ricadere svuotate. Ancora un po’. Un altro po’. E tutto sarebbe passato. Tutto finito.

Aveva rilassato i muscoli e la donna si era accasciata tossendo in debito d’ossigeno. Aveva rilassato i muscoli e ritratto la mano; mentre continuava a fissare il fondo della stanza, il rotolo appeso nel tokonoma. Si era alzato lentamente, e si era voltato incamminandosi. Mentre la donna cullava il figlio e piangeva. Piangeva tanto.

 

Non era riuscito a ucciderla. Ma non aveva importanza. Era giovane, quando aveva provato. Troppo giovane. E il risentire su di lei l’odore di suo padre, l’avvertire come la sua presenza alle spalle, gli occhi fissi sulla schiena, lo avevano fermato. E poi, ucciderla sarebbe stato inutile. Suo padre non sarebbe tornato in vita; e vendicarsi su una donna non gli avrebbe portato nulla. Sarebbe comunque morta. Con il tempo, sarebbe morta. Ma il bambino no. Il bambino aveva anche sangue youkai nelle vene. Il suo stesso sangue. Lui sarebbe sopravvissuto; lui avrebbe continuato a vivere. E su di lui Sesshomaru avrebbe preso la sua vendetta, avrebbe riscattato l’onore suo, di suo padre e della sua stirpe.

 

Reclinò leggermente il volto, socchiudendo gli occhi. La pioggia assomigliava ad una nebbiolina vaporizzata. Inumidiva le vesti, lisciava la pelle e i capelli. Sollevo la mano sinistra. Per una donna aveva perso il braccio; per una donna lo aveva riavuto. Non aveva molto senso, ma era così: se non ci fosse stata la miko, suo fratello non sarebbe mai riuscito a risvegliare il potere di Tessaiga; se non ci fosse stata Alessandra, il Sensei non gli avrebbe mai ridato il braccio.

Alessandra. Umana. Umana come la madre di suo fratello. Umana come l’affronto che la sua carne, la sua imperfezione, portava con sé. Eppure…eppure la voleva. Come suo padre aveva voluto quella donna. La voleva senza chiedersi il perché. Senza riuscire a capire il perché.

 

Non aveva ucciso la madre di Inuyasha, molti anni prima. Non aveva ucciso quella ragazza in un’alba di mesi passati. Eppure, non gli sarebbe costato nulla. Né sforzo né piacere. Farlo solo perché va fatto. Perché un ningen non deve osare con lui. Farlo e basta. Evitare l’errore.

Aveva sbagliato. Continuava a sbagliare.

 

Perché non lo credo inutile?

 

Non voltò nemmeno il capo quando sentì l’odore. Rimase a fissare i piccolissimi cerchi che l’acqua disegnava sulla superficie del laghetto. Inuyasha era a pochi metri di lui, lo sapeva bene. Ma non gli interessava. Non aveva senso chiedere perché fosse lì, perché avesse lasciato il palazzo. Non aveva senso né motivazione.

E allora, meglio ignorarlo. Meglio evitare una qualsiasi discussione. Non ne ha voglia; non ha tempo. Deve capire ancora molte cose; tante cose.

 

Inuyasha si era fermato. Non aveva sentito l’odore di Sesshomaru nell’umidità della pioggia; e soprattutto non si sarebbe mai aspettato di imbattersi in lui così, in quel luogo. Eppure, non gli interessava. In quei giorni, mentre lo cercava disperatamente, si era sempre immaginato che appena gli fosse capitato a tiro gli sarebbe quasi saltato addosso, pur di costringerlo a ritornare a palazzo. Aveva immaginato di aggredirlo, la rabbia e la frustrazione invaderlo e doversi costringere alla calma, doversi sforzare per evitare che la mano scivoli a Tessaiga e ingaggi un duello. Sforzarsi, fermarsi, trattenersi. E ringhiare fra i denti per ingoiare la sufficienza e l’indifferenza che Sesshomaru gli avrebbe riservato. Quello sguardo maledetto, impassibile e lontano. Si era immaginato il sollievo per la fine della caccia e una specie di eccitazione pervaderlo al pensiero della discussione che sarebbe seguita. Aveva visto e rivisto quella scena centinaia di volte nella sua testa, costruendola e demolendola continuamente; immaginando i più violenti sproloqui e i più impossibili tentativi di restare calmo. Si era immaginato molte possibilità: suo fratello che reagisce, che lo deride, che disprezza, che ignora e volta le spalle. E le sue reazioni: le urla e i probabili insulti; le risposte troppo affrettate e il male di affermazioni che avrebbe ingoiato solo per quella volta.

 

Si era preparato a tante possibili situazioni. Ma quella non l’avrebbe mai immaginata; nemmeno nei suoi più lontani pensieri. Disinteresse. Totale indifferenza verso Sesshomaru. Il ritrovarselo lì, sotto quella pioggia sottile, a pochi metri da quella lapide, lo aveva forse sorpreso, ma non gli aveva provocato quella scarica di reazioni che aveva sempre immaginato. Inuyasha inclinò appena la testa e scrollò le spalle. In quel momento, si sentiva incredibilmente calmo. Quasi indifferente alla presenza del fratello. Tutta l’angoscia, la trepidazione, la furia dei giorni passati era scomparsa, lasciando il posto a quella sensazione di quieta tranquillità. Non aveva fretta; non aveva alcuna fretta.

 

Raggiunse lentamente la lapide e si inginocchiò. I fiori che aveva raccolto sarebbero appassiti in breve tempo, ma non importava. Strizzò fra gli artigli i rametti rinsecchiti e i vecchi petali simili a carta. Non aveva portato incenso. Non lo portava mai. Sopportava a fatica l’odore del nioi-bukuro che Miroku aveva sempre addosso; bruciare e respirare quel fumo etereo e leggermente amarognolo gli seccava la gola e lo faceva tossire infastidito. Ma non importava. Sua madre non si sarebbe arrabbiato per quello; sua madre non si arrabbiava mai. Grattò con l’unghia i caratteri irregolari incisi nella pietra: il muschio stava rovinando il nome, i kanji scritti in fretta, con una pietra aguzza, e gettati lì quasi con distrazione. Non ricordava chi fosse stato a farli. Forse suo zio; forse quell’uomo che sua madre chiamava oniisan. Non importava. Quei kanji adesso erano suoi. Tutto quello che gli restava di sua madre: la sua veste e quella lapide.

 

Chiuse gli occhi. Una volta, aveva chiesto a Miroku cosa dicesse quando si inginocchiava davanti ad una tomba e univa le mani. E l’houshi aveva risposto con una parola: norito. Inuyasha scosse appena la testa. Non conosceva norito, mantra o altre diavolerie inventate dai ningen per rivolgersi ai loro defunti. Li aveva sempre visti inginocchiarsi e pregare, biascicando qualcosa fra le labbra, ma non sapeva assolutamente cosa e non gli interessava scoprirlo. Anche sua madre pregava. Quando era piccolo, ogni mattina la vedeva inginocchiata davanti al butsudan, con il profumo dolciastro dell’incenso e il tintinnio della campana sacra nell’aria. Ogni mattina, sua madre offriva una ciotola di riso a quella ihai scura e lucida. C’era un nome inciso; il nome di suo padre. Non quello con cui lo chiamavano i demoni, non quello che aveva in vita.

 

Si rialzò la frangia leggermente inumidita. Non ricordava quel nome; il nome che sua madre pregava. Lui era troppo piccolo per saperlo leggere e sua madre non lo usava mai. E dopo, quando sua madre era morta, quel nome era morto con lei. Bruciato con lei. Ma in fondo che importanza aveva? Lui non pregava. Non sapeva cosa volesse dire pregare. Non come pregano i ningen almeno. E forse nemmeno come pregano i demoni, sebbene una simile parola potesse suonare strana. Sta iniziando a capire; sta provando a tracciare una sottile linea di divisione. Fra quello che lo compone: cosa è umano e cosa demoniaco. Imparare a riconoscere i sentimenti che lo muovono, quelli dettati dal sangue umano violento e irrazionale, istintivo; e quegli altri. Quegli che non credeva nemmeno esistessero, che non riesce a cogliere: sentimenti demoniaci. Stiracchia un sorriso. Sua madre doveva averlo capito. Sua madre glielo avrebbe potuto spiegare. Dirgli cosa l’aveva attratta in suo padre, in un demone capace di uccidere per un motivo vivo solo nella sua testa.

 

I sentimenti che muovono i demoni.

Inuyasha sbirciò suo fratello. Non lo degnava della più piccola considerazione; fissava il cielo macchiato di nuvole. Non indossava l’armatura, e la sua figura era terribile. Dovette ammettere a se stesso quel brivido gelido lungo la schiena. Faceva un certo effetto incontrarlo fuori da palazzo così, con il semplice kariginu e i sashinuki hakama indaco con intrecciati all’ordito fili d’argento finissimi che trasmettevano una quieta luminescenza. Faceva uno strano effetto, ma era sempre terribile. Più terribile del guerriero con la consueta corazza, il kimono bianco e le spade al fianco. Più affascinante, e pericoloso.

 

Si sfiorò le orecchie. Non sarebbe mai riuscito a eguagliarlo nel portamento, nel modo che aveva di inclinare appena la testa quando ascoltava, nel suo alzare orgogliosamente il mento davanti ad una sfida o ad un affronto, nell’assottigliare appena gli occhi, reprimendo la pupilla fino a ridurla ad una leggerissima striscia verticale che calamita nell’ambra dell’iride. Inuyasha si era come rassegnato: in quei mesi aveva studiato suo fratello per necessità e curiosità, e aveva trovato differenze. Molte differenze. Non che questo gli importasse; era e restava orgoglioso di quella sua natura duplice, della forza che aveva comunque saputo sviluppare. Non gli bastava, certo. Ma da vario tempo aveva iniziato a chiedersi cosa avrebbe scelto se avesse avuto la sfera dei quattro spiriti in mano. All’inizio la desiderava per diventare un demone completo, per vendicare il suo essere da sempre umiliato. Poi, però, c’era stata Kikyo; e con lei l’ipotesi di diventare umano. E adesso? Adesso cosa avrebbe scelto? Demone o uomo? Non lo sapeva: lo youkai avrebbe risolto il problema delle trasformazioni in modo definitivo, ma aveva paura. Paura di perdere la coscienza di sé e diventare solo un mostro; paura di rimanere comunque uno youkai incompleto senza intelletto. Dall’altra però, da umano, non avrebbe potuto difendere Kagome.

 

Scosse la testa. A sua madre sarebbe piaciuta Kagome. Probabilmente più di Kikyo. Kagome che lo accetta per quello che è; che gli propone di non cambiare: né uomo né demone, solo se stesso. Con tutte le sue imperfezioni e le sue mancanze. Kagome che gli mostra l’egoismo dei ningen e la strana forza che ne deriva; Kagome che lo tratta con naturalezza, senza temere i suoi artigli e le sue zanne. Kagome che gli è al fianco in battaglia, che lo fa preoccupare e si preoccupa per lui. Kagome con le vesti sacerdotali; simile a Kikyo eppure così diversa. Così profondamente diversa in quello che si ostina a dare, a difendere, a fargli capire.

Sì. Sua madre avrebbe approvato la sua scelta.

 

Okaan wa Inutaisho wo suki deshita1

 

Lo sussurrò appena, con un sorriso un po’ stanco e una nuova, lenta consapevolezza che stava prendendo forma nella sua testa. Una verità che non sapeva se scomoda, fastidiosa o solo ovvia. Naturale. Spiegazioni che aveva compreso appena; che forse non avrebbe mai capito. Scrollò appena le spalle e sistemò meglio un fiore nel mazzo. La prossima volta avrebbe portato anche l’incenso. Sì; l’incenso e Kagome. Lei non doveva aver mai visto la tomba di sua madre, e Inuyasha sentiva crescere dentro il desiderio che loro si potessero incontrare, in qualche modo. Anche solo attraverso una preghiere. Chissà. Forse Kagome gli avrebbe insegnato a pregare; forse gli avrebbe spiegato cosa si deve dire mentre le mani battono e si uniscono, quando gli occhi si chiudono e resti lì, inginocchiato in silenzio, quasi in estasi mistica.

 

“Lui no”

 

“Lo so. Adesso inizio a capirlo”

 

Inuyasha stiracchiò un sorriso e voltò appena la testa. Non si aspettava che rispondesse; non si aspettava che ascoltasse le sue parole, quel sussurro strappato al vento un po’ umido del primo pomeriggio. Come non si sarebbe mai aspettato di trovare Sesshomaru a pochi passi dalla tomba di sua madre.

Gli aveva risposto, ma continuava a osservare il disperdersi dei cerchi nell’acqua. Inuyasha si ritrovò a chiedersi a cosa pensasse quando fissava un punto in quel modo; quando gli occhi di suo fratello erano concentrati e insieme distanti. Si chiese cosa vedesse, cosa cercasse di vedere, mentre si ostinava a guardare il centro di minuscole increspature. Si alzò sfiorando con l’artiglio la lapide e si accucciò accanto a Sesshomaru. Cosa vedeva? Cosa vedeva nel nero di quelle acqua appena smosse? L’abisso dell’universo, conoscenza, l’essenza stessa della natura, della vita che palpitava in quella realtà che li circondava e di cui gli youkai sono terribile manifestazione? Cosa vedeva suo fratello? Se stesso? La propria eterna, perfetta, immutabile essenza? Quella superiorità che non aveva nulla da spartire con kami e ningen, che era solo diversa? Diversa nel percepire, nel sentire, nel provare.

 

Sospirò e premette il mento sulle braccia. Sesshomaru aveva detto una cosa vera: suo padre, Inutaisho, non aveva mai amato sua madre. Non come lo amava lei; non con lo stesso nome che usava lei. Se suo fratello si fosse azzardato a dirgli una cosa simile solo pochi mesi prima, Inuyasha sapeva che in quel momento lo starebbe coprendo di insulti cercando di respingere la pressione della sua spada. Oppure starebbe imprecando contro il mezzo sorriso irritante che gli avrebbe rivolto. Prima lo avrebbe fatto; prima. Adesso invece non era offeso. Perché offendersi della verità? Di quella che non era menzogna costruita ad arte? In passato, Inuyasha non aveva mai creduto a quelle parole di suo fratello. Ogni volta che Sesshomaru sottolineava come suo padre non avesse amato Izayoi, Inuyasha sentiva il sangue salirgli alla testa e la voglia di chiudere la bocca di suo fratello muovere le sue mani.

 

Adesso era diverso. Izayoi aveva amato con tutta se stessa quel demone che le era apparso in un tramonto rosso di sangue; quel demone che aveva fatto strage di banditi e guardie della scorta senza preoccupazione, senza curarsi di comprendere chi fosse assalito e chi assalitore. Attaccati per eliminarli, per liberarsi il cammino. Izayoi lo aveva visto così, la prima volta, attraverso il velo lacero e spruzzato di sangue del mushi no teraginu, gli occhi iniettati di sangue, la bocca sporca di saliva, sangue vecchio e nero, il viso incrostato di rosso. Capelli lunghi scarmigliati dal vento e dei combattimenti e vesti annerite da sporcizia e sudore. Una demonio uscito dall’inferno, uno spirito impuro risalito da Yomo.

 

Izayoi lo aveva visto spezzare ossa, maciullare uomini e animali con l’indifferenza di chi schiaccia un insetto fastidioso; lo aveva visto affondare le zanne nella carne ancora calda e …mangiare. Mangiare carne umana; strappare con i denti e gli artigli la pelle in lunghe strisce sanguinolente o in grumi nauseanti di visceri e sostanze spugnose. Lo aveva visto così la prima volta: la selvaggia, incontrollata potenza della sua natura demoniaca.

Lo aveva visto e se ne era ritratta terrorizzata e tremante. Incapace di distogliere gli occhi da lui, dalla sua forza brutale e da quella bellezza diversa. Diversa da quella dei soldati di suo padre; diversa da quella del giovane che aveva avanzato la richiesta della sua mano a suo padre. Takemaru Setsuna. Bello, colto, valoroso. Non aveva un avvenire nella casa paterna, ma Izayoi sapeva che suo padre caldeggiava quel matrimonio ed era disposto anche ad adottare il genero. Sì; Takematu era bello; ma era una bellezza diversa quella che la stava costringendo a tremare con la gola chiusa in una morsa quasi dolorosa.

 

Izayoi lo aveva visto, e lui si era accorto della donna seminascosata dai rottami della portantina. Si era sentito addosso i suoi occhi disgustati, affascinati, terrorizzati. L’aveva cercata nella luce sanguigna del sole; aveva cercato il suo sguardo folle di sorpresa e terrore. Aveva cercato il suo odore nell’aria ammorbata dal fetore di cadaveri e sangue. L’aveva cercata e l’aveva trovata. Restando a osservare le sue mani strette convulsamente ad un pezzo di legno lavorato, il largo copricapo lacerato e il velo sbrindellato. Si era limitato a fissarla pulendosi appena il mento con il dorso della mano.

 

Izayoi non avrebbe saputo dire come. Un attimo prima era a diversi metri da lei, scolpito dal rosso del sole e inginocchiato sulla sua ultima vittima; la mano ancora nelle viscere e il movimento lento della mandibola. Un istante prima era lontano, e un istante dopo si era ritrovata la sua bocca sulla sua. Si era ritrovata premuta contro quello che restava della sua portantina. Labbra fredde ad assaggiare le sue, zanne a morderle la pelle, a stuzzicare, esplorare, violare. E le mani. Le mani del demone strette sulle spalle; risalire fino ai capelli e torturali in modo doloroso ed eccitante. L’unghia affilata percorrere il profilo della scapola e lacerare uchie e kake-obi, scendere sul seno parzialmente denudato. E lei che piangeva mentre sentiva il suo corpo disobbedirle e lasciarsi andare, stendersi sotto di lui e allargare le gambe. Cercarlo. Volerlo. Desiderarlo. Volere quel corpo freddo, troppo freddo nonostante lo sforzo di uccidere; quel corpo che sapeva di buono invece che di sudore e sporco. Mandorle. Aveva il sapore strano delle mandorle triturate.

 

Accorgersi delle mani che risalgono il suo petto protetto da una strana corazza; insinuarsi nei capelli fino a sciogliere il nastro che li trattiene e sentirsene avvolgere. Sentire quei fili quasi impalpabili ricoprirle il viso, sfiorare il corpo nelle parti nude. La mani disegnare quel volto sbagliato, le inusuali strisce che lo scurivano e le labbra pallide ancora sporche di sangue. E gli occhi. Quegli occhi d’ambra brillare di desiderio, di piacere, di voglia. Un luccichio strano, inquietante e spaventoso; eppure non terribile. Non…non volgare. Non era lo sguardo del ningen che vuole divertirsi con la yotaka di turno; non era lo sguardo del brigante che afferra una donna per i capelli e la sbatte per terra per divertirsi con lei, per godere della sua resistenza, delle sue urla di supplica, delle lacrima confuse con i gemiti di piacere.

Lo sguardo di quel demone era diverso. Era un abisso di luce. Meraviglioso e profondo. Senza confini. Affascinante e oscuro. Per quanto Izayoi sapesse che l’ambra non può essere scura; per quanto si accorgesse che era stupido pensare a un sole nero per quegli occhi. Eppure, non riusciva a toglierselo dalla testa. E mentre la bocca del demone scendeva lungo il suo corpo, mentre le mani assaggiavano pelle e tremiti, Izayoi si era accorta di non volerlo allontanare. Di non riuscire a desidera che la lasciasse o la uccidesse piuttosto che la violentasse. Le sarebbe bastato solo un istante. Un movimento leggerissimo, anche solo fingere di assecondare il demone per raggiungere il kaiken nascosto nelle pieghe dell’obi; estrarlo e tagliarsi la gola. Jigai. Per salvare l’onore; della famiglia e suo. Non riusciva a desideralo. Non cercava di scappare, ribellarsi o sottrarsi. Voleva quel sole nero fissarla, guardarla, bramarla.

 

Poi, quel richiamo. Quel lungo, cupo, prolungato ululato nella notte appena iniziata. E il demone che aveva alzato la testa, annusato l’aria e se ne era andato. Senza degnarla di uno sguardo. Senza ucciderla o portarla via. Scomparso con la velocità con cui se lo era ritrovato davanti. E Izayoi si era accorta della notte fredda di fine estate per i brividi sulla pelle accaldata e nuda; si era accorta di respirare e vivere per il pianto silenzioso che le scorreva sulle guance.

 

Inuyasha si strofinò il viso bagnato. La pioggia non era fastidiosa, ma lasciava una scia umida sul viso, fra i capelli. Mosse le orecchia a distinguere il canto di una allodola. Gli era sempre piaciuto il silenzio di quel luogo, e sembrava che anche suo fratello lo apprezzasse. Per quanto un demone può apprezzare quella sensazione. Scosse la testa. Era difficile. Maledettamente difficile. Non sapeva più nemmeno come pensare. Credeva di poter provare almeno a intuire il diverso modo di sentire dei demoni, ma non riusciva minimamente a immaginare cosa fosse ovvio, normale, e cosa anormale. Forse il respiro della terra era abituale; forse il rumore della pioggia contro la superficie dell’acqua era una consapevolezza innata. Forse. Forse. Forse.

 

Si massaggiò la nuca. Sua madre non gli aveva mai detto che Inutaisho l’avesse amata. Non usava mai quella parola: amore. Da piccolo non ci aveva mai fatto caso. Per lui, l’amore era l’abbraccio di sua madre, il suo sorriso rosso sul volto pallido, la fragranza delle sue vesti e i denti neri che brillavano dietro il ventaglio. Per lui, l’amore era non sentire la parole hanyou sbattutagli in faccia.

L’amore che gli raccontava sua madre era un altro. Era quello che aveva scoperto dopo. Quello provato con Kikyo; e poi con Kagome. Forse solo quello per Kagome. Non che non avesse amato la miko, ma probabilmente era un amore diverso. Quello che si nutre prima di tutto di sogni, di illusioni; quello delle attese fra i rami di un albero e del rossore causato da uno sguardo troppo lungo, da uno sfiorarsi troppo inaspettato. Aveva iniziato ad amare con Kikyo, ma Inuyasha iniziava a convincersi che solo con Kagome il sentimento fosse diventato quello più profondo. Un sentimento che è assieme carne e spirito; senza imbarazzo e pudore. Senza vergogna di provare desiderio e sapendosi accontentare anche di poco.

 

Ripensò all’imbarazzo di Alessandra la sera che gli aveva confessato di essersi innamorata del Principe. Ricordò i suoi occhi incapaci di restare fermi, le mani tormentare gli abiti e intrecciare nervose i capelli. Ricordò il sorriso trasognato e quasi incredulo dipingerle le labbra. Alessandra aveva usato la stessa parola di sua madre: innamorata.

Il problema era un altro, però. Inuyasha soppesò il viso alla mano; Sesshomaru continuava a guardare davanti a sé, incurante della sua presenza. Ecco, quello era il problema: Sesshomaru. O meglio, i sentimenti del Principe per la ningen. Inuyasha arricciò il naso. Koga era stato abbastanza chiaro nelle sue spiegazioni: un demone può amare, ma non come i ningen. Sono sentimenti diversi. Aveva precisato che molto dipende dalla razza cui gli youkai appartengono, ma la base del concetto non cambiava. Uno youkai di infimo livello, incapace di assumere sembianze antropomorfe, restava istinto animale; senziente e vagamente pensante, ma estremamente simile agli animali. La differenza la facevano loro, gli youkai capaci di trasformarsi. E qui Inuyasha aveva faticato a seguire le spiegazioni altalenanti dell’ookami. Aveva parlato di clan che dividono gli youkai, di abitudini diverse, di maggiore o minore legame con la forma animale, di differenza di sentire in base all’aspetto assunto, con controllo ed ego che virava da quello demoniaco in forma umana a quello demoniaco in forma animale, fra ragione istintiva e istinto razionale. Inuyasha si era perso a metà discorso. Aveva archiviato una marea di informazioni che assomigliavano ad una matassa di lana da cardare. Col tempo, si era detto. Con il tempo ci sarebbe venuto a capo. Lentamente. E la cosa non lo entusiasmava affatto.

 

Strinse un labbro. Di tutto quel discorso, una cosa l’aveva ben chiara, però: gli inuyoukai sono diversi. Per loro è tutto più difficile. Koga gli aveva cercato di spiegare che solo la stirpe di suo padre e di suo fratello potevano, fra i demoni, aspirare a diventare kami. Solo loro fra tutti. E questo significava molto. Anche nei sentimenti. Loro inuyoukai erano pura essenza demoniaca, pura razionalità fattasi tangibile. Potevano amare, ma la percezione che avevano dell’amore era un qualcosa che Koga non era riuscito a spiegargli. Glielo aveva detto in un’altra lingua, che lui non conosceva. Gliene aveva parlato in una lingua che suonava come lo stormire delle fronde, lo sciacquio dell’acqua, il rombo del tuono, e il silenzio degli abissi. Gliene aveva parlato in una lingua che era movimento di labbra e parole impossibili da ripetere. La lingua di loro youkai. Quella nata con loro e che usavano solo di rado. Koga non aveva potuto fare diversamente; era ricorso a quella lingua nella speranza che la parte demoniaca di Inuyasha la riconoscesse e gli permettesse almeno di intuirne vagamente il significato.

 

Inuyasha sfiorò Tessaiga al fianco. Se avesse chiesto a suo fratello, cosa gli avrebbe risposto? Gli avrebbe ripetuto le parole di Koga o si sarebbe limitato a schermire la sua curiosità? O forse avrebbe saputo tradurre in modo più chiaro quella lingua che aveva usato l’ookami? Quei suoni che gli erano scesi dentro, e lo avevano fatto sentire privo di corpo; era come se ogni sua fibra si allargasse all’infinito ed entrasse in risonanza con qualcosa. Qualcosa che aveva come trasmesso mille scariche di sensazione al suo cervello, investendolo fin quasi a farlo impazzire. Conservava quel ricordo da quell’esperienza: la sensazione di fusione totale. Forse era quello che significava per un demone amare. Entrare in contatto con quel qualcosa e fondersi completamente con esso. Un qualcosa di totalizzante, assoluto, annichilente.

Sbuffò e si massaggiò le tempie. Gli stava venendo mal di testa. Tutti quei ragionamenti non facevano per lui. Punto primo: riportare Sesshomaru a palazzo. Da Alessandra. Al dopo ci avrebbe pensato.

 

Cosa vuoi fare, Sesshomaru?

Alessandra-chan ti sta aspettando”

 

Il Principe piegò appena la testa verso il fratellastro. Rimaneva tranquillamente seduto accanto a lui, le mani dietro la schiena a reggere il peso e gli occhi fissi sul lago. Lo stava provocando? Sapeva benissimo che gli sarebbe bastato un attimo per afferrargli il collo e stringere. Stringere fino a far penzolare la testa in modo innaturale sulle vertebre spezzate. Lo stava provocando? No. Inuyasha non aveva nulla di provocatorio, di irrispettoso. Sesshomaru si accorse quasi con sorpresa che stava semplicemente cercando di parlare, di creare quello che i ningen chiamano dialogo. Un inutile e futile spreco di fiato e tempo. Inutile dare una risposta; era stupido e superfluo. E poi, le sue decisioni non dovevano interessare Inuyasha.

 

“Solo perché tu lo sappia, Alessandra-chan ha ripreso conoscenza

 

Ecco. Adesso lo stava provocando. Con quel leggero sorriso di scherno sulle labbra; quel sorriso odioso di trionfo per il misto di stupore, sorpresa e rabbia che per un istante aveva lasciato trapelare. Sì; anche rabbia. Alessandra aveva ripreso conoscenza, e lui non c’era. Alessandra aveva ripreso conoscenza, e lui non le era seduto accanto. Non lo avrebbe comunque mai fatto, ma il pensiero degli occhi stanchi della ragazza cercarlo, aspettarlo, desiderarlo, gli perforò la mente. Certe notti, Alessandra si portava a sedere sul futon con un grido rauco e il viso inondato di lacrime e sudore; tremare e stringersi spasmodicamente a lui, premere il suo corpo contro il suo torace nudo, baciarlo e lasciarsi tranquillizzare. In quelle notti, Sesshomaru aveva maledetto la cecità che gli impediva di vedere il viso della ragazza, di cercare d’intuire cosa la traumatizzasse, cosa la terrorizzasse. Quelle notti le consumavano giocando all’amore. Alessandra provocava, incendiava, stuzzicava e si lasciava toccare, baciare, accarezzare con sfrontatezza, con desiderio e senza quasi pudore. Forse una volta era arrivata a denudarsi il seno e premerlo sul suo corpo, a costringere le sue mani a sfiorarle il petto. E lui si era allontanato. Era uscito dal futon quasi…avrebbe potuto dire spaventato. Del repentino cambio di atteggiamento, del bisogno disperato che la ragazza sembrava mostrare di farsi amare. Lei. Lei che lo aveva schiaffeggiato solo perché le aveva stretto una spalla, che aveva tremato impaurita e terrorizzata quando le aveva afferrato un polso. Lei che singhiozzava isterica nel letto, coperte a nascondere il seno e la sorpresa mescolata allo sconcerto per quello che non era riuscita a razionalizzare, per quello che aveva pensato di voler fare. Era accaduto. Una, due volte al massimo. Ma era accaduto. Assieme a quelle notti spezzate dalle sue grida e da lacrime poi sempre più silenziose.

 

“Che sei venuto a fare qui?”

 

Cosa gli ripeteva sempre Miroku? Se fai centro con le tue domande, non insistere. Riuscire a parlare è un po’ come giocare a shogi: ci vuole strategia e pazienza. E lui non ne ha mai molta di pazienza. Tuttavia, Inuyasha si sorprese a non avere alcuna fretta. Sapeva perfettamente che era un azzardo sprecare tempo così, in pensieri e nel tentativo forse vano di intavolare una conversazione, mentre Alessandra poteva aver avuto un’altra crisi, essere agonizzante o peggio. Sapeva che era da stupidi restare lì seduti, con gli abiti sempre più umidi e pesanti e piccole gocce di pioggia scendere sul viso; restare tranquilli a fissare uno specchio d’acqua invece di afferrare Sesshomaru e dargli una bella scrollata. Invece di mettersi a sbraitare e urlare e cercare di farsi seguire. Era stupido. Maledettamente stupido. E non se ne pentiva. Non riusciva a pentirsene. Inuyasha strappò una cannuccia di bambù e iniziò a smuovere appena la superficie dell’acqua. Come un bambino.

 

Sesshomaru si concesse di osservare la mano del fratello e il movimento quasi ipnotico dell’acqua. Non aveva mai considerato seriamente la possibilità di trovarselo davanti e non cercare di ucciderlo, non interessarsi alla sua presenza. Anche quando era intervenuto per fermarlo e riportarlo alla ragione dopo la trasformazione in demone, non lo aveva fatto di certo per improvviso spirito fraterno. Voleva ucciderlo. E voleva che ne fosse consapevole, che tremasse davanti a lui e capisse la differenza che li separava. Lo voleva morto; ma non gli bastava che morisse. Voleva ucciderlo lealmente, in duello. Mosse la mano sinistra a solleticarsi il palmo con gli artigli, formicolio leggero. Non gli portava rancore per quel braccio amputato. Lo aveva fatto fissandolo negli occhi. No. Non gli portava quel rancore. E forse non era nemmeno rabbia e rancore a muoverlo. Quando Inuyasha gli era davanti, sentiva come il risucchio del magna di un vulcano. Sentiva il fremito della terra e il rimbombo del cielo. E i suoi ringhi erano offese in una lingua che l’hanyou non conosceva, che suonava come semplice ruggito trattenuto.

 

Voltò appena la testa e socchiuse gli occhi. Cosa cercava davvero in quel posto? Avrebbe potuto dirgli che ci era capitato per caso o non dirgli nulla. Ma la menzogna non è di un demone. L’astuzia, ma non l’inganno. E Sesshomaru sapeva perfettamente che, anche se non ci aveva creduto fino in fondo, si era recato a quella tomba di proposito. Per trovare qualcosa. Qualcosa che non aveva un nome preciso. Forse per provare a capire i pensieri e le azioni di suo padre. Per provare a capire cosa lo avesse spinto a trattare quella femmina diversamente dalle altre, a non ucciderla e non limitarsi a divertirsi con lei. Ad accettare la morte per lei. Non la amava. Non dell’amore dei ningen. Di quel patetico, sciocco sentimento che è solo egoismo. Puro e semplice egoismo. I suoi genitori si amavano. I suoi genitori si erano legati con un vincolo che superava le parole e il tempo. Eppure, suo padre aveva accettato anche quella donna. Forse sarebbe stato diverso se sua madre fosse stata viva. Forse. Non gli interessava saperlo. Non poteva comunque avvenire.

Cosa cercava? La speranza che il suo rapporto complicato con Alessandra fosse diverso, che non si sarebbe lasciato irretire da lei e non si sarebbe sacrificato? La certezza di non ricalcare le orme paterne anche in quell’errore?

Si accorse degli occhi di suo fratello. Occhi d’ambra grandi ed espressivi. Gli stavano chiedendo a cosa pensasse, cosa cercasse, cosa lo rendesse…inquieto. Gli occhi di Inuyasha non erano cambiati negli anni. Più adulti, più malinconici, ma sempre grandi, sempre incapaci di intuire il pericolo di fronte al nuovo.

 

Sesshomaru assottigliò lo sguardo. Ricordava un cucciolo fissarlo in quel modo, nell’azzurrino della nebbia invernale. Ricordava due occhi lucidi allargarsi leggermente e fissarlo con stupore, le orecchiette muoversi veloci sulla testa e il respiro attento di chi annusa l’aria. Suo fratello doveva avere circa tre anni la prima volta che lo aveva incontrato. Un giorni di inizio inverno, con una nebbia che non si scioglieva e un sole malato nascosto dietro a nuvole troppo basse e grigie. Era tornato a quel palazzo. Forse per controllare; forse per vedere se la donna era morta. Ma non era andato oltre. Non era entrato nelle stanze femminili; non quella volta. Si era fermato fra i bambù, davanti ad un esserino che aveva l’odore suo e di suo padre e di quella maledetta donna. Un cucciolo di hanyou che si era asciugato il visino bagnato e sporco di fango, che aveva allungato la manina con gli artigli ancora teneri cercando di afferrare quella strana apparizione e che l’aveva vista svanire nella nebbia senza emettere suono. Quel ragazzo con gli occhi come i suoi e un odore simile al suo.

Aveva pensato di sognare, di esserselo immaginato, ma sua madre aveva dato corpo e nome a quell’apparizione fra la nebbia. Gli aveva detto di avere un fratello maggiore, il figlio di suo padre e della yasha che era la sua compagna.

E Sesshomaru aveva sentito il proprio nome su quella bocca indegna, su quelle labbra troppo accese. Suo padre le aveva parlato di lui. Di lui! E di sua madre.

Se ne era andato senza più tornare. Aveva saputo dopo molto tempo che la ningen era morta e il bastardo scappato e costretto a vivere alla macchia. Aveva atteso anni, impiegando il tempo nella ricerca dell’eredità di suo padre che reclamava per sé. E quando lo aveva incontrato, Inuyasha aveva circa la sua età quando era morto Inutaisho. Un ragazzino ancora, ma con gli stessi odiosi occhi grandi di un bambino.

Gli stessi che lo continuavano a fissare.

 

“Risposte”

 

“E le hai trovate?”

 

Stiracchiò un mezzo sorriso. Forse. Forse aveva capito. Capito cosa provasse, cosa volesse. Senza preoccuparsi di regole, parole e nomi. Il difficile sarebbe stato dirlo, tradurlo in parole comprensibili ad una ningen. E accettare di doversi spiegare, di doversi abbassare a farsi capire e avere la pazienza di continuare a parlare. Di sacrificare silenzi a chiacchiere e giri di parole. Arricciò inconsciamente il labbro a lasciar intravvedere una zanna, fissando quasi con sfida la lapide. Non avrebbe risposto a suo fratello. Non a quella domanda.

 

Inuyasha scrollò le spalle al suo prolungato silenzio. Ci era avvezzo ormai. Si rialzò sistemandosi gli abiti e scarmigliando i capelli umidi sotto l’occhio indifferente di Sesshomaru. Controllò Tessaiga al fianco e recuperò Tenseiga abbandonata contro il tronco del salice. Non gli era capitato spesso di sfiorare la katana del fratello, e si sorprese di non percepire nulla: né youki né una barriera. E soprattutto si sorprese che quella fosse l’unica arma che Sesshomaru aveva portato con sé; fra tutte quelle fra cui poteva scegliere, aveva preso Tenseiga.

Gliela porse. Sesshomaru fissò prima la spada, poi Inuyasha e infine di nuovo la katana, strappandogliela con un mezzo sospiro dalle mani e riallacciandola con eleganza al sigeo. E gli occhi di suo fratello addosso, con il suo ghigno sbruffone e le braccia provocatoriamente incrociate sul petto.

 

“Credo sia ora di piantarla di andarcene in giro

 

 

*****

 

 

Chikuso!”

 

Bocca piena di terra. Sapore orribile. Inuyasha imprecò cercando di schiarirsi la vista; gli occhi bruciavano terribilmente. Ma in cosa diavolo era inciampato? E soprattutto, come aveva fatto a inciampare? Respirò pesantemente; faceva fatica a rimettersi in piedi. Anzi, gli faceva male anche solo il pensiero di doverlo fare. Era stanchissimo. Nelle ultime ore si era chiesto come ancora riuscisse a correre, visto che non sentiva nemmeno più le gambe e il sudore continuava a bagnargli fastidioso la fronte e a cadere negli occhi.

Strinse un ciuffo d’erba e cercò di portarsi almeno in ginocchio. Piano. I muscoli tremavano vergognosamente nello sforzo di risollevarlo. Quel ritmo era troppo per lui; era da quasi un giorno intero che correva spremendo al massimo le sue forze; voleva arrivare in fretta, era ovvio. Ma lui non ce l’avrebbe fatta ancora per molto. Anzi: se non si fermava a prendere fiato, altro che semplice errore di valutazione nel darsi lo slancio. Si sarebbe ritrovato steso per terra senza fiato e con la testa prima pesantissima e improvvisamente leggera, quasi svuotata.

 

Non che adesso ci sia molto lontano

 

Borbottò qualcosa di incomprensibile e masticò un’altra imprecazione. Adesso, avrebbe dovuto faticare il doppio per recuperare il vantaggio di Sesshomaru. Maledizione! Suo fratello non aveva certo di quei problemi, poteva correre senza un attimo di sosta per giorni interi, fermarsi cinque minuti e riprendere con lo stesso ritmo e la stessa energia. Per lui era diverso. Maledettamente, fastidiosamente diverso. Inuyasha era capace di ritrovare forza ed energia in duello, bastava che i suoi amici o Kagome fossero in pericolo. Ma quella era una caratteristica della sua parte umana, la resistenza disperata che riusciva ad avere in situazioni estreme. Un comportamento molto diverso da quello di suo fratello, da quello di uno youkai.

 

Sesshomaru dava tutto se stesso in ogni momento, senza sbalzi e con costanza; calibrava la forza per non restarne mai privo e perché le energie non fossero mai ridotte al lumicino. Poteva accadere, certo. Anche un demone può ritrovarsi con il fiato corto e la fronte imperlata di sudore. Il punto è un altro: non se ne accorge, non gli dà un eccessivo peso. Inuyasha lo aveva visto con i suoi occhi. Durante la battaglia contro Morigawa suo fratello aveva ricominciato a battersi con naturalezza e precisa velocità come se fosse appena sceso in campo. L’unica cosa che sembrava disturbarlo era il dolore alla testa e agli occhi. Passato quello, Sesshomaru era tornato pienamente padrone della sua forza e del suo corpo. Tanto da riuscire a lasciare il campo correndo come di consueto nonostante le ore passate in combattimento e il sangue che fluiva continuo dalle ferite. E ancora mascherare il passo malfermo mentre attraversava la piazza d’armi.

 

Inuyasha si sfregò la faccia con un mezzo sorriso. Sesshomaru lo doveva aver distanziato parecchio, ormai; sarebbe arrivato a palazzo per primo e lui si sarebbe dovuto accontentare dei racconti di Kagome sul suo comportamento. E se solo provava a deviare per il corridoio e rifugiarsi di nuovo nelle sue stanze, questa volta Inuyasha giurò a se stesso che lo avrebbe preso di peso e trascinato da Alessandra. Al diavolo anche i consigli di Kagome: con suo fratello ci vogliono le maniere spicce, non la retorica. Si concesse una breve risata. Quello in riva al lago non era stato un vero e proprio dialogo, ma non poteva evitare di ammettere a se stesso che, comunque, la situazione creatasi era alquanto particolare. Lui e Sesshomaru che scambiano due parole senza cadere nelle offese e nelle provocazioni. Suo fratello che accetta la spada da lui, che la soppesa al fianco e si volta iniziando a correre. Senza dargli soddisfazione, senza rispondere alla sua battuta, ma anche risparmiando i soliti sguardi di sufficienza, di rabbia mal repressa.

Bene. Da quel momento in poi, Inuyasha sapeva che avrebbe dovuto imparare a capire gli atteggiamenti di suo fratello. Cercare di decifrare la freddezza e il controllo che gli erano proprio, e ritrovare nella sua testa la chiave di lettura di quei sentimenti diversi. Di quel modo di percepire, provare, amare, odiare, interessare, disprezzare che è degli youkai.

 

Dopo. In futuro, però. Magari finendo come sempre a ringhiargli contro più esasperato che arrabbiato, più colpevole che indignato, ma almeno ci avrebbe provato. A modo suo. Dopo. Adesso, la priorità era recuperare il fiato e far smettere la testa di girare. Alzarsi e sperare di avere la forza, se non di correre, almeno di trascinare i piedi fino a palazzo. Aveva promesso di ritornare. Aveva i suoi amici e Kagome ad aspettarlo. Quando l’anziana Kaede e gli uomini del villaggio lo avevano trovato esausto sul greto del torrente, aveva solo rassicurato tutti che stavano bene. Ma in quel momento aveva desiderato aver accanto Kagome, poter entrare a Musashi, dover litigare con lei perché voleva andarsene a studiare oltre il pozzo. Ecco, altra questione da risolvere: Kagome doveva tornare a casa. Erano mesi che non vedeva la sua famiglia, e chissà cosa avevano pensato in tutto quel tempo. Da parte sua, Inuyasha era fermamente intenzionato ad accompagnarla e a chiedere scusa per quanto successo. Un atteggiamento che non gli era proprio di certo, ma se il rischio era che non gli lasciassero più avvicinare la ragazza, allora era disposto anche a inginocchiarsi e implorare perdono.

 

Scosse la testa. Ci avrebbe pensato; con Kagome avrebbero elaborato una buona scusa o avrebbero deciso se raccontare la verità; forse tralasciando qualche particolare e indorando un po’ la situazione. Sesshomaru, palazzo, correre: erano quelle le priorità del momento. Ringhiò fra i denti al pensiero dello sforzo che ancora lo aspettava. Una volta arrivato, si sarebbe sdraiato sul futon e minimo due giorni non si sarebbe più mosso. Neanche crollasse il palazzo.

Sollevò lentamente la testa e si dimenticò di richiudere la bocca.

 

Sesshomaru era di spalle a pochi metri da lui. Immobile. In attesa.

Inuyasha si era aspettato il vuoto e il buio del sentiero; mai avrebbe immaginato di vedere la schiena di suo fratello. Anzi, di vedere che suo fratello era lì. Per quale motivo, poi? Non aveva alcun bisogno di una guida per ritrovare la strada del palazzo, del suo palazzo. E anche gli fosse stata necessaria, non si sarebbe mai abbassato a chiedere a lui. Sesshomaru non si abbassa mai a chiedere. Eppure, sentì una strana sensazione invadergli il petto. Come se il sangue rifluisse veloce al cuore, mentre un abbozzo di sorriso incredulo gli piegava le labbra. Adesso avrebbe anche potuto mandarlo al diavolo e ricominciare a correre. Adesso avrebbe anche potuto offenderlo e insultarlo. A Inuyasha non sarebbe importato. Perché si era fermato. Perché era lì a pochi passi da lui che lo…stava aspettando? Era davvero possibile che Sesshomaru aspettasse lui, un bastardo, un hanyou?

 

Gli dava la schiena. Inuyasha realizzò in un brivido che suo fratello gli aveva sempre dato la schiena. E che per quanto lui si sforzasse di guardare avanti, era la schiena di suo fratello che gli riempiva gli occhi. Come se…come se avesse sempre cercato di guidarlo, di insegnargli qualcosa. Anche solo per poterlo uccidere in un duello che valesse davvero quel nome. Incrociò le gambe e cercò di regolarizzare il respiro. Sesshomaru continuava a tacere e dargli le spalle. Senza mettergli fretta e senza fargli pesare quel piccolo cedimento. Lo aspettava e basta. Lo spronava ad alzarsi. A modo suo, senza parole di incoraggiamento o insulti. Continuando a mostrargli la schiena.

 

Una volta Miroku gli aveva detto che per i ningen esiste un proverbio che dice che gli uomini crescono guardando la schiena del padre. O qualcosa del genere. Lui non aveva mai visto suo padre; lui non aveva nessun esempio da seguire e un racconto, per quanto bello e avvincente, non può diventare un modello. Eppure, si rese conto in quel momento, era cresciuto inseguendo una schiena. Quella che aveva visto dileguarsi nella nebbia tantissimi anni prima; quella cui sua madre aveva dato un nome; quella che lo aveva protetto e allontanato da un attacco di Sounga; quella che se ne era andata, molte volte, senza mai dargli il colpo di grazia, infiammandogli il cervello di rabbia e amarezza. La schiena di suo fratello.

 

Inuyasha sapeva che non si sarebbe voltato per aiutarlo. Sapeva che non gli avrebbe mai offerto la mano. Era capace piuttosto di restare a fissarlo per ore; inchiodarlo a terra con quel suo sguardo indifferente e sfacciato. Costringerlo a sentirsi inferiore, umiliato, arrabbiato, voglioso di dimostrargli il contrario. Sesshomaru non si sarebbe mai voltato; ma lo avrebbe aspettato. Continuava ad aspettarlo e forse lo aveva sempre fatto. Si era sostituito al padre per quel fratello che disdegnava, che aveva provocato la morte di Inutaisho. Se ne rendeva perfettamente conto, e non trovava una vera spiegazione. Una spiegazione soddisfacente.

 

Inuyasha era inginocchiato alle sue spalle. Il respiro ancora troppo pesante perché potesse riprendere a correre. E invece di andarsene e lasciarlo lì, di liberarsi della sua presenza, cosa aveva fatto? Si era fermato. Si era fermato ad aspettarlo. Come se il rientrare a palazzo con lui fosse una necessità, fosse un qualcosa di quasi naturale.

Sesshomaru lo sbirciò con la coda dell’occhio rimettersi in piedi appoggiandosi alla spada. Sudava ed era sporco di terra. I capelli aggrovigliati e le orecchiette leggermente abbassate. Come non avvertisse la necessità di restare all’erta; come volesse urlare di sentirsi al sicuro. Possibile? Possibile che Inuyasha avesse abbassato la guardia in sua presenza, pur sapendo che sarebbe bastato un attimo per sentirsi gli artigli sulla pelle della gola e accorgersi in un drammatico istante che era troppo tardi? Troppo tardi per provare a reagire, per sfoderare la spada, per artigliare o ringhiare. Troppo tardi per urlare, parlare, anche solo respirare. Una pressione leggera, e la fine di tutto.

Eppure, sembrava che tutto il suo essere fosse concentrato unicamente nel tentativo di recuperare un equilibrio bastevole a riprendere a correre.

 

Sesshomaru socchiuse gli occhi e si concesse un impercettibile respiro.

Quando avvertì suo fratello avvicinarsi, tendere i muscoli pronto a ricominciare a rincorrerlo, mosse un passo. E poi un secondo, e un terzo. Lasciandosi alle spalle quasi divertito la faccia confusa e sbigottita di Inuyasha. Sesshomaru stava…stava semplicemente camminando. Invece di riprendere subito la corsa, aveva iniziato a procedere lentamente, con passo regolare ma sostenibile anche da lui. Inuyasha scosse la testa e si azzardò a incrociare le braccia dietro la nuca. Se avessero camminato così, tempo un quarto d’ora e le forse gli sarebbero tornate. Mezz’ora al massimo per ripristinare in modo soddisfacente le energie e permettergli di coprire le ultime distanze.

 

“Sei tutto matto”

 

Sesshomaru increspò appena le labbra. Sembrava un complimento. In effetti, il suo comportamento poteva esser tutto fuorchè normale. Ma in fondo in quegli ultimi mesi nulla era stato normale. Era rimasto lo spietato Principe, capace di scendere in battaglia e uccidere senza alcuna esitazione o possibile rimorso, e al tempo stesso aveva iniziato a tenere presso di sé un’altra femmina umana. Una protetta; molto diversa da Rin. Alessandra godeva della stessa protezione della bimba, eppure il rapporto era diverso. Con lei, il demone aveva sentito un desiderio, una volontà istintiva di carne, di corporeo, di materiale, che aveva represso con disperata fatica. Sapeva cosa provava. Quel sentimento che sentiva avvolgerlo in ogni fibra. Ma non sapeva come dirlo. Non poteva dirlo. Trasformarlo in parole comprensibili ai ningen. Non aveva nemmeno idea di come fare; era già difficile per lui accettare quel suono nella sua lingua, in quella parola che era insieme razionalità e natura.

 

“Forse”

 

Sussurrò appena, muovendo le labbra in modo impercettibile. Inuyasha continuava a camminare accanto a lui, un passo dietro di lui. Non lo aveva affiancato, per quanto fosse in grado di farlo. Forse per una sorta di innato rispetto; forse per non tirare ulteriormente una corda già estremamente sottile e al suo limite ormai. Eppure, Sesshomaru si stupì di non provare quel ribrezzo che si sarebbe aspettato. Era una sensazione diversa. Un senso di estraneità più che di rifiuto. Con Naraku era profondamente diverso. Sufficienza, certo rifiuto. Con suo fratello non avvertiva quel senso di nausea correre sotto la pelle, in un brivido sottile e fastidioso. Non lo accettava, ma doveva rendersene conto. Per quanto potesse odiarlo, detestarlo, volerlo morto, poterlo uccidere, Sesshomaru si accorse improvvisamente che verso Inuyasha il suo comportamento era sempre stato inconsistente. Da ragazzo lo odiava, ma non lo aveva ucciso. Aveva risparmiato sua madre e lui in fasce, lui bambino in una giornata di nebbia. Da adulto, per quanto si fossero scontrati e spesso fosse stato suo fratello ad andare al terreno, lui non aveva mai affondato il colpo. Esitazione? Sbirciò il viso rilassato di Inuyasha, con gli occhi al cielo. No. Nessuna esitazione. Non avrebbe mai esitato a uccidere. Né avrebbe risparmiato qualcuno per pietà o compassione. Quelle erano sensazioni praticamente sconosciute. No. Non aveva mai ucciso suo fratello perché non era mai arrivato il momento per farlo. Inuyasha era ancora troppo inesperto, troppo ingenuo. Al suo confronto, sarebbe stato sempre un ignorante, su di lui, sulla sua stessa natura e sul mondo di loro youkai. E uccidere chi non sa nemmeno chi è sarebbe stato completamente inutile. Prima doveva istruirlo, renderlo consapevole. Prima doveva guidarlo. A modo suo, certo. Ma solo allora lo avrebbe sfidato per ucciderlo. Per chiudere quella partita, e scoprire cosa suo padre volesse dirgli lasciandogli Tenseiga. Ucciderlo, per prenderne l’eredità ingiustamente avuta e vedere nei suoi occhi la consapevolezza della sua inferiorità. Ucciderlo, per poter davvero affermare di aver superato suo padre.

 

Forse.

 

 

*****

 

 

Innaturale. Sospetto.

La tenue luminescenza che trapelava dal corpo centrale del palazzo risultava stranamente sospetta. Quasi sgradita. Era inusuale una simile illuminazione nelle ore precedenti l’alba. Nemmeno durante i mesi di assedio il palazzo aveva mantenuto una simile configurazione. E il fatto che più che una condizione di allerta assomigliasse ad una ricorrenza o ad una assemblea risultava completamente spiazzante e fuori luogo. Il Principe non era a Palazzo, e nulla aveva fatto presagire la necessità di convocare un’udienza per decidere qualcosa di imminente.

Anche se i principi del Kansai avessero tentato la fuga, spettava a Sesshomaru decidere della loro sorte. I cortigiani a palazzo potevano al massimo formulare possibili ipotesi, soluzioni temporanee per scongiurare eventuali nuovi tentativi di fuga. Non avrebbero mai potuto ardire di reclamare delle teste e delle vite su cui solo il Principe poteva avere diritti.

 

Eppure, qualcosa non era normale. Sesshomaru ne era stranamente certo. Fin da quando aveva posato lo sguardo sulle mura del palazzo, una strana sensazione gli era corsa sotto la pelle. Come di avvertimento; quel brivido che in battaglia lo aveva salvato tante e tante volte. L’abitudine secolare al combattimento trasformata e cristallizzata in un sesto senso attento e intuitivo, abile nel percepire il cambiamento, l’anormale. E nessuno lo avrebbe persuaso che a palazzo la situazione era normale. Soppesò attentamente ogni contorno. La posizione sopraelevata che aveva, sul colmo di quel piccolo rialzo del terreno, gli permetteva di dominare tutta la mole del palazzo e di scandagliarne i recessi che andavano via via schiarendosi alla luce del giorno. I giardini innaturalmente vuoti, benché ricordasse che quando se ne era andato erano ancora ingombri delle tende dell’accampamento degli ookami. Strinse gli occhi. Il principe degli Yoro non era certo conosciuto per la sua pazienza, ma contravvenire così ad un’alleanza, per quanto quasi esclusivamente di facciata, poteva scatenare la sua furia, e Koga doveva saperlo. Tuttavia, Sesshomaru scoprì di non desiderare altro che andarsene dal palazzo, prendere Rin e Alessandra e tornare ai suoi boschi. E se passar sopra una possibile offesa, o meglio alla foga di un giovane principe, avvicinava il momento della sua partenza, avrebbe accolto senza dar segni di fastidio la notizia che gli ookami si erano congedati senza prestargli il consueto e dovuto saluto.

 

Annusò l’aria fresca dell’alba. Strano. C’era ancora odore di lupo nel palazzo; odore fresco, recente. Inuyasha al suo fianco strizzò infastidito gli occhi e arricciò il naso. No. Decisamente ookami e inuyoukai convivevano con molta difficoltà. E l’idea che in quei giorni Koga avesse potuto sfarfallonare impunemente attorno alla sua Kagome gli mandava il sangue alla testa. Se solo le si era avvicinato troppo, a costo di demolire il palazzo, Inuyasha gliela avrebbe fatta pagare. Sfiorò Tessaiga al fianco. Aveva smesso di pulsare da qualche tempo, e lui non se ne era nemmeno accorto. Troppo preso da tutti gli avvenimenti che erano precipitati in modo repentino. Anche la katana di suo fratello riposava tranquilla nel saya, senza dar segni di pericolo.

Alzò le spalle e incrociò le braccia. Gli sarebbe piaciuto chiedergli per quale motivo fosse scappato da palazzo senza preoccuparsi di indossare l’armatura e di prendere Tokijin. Gli sarebbe piaciuta sapere se davvero era fuggito impaurito da qualcosa o se semplicemente avesse avuto bisogno di pensare, lontano dagli assilli cui la corte lo avrebbe costretto se solo fosse uscito dalle sue stanze. La situazione di Sesshomaru e Alessandra doveva esser frustrante, e se la ragazza, in quei momenti, non la viveva a causa del suo stato semicomatoso, Sesshomaru ne era pienamente investito. Inuyasha era sicuro che, se si fosse trovato al posto del fratello, avrebbe mandato al diavolo regole e apparenze, si sarebbe seduto accanto a Kagome e non lo avrebbero smosso di un centimetro finchè la ragazza non si fosse ripresa. Ma da Sesshomaru era difficile aspettarsi un atteggiamento simile. Il suo modo di ragionare, adesso la stava imparando, era quello di uno youkai. Né peggiore né migliore probabilmente di quello dei ningen. Solo diverso.

E una cosa che credeva di aver intuito era l’assenza di egoismo insita nella natura demoniaca. Se un ningen può voler accanto una persona esclusivamente per il proprio tornaconto, un demone è capace di allontanare da sé anche chi ama se questo significa una condizione migliore. Sbuffò massaggiandosi la testa. Detto così, sembra un guazzabuglio di idee mal articolate. Ma meglio non riusciva a spiegarselo, e sapeva perfettamente che sarebbe stata partita persa cercare di farlo capire ai suoi amici.

 

“Allora? Che stai aspettando?”

 

Sesshomaru si voltò lentamente verso di lui e Inuyasha provò un brivido davanti a quello sguardo troppo intenso. Era come se un presagio gli avesse attraversato la testa. Inghiottì a vuoto e imitò il volto del fratello che tornava a fissare il palazzo. Adesso lo vedeva anche lui: l’edificio innaturalmente illuminato per l’ora, gli uomini di guardia sul passatoio troppo all’erta e troppi, semplicemente. Soprattutto in quel momento, quando teoricamente Morigawa non costituiva più una minaccia né avrebbe dovuto esserci qualcosa a causare allarme. Strinse i denti in un ringhio. Che Naraku aveva escogitato qualcosa? Morigawa era tornato dall’inferno? Cosa diavolo poteva esser successo per giustificare uno spiegamento di forze e un’attenzione simile?

Masticò un’imprecazione e grugnì non troppo convinto. Sesshomaru, intanto, non si era mosso né aveva lasciato trapelare l’ombra del sospetto che gli si era formato nel cervello. Il palazzo mobilitato, a quell’ora, senza la sua presenza, poteva significare solo due cose: il pericolo di un attacco o un tentativo del consiglio di estrometterlo. La prima era un’ipotesi da scartare, visto che l’unico che in quel momento avrebbe potuto tentare qualcosa, tralasciando i principi del Kansai, era Naraku. Ma non avrebbe avuto senso che rischiasse una nuova sconfitta solo per vendicare un alleato di cui, in sostanza, si era servito per cercar di raggiungere i suoi obiettivi. Naraku non era uno sciocco, Sesshomaru glielo doveva riconoscere; usava il cervello, e aveva dimostrato più di una volta di far affidamento proprio sulla sua ottima capacità intellettuale. Un atteggiamento ben poco demoniaco, più legato alla parte umana che lo componeva e che ne teneva assieme le parti eterogenee, ma comunque da non sottovalutare. Loro youkai agivano e pensavano in concomitanza, affrontando con la forza e la ragione i problemi mano a mano che si presentavano. Non era loro abituale l’elaborazione di una strategia a lunga scadenza. Per questo, l’assedio era un pratica poco usata, proprio per l’impossibilità di risolvere nell’immediato lo scontro e trovarsi incapaci di prevedere l’evolversi dei fatti.

La seconda ipotesi, per quanto gli risultasse fastidiosa e impossibile, tuttavia non era da scartare a priori. La sua corte gli era fedele, come lo era stata a suo padre. Eppure, Sesshomaru non poteva dimenticare che era stata proprio quella stessa corte a insinuare in lui il sospetto che suo padre avesse un’amante umana, a muovere i fili di una congiura che non era riuscita solo perché lui, subodorando la cosa, si era allontanato. Tuttavia, Sesshomaru era cosciente che certi giochi di potere non erano nuovi per l’entourage di cui di circondava. Il matrimonio stesso fra suo padre e sua madre era legato ad una trovata di Inutaisho, che lo aveva portato a sfidare il padre. Di conseguenza, se lui non avesse più soddisfatto le aspettative, sarebbe stato possibile ventilare l’ipotesi che i nobili più anziani, poggiansi probabilmente sui generali che in quell’ultima guerra avevano fatto una magra figura, tramassero per riuscire a imporre un periodo di reggenza. Era certo che non avrebbero offerto il trono ad altri, visto anche il fatto che, tralasciando Inuyasha che era un bastardo, lui era l’ultimo erede del Clan, l’ultimo discendente diretto, e uccidere lui, oltre ad altamente improbabile, era un azzardo perché sarebbe equivalso alla rottura definitiva di una stirpe che poteva risalire al tempo della formazione della terra e di conseguenza alla perdita di potere e prestigio all’interno del Consiglio e fra le altre Famiglie.

La soluzione era la reggenza, con lui in qualche modo costretto ad approvare le loro decisioni. Un Principe burattino quasi, tenuto in vita fino a che non avesse procreato un erede. E allora, solo da uccidere.

 

Sesshomaru strinse il pugno, avvertendo la propria youki pervadergli le vene. Doveva assolutamente scoprire cosa stessero progettando, e il modo migliore era sgattaiolare all’interno del palazzo senza rivelare immediatamente la propria presenza. Coglierli di sorpresa e costringerli a confessare. E mostrare chiaramente come certe teorie non dovessero mai nemmeno affacciarsi nel loro cervello.

 

 

 

*****

 

 

Rigido. Altero. Con gli occhi assottigliati come un predatore che studia la preda, pregustando l’attimo dello scatto, i tendini distendersi e conferirgli rapidità e mortale velocità, le zanne farsi strada fra le labbra, gustare l’aria e un attimo dopo affondare. Nella carne tenera del collo, nella gola pulsante e il sangue invadere la bocca, scendere lungo l’esofago e, caldo, disegnare il volto, macchiare la pelle, i vestiti. Artigli a cercare, a scavare con rabbia attraverso ossa e viscere; risalire al cuore e chiuderlo in un’ultima affettata mossa. Lasciare che la youki si disperda nelle membra avversarie, corrodendo e liquefacendo, mentre un tanfo nauseante di carne bruciata, di acido, riempie la gola e costringe a socchiudere ancora gli occhi.

 

Sesshomaru carezzò inconsciamente i palmi delle mani. Sentiva fremere ogni più piccola particella del suo corpo, di indignazione e furore. Il respiro troppo regolare, e il sangue che lentamente cresceva in velocità, trascinando con sé la forza demoniaca che si irradiava nel suo corpo. Senza eccedere, senza lasciar trapelare subito tutta la sua potenza e quindi la sua presenza. Rivelarsi sarebbe stato un errore; lasciarsi andare alla rabbia, alla voglia di vendicare l’offesa una mossa azzardata e controproducente. No. Doveva dominare l’impulso di attraversare di corsa le sukiwatadono e i , irrompere nel shinden trovandosi di fronte la sua corte preparata, con le katana in pugno e gli artigli sfoderati. Agguerriti, pericolosi e soprattutto consapevoli. Del fatto che lui non avrebbe risparmiato nessuno che fosse capitato sotto i suoi artigli, che non avrebbe centellinato forza e crudeltà. Ma metterli in allerta sarebbe stato stupido, un giocarsi l’effetto sorpresa e permettere ai più pavidi di trovare una via di fuga.

 

Jaken avrebbe impiegato ancora un po’ di tempo prima di riuscire a far circondare tutto il corpo centrale e chiudere le verande che davano sui giardini e i corridoi di collegamento con i padiglioni privati interni. Gli aveva ordinato di recuperare le spesse porte di legno da applicare all’engawa e ricollocarle al loro posto, come d’inverno. Nel più profondo silenzio possibile. Lasciare solo quei pochi spiragli che permettessero di non rivelare il trucco, e poi, appena lui fosse entrato, chiudere. Chiudere tutto e sprangare ogni ingresso, collocando due guardie ad ogni porta. Aveva ordinato di lasciare aperta solo la porta laterale che affacciava sui giardini; l’engawa aperta e la fusuma solo accostata. Non avrebbero avuto il tempo di controllare tutto. Lui non avrebbe lasciato loro il tempo.

 

Passo dopo passo, raggiunse l’ingresso della sala centrale del shinden. Jaken comparì deferente dall’hisashi racchiuso fra pannelli di legno e gli comunicò che era tutto pronto. Annuì distrattamente e fissò l’elegante motivo dipinto sulla fusuma d’ingresso: un gigantesco cane bianco dagli occhi infiammati mostrare le fauci ad un drago del cielo. La battaglia di un suo antenato. Forse il capostipite della sua stirpe, quella che aveva consegnato loro il dominio su quelle terre. Non ricordava, in quel momento. Trapassò con gli occhi lo spicchio di luna che macchiava quasi sfacciato la parte alta della zampa del cane. Sulla spalla. Come la portava suo padre.

Portò distrattamente la mano alla fronte, scostando appena la frangia. Lui aveva ereditato la posizione di quel simbolo dalla madre. Già, sua madre. Avrebbe dovuto risolversi a riprendere quelle ricerche; avrebbe dovuto decidere di affrontare quel passato lontano e renderle la vendetta che doveva. Ma dopo. Una questione alla volta: prima di tutto, doveva ripristinare il suo orgoglio sbeffeggiato e l’autorità che i suoi subordinati sembravano aver dimenticato.

 

Accanto a lui, Inuyasha spostava nervosamente il peso del corpo da un piede all’altro. Fremendo di rabbia e della voglia di saltare al collo a quei maledetti bastardi. L’espressione di Sesshomaru, inoltre, apparentemente composta e indifferente, non contribuiva certamente a raffreddare la sua collera; anzi, se possibile, lo infiammava ancora di più. Non sapeva esattamente cosa stesse passando nella testa di suo fratello, ma prevedeva qualcosa di davvero terribile. Mille volte più terribile del più cruento eccidio. Sesshomaru era un fascio di nervi e di istinto razionalmente controllato. Pericolo allo stato puro, con la youki che sfrigolava nelle ultime ombre del crepuscolo e gli occhi infiammati da un sinistro bagliore rossastro. La sclera assottigliata e la pupilla ridotta ad una letale striscia nera in mezzo all’ambra che sfumava pericolosamente all’azzurro verso l’esterno dell’iride e il bulbo che assumeva tratti di rosso vivo. Eppure, non gli era uscito un gemito, un lamento. Si era limitato a corrugare la fronte e serrare maggiormente la mascella.

 

Inuyasha arricciò il naso stizzito, mentre suo fratello scambiava a bassissima voce poche parole con Kumamoto e gli consegnava Tenseiga. Maledetto testardo! Benchè Jacken, in sua vece, avesse fatto revocare il permesso di potersi aggirare armati per il palazzo, non c’era alcuna sicurezza che i demoni e le yasha radunati nella moya non nascondessero nelle pieghe dei kimono pugnali o qualche altra diavoleria. E Sesshomaru cosa decideva? Di entrare disarmato nella bocca della tigre! Strinse maggiormente il saya di Tessaiga. Era impossibile pensarlo, ma se Sesshomaru gli avesse permesso di seguirlo, Inuyasha non avrebbe avuto la minima intenzione di separarsi dalla spada. E per due ovvie ragioni, anche: la prima era che non aveva alcuna sicurezza di riuscire a dominare l’impeto demoniaco che lo avrebbe invaso, ne era sicuro, davanti a quei maledetti bastardi; la seconda era la consapevolezza dell’inferiorità dei suoi artigli e della sua forza fisica, soprattutto in quel momento, di fronte a un’intera corte e ai generali inuyoukai.

 

“Ehi! Cosa hai detto a Kumamoto-sama?”

 

Inuyasha era sobbalzato leggermente nel sentire la mano del generale sfiorargli la spalla, prima di uscire dal corridoio assieme a Jacken e sprangare la porta dietro di sé. Adesso, erano rimasti solo loro due. Sesshomaru scostò con naturalezza un ciuffo un po’ ribelle; sembrava pronto a tutto fuorchè ad uno scontro. Che volesse parlare? Il pensiero accarezzò la mente dell’hanyou per un brevissimo istante: Sesshomaru era troppo controllato, troppo composto, troppo attento ad ogni più piccola ombra proiettata sulla fusuma. Stava studiando il suo avversario, quasi mangiando l’impazienza e l’adrenalina che salivano lentamente nel corpo, che lasciva crescere sempre di più. Parlare? No. Sesshomaru non si sarebbe mai abbassato a parlare con demoni come quelli che sedevano nella moya. Quelli erano youkai che non meritavano nemmeno la parola; era già un grande onore quello che concedeva loro di esser uccisi da lui, dal loro Principe. Avrebbe potuto far irrompere i suoi uomini, e godersi tranquillamente la loro agonia. Avrebbe potuto. Ma non gli sarebbe bastato; non avrebbe trovato quel piacere, quella soddisfazione che invece sentiva bramare con tutto se stesso, fin nei recessi più profondi della sua anima.

 

Raddrizzò le spalle e con la coda dell’occhio vide Inuyasha imitare inconsciamente il suo gesto, quasi presagisse l’effetto che avrebbe provocato il loro ingresso nella sala principale. Insieme. Il Principe e il cadetto. Maledettamente simili in aspetto, pericolosi, e soprattutto assetati di vendetta. Non avrebbe saputo spiegarsi perché non lo avesse congedato. Sarebbe stato più saggio allontanare Inuyasha e incaricare invece Kumamoto di guardargli le spalle. Precauzione inutile, ma meglio evitare anche il più piccolo rischio. Oltre a controllare la situazione e avvertirlo in caso di bisogno, Inuyasha avrebbe avuto anche il compito di evitare che qualcuno potesse fuggire attraverso la fusuma che aveva ordinato di non sbarrare. Quella sarebbe stata la sua posizione: dietro di lui, vicino alla parete, abbastanza lontano dalla porta per non indicarla apertamente come unica via di scampo e al contempo sufficientemente vicino da esser libero di agguantare senza sforzo e senza possibilità di errore l’eventuale fuggiasco.

 

Inuyasha ghignò mostrando le zanne. Non aveva capito il perché avesse scelto proprio lui, ma non gli interessava. Doveva lasciargli il duello, ma sperò che qualcuno sfuggisse al fratello per dargli di persona la meritata lezione. Ci avrebbero pensato bene, prima di azzardarsi ad alzare ancora le mani su Alessandra. Scosse la testa e frustò con la mano l’aria; Sesshomaru stava spegnendo il braciere, sciogliendoci un composto friabile che mandava un odore nauseante. Jaken lo aveva portato al suo signore poco prima, e, incredibilmente, Sesshomaru spiegò al fratello la necessità di coprire ancora per un po’ il loro odore. Doveva esser certo di prendere i traditori di sorpresa e, soprattutto, che Kumamoto riuscisse a raggiungere la sua posizione al padiglione a sud senza destare nessun allarmismo. Di lì a poco, tutto il palazzo sarebbe stato svegliato ed era di vitale importanza che agli altri membri della corte e ai fedeli dei demoni impegnati in quella stanza fosse impedito di intervenie. Sesshomaru voleva vendetta, non una strage, per quanto il pensiero gli avesse solleticato il cervello.

 

“Starai di guardia. Loro sono miei

 

Calcò in modo innaturale l’ultima parola, con un sorriso che era più un ghigno e gli occhi troppo sicuri, troppo violenti nei loro colori. Inuyasha ebbe appena il tempo di sentire un brivido al sussurro del fratello, una goccia di sudore gelido percorrergli la schiena e la bocca secca inghiottire a vuoto nel tentativo di schiodare la lingua dal palato e rispondere qualcosa, qualsiasi cosa. Sesshomaru spalancò la fusuma e il silenzio piombò all’improvviso nella stanza.

Un silenzio violento e innaturale, dovuto alle parole improvvisamente troncate, alla musica che era solo un’eco nell’aria, alle ceramiche ferme nel gesto di esser portate alla bocca. Occhi increduli spalancati, dilatati sempre di più mano a mano che prendevano realmente consapevolezza di chi li avesse interrotti, di chi fosse la figura d’argento e indaco ritta contro il buio della fusuma, avvolta da un odore ferino e dolciastro, simile all’incenso, e al contempo nauseante.

 

Sesshomaru li fissò ad uno ad uno. Gli youkai che avevano osato ribellarsi alla sua autorità, che avevano sfidato lui e la sua collera, la sua parola, profittando della sua assenza per divertirsi con la sua protetta. Con Alessandra.

Un ringhio sordo si formò nella gola dello youkai mentre muoveva un passo sul pregiato tatami, ignorando la polvere e lo sporco che inzaccherava i suoi stivaletti. Li vide allargare la bocca alla ricerca di aria, iniziare a tremare impercettibilmente mentre la consapevolezza di quello che li aspettava, la pena per quanto compiuto, serpeggiava lentamente fino al loro cervello, accompagnata dal frusciare lieve della seta della veste del Principe, dal movimento quasi ipnotico della sua mano che si sollevava facendo allungare gli artigli in una tenue luminescenza argentata, rendendo più vivide e nitide le strisce rosate che gli segnavano il polso. La mano destra di Sesshomaru brillava leggermente avvolta dal veleno e dalla youki. L’unica mano con cui potesse esercitare il suo dokkasu. La sinistra, per quanto in grado di lacerare in modo minuzioso, non possedeva più veleno né youki. Ma non sarebbe stato un problema. Aveva imparato a combattere senza un braccio; doversi basare solo sul veleno di una mano e assieme poter contare sugli artigli della sinistra era un ottimo punto di partenza. Scoprì leggermente le zanne in un ghigno soddisfatto.

 

Alle sue spalle, aveva distintamente avvertito il fruscio della fusuma che si richiudeva. Simile all’eco di un tuono nel silenzio del cielo. Inuyasha era ancora dietro di lui, braccia contratte e pugni chiusi, pronto allo scatto, ad aggredire. Non lo avrebbe fatto, Sesshomaru lo sapeva bene. Come era consapevole dell’effetto di sconcerto e sbandamento che aveva provocato. Vedere i due principi l’uno accanto all’altro, l’uno che riconosce l’altro secondo le gerarchie, e capire che sono arrivati alla fine, che non c’è via di scampo. Accorgersi del buio innaturale per l’ora, dell’aria pesante e tesa, dei respiri che restano lì, annodati in gola, un magone e una terrore che non va né su né giù. Inchiodato allo sterno, cementando la lingua, dilatando gli occhi. Il Principe che inclina appena le labbra, che alza la mano e permette appena un sussurro d’aria a intercorrere fra la calma rilassata e indifferente che mostra e la furia violenta e precisa. Quel guizzo sinistro nell’oro, la sclera assottigliarsi e virare lungo il bordo, striarsi di argento e azzurro attorno all’iride sempre più longilineo e sottile. Le strisce rosate virare verso un colore vinaccia e sbozzarsi leggermente, perdendo la consueta linea armoniosa per sostituirvi piccoli, terribili spigoli aguzzi.

 

Sesshomaru coprì in una frazione di secondo la distanza fra la fusuma e il primo cortigiano; afferrò il collo e lo sollevò di peso. Artigli che affondavano senza esitazione nella gola, sempre più stretti e vicini alla carotide. Gli occhi del demone dilatati e lentamente più pallidi, quasi vitrei per la carenza d’ossigeno. Le scuse balbettate senza riuscire a far loro assumere suono distinto e la saliva iniziare a colare dai lati della bocca, assieme a un piccolo rivolo di sangue. Strinse ancora. Gli artigli della sua vittima attorno alla sua manica premere in modo spasmodico, cercare di contorcere stoffa e pelle, rinsecchirsi un istante nell’immobilità completa e poi scivolare scomposti. Mentre la testa rotolava indietro con lo sciocco secco delle vertebre. Mentre gli occhi si fissavano su un soffitto pieni di terrore.

 

Il cadavere cadde a terra con un tonfo sordo e Sesshomaru lo scavalcò con un passo. Il primo era morto in fretta; forse troppo in fretta. Il primo era stato facile da uccidere, giocando sulla sorpresa e sul momentaneo stato confusionale. Il primo era solo l’antipasto, l’assaggio dei suoi artigli ancora bianchi. Il primo lo aveva ucciso senza spandere una goccia di sangue. Ma gli altri. Gli altri avrebbero sentito la carne lacerarsi e sciogliersi per il suo veleno. Avrebbero sentito il sangue sgorgare dalle proprie ferite e sarebbero stati costretti a lasciare la spada per raccogliere nelle mani le proprie stesse viscere. Gli altri li avrebbe sgozzati come animali al macello, tranciando gole e aprendo petti, ma non affondando completamente. Non subito. Gustandosi le loro espressioni contratte, le smorfie, la consapevolezza di aver osato troppo farsi strada nella mente. Non avrebbe risparmiato nessuno: né i demoni né le yasha. Nemmeno le oiran che si appiattivano in fondo alla sala, nascondendo il volto traumatizzato fra le pieghe dell’obi o cercando di risistemare il kimono per nascondere il seno. Non avrebbe risparmiato neanche loro. Per essersi concesse a chi lo aveva sfidato, per essersi accompagnate a dei traditori della sua persona; era come se loro stesse avessero tradito, avessero profanato Alessandra.

 

Alessandra.

 

Il nome gli perforò la mente con la violenza di una pugnalata. Arricciò le labbra in un ringhio quasi animale, molto distante da quel rumore gutturale che gli era consono. La vide: inerme fra le braccia di quei demoni, muovere lentamente le braccia nel disperato, futile, vano tentativo di ribellarsi, di allontanarli. Sentì il rumore della stoffa degli abiti strappata, il respiro farsi irregolare e i singhiozzi soffocati in gemiti di piacere e disgusto. I brividi attraversarle il corpo, mentre altre mani, altri artigli, altre bocche la toccavano, la scoprivano, la violavano. E lei piangere e invocare il suo nome. Pregare probabilmente. Pregare quel dio diverso dai kami, quel dio di cui gli aveva parlato. Pregare quel dio, e sperare che lui arrivasse, che lui la aiutasse. Fissare con occhi annacquati la fusuma o le shoji, cercando di ignorare il tocco sempre più sfrontato, la lingua più ardente e ruvida.

 

Sesshomaru piegò leggermente le ginocchia e spazzò l’aria alla sua destra. I demoni che avevano osato avvicinarsi si trovarono straziati da profonde ferite, mentre con un urlo cercavano di riguadagnare una distanza di sicurezza. Afferrò la mano che aveva cercato di puntare un tanto al suo volto, torse muscolo e osso con uno scricchiolio sinistro, finchè con un grido la mano penzolò innaturale sul braccio, mentre il Principe conficcava con maestria l’arma bianca nell’addome del suo avversario, trapassandolo e lasciandone intuire la punta luccicante fra le pieghe lorde della veste.

 

Non ci aveva creduto subito. Quando era entrato a palazzo eludendo la sorveglianza, percorrendo i tsuridono e i che affacciano sul lago, non aveva calcolato la possibilità di imbattersi in Jacken. E appena il demonietto aveva riconosciuto il suo signore, fra la felicità, la paura e le scuse gli aveva balbettato qualcosa relativo ad Alessandra. Qualcosa di poco chiaro, e al tempo stesso estremamente spiacevole. Sesshomaru lo aveva afferrato con mala grazia per la ho e lo avrebbe anche soffocato se Kumamoto non fosse intervenuto a placarne la rabbia e la crescente, funesta, allarmata necessità di sapere.

 

Affondò maggiormente la mano nel corpo che gli si era gettato contro. Quel demone era piuttosto coriaceo, dovette ammetterlo. Stava tentando di strozzarlo. Finse uno spasmo e lascio diminuire la pressione degli artigli attorno agli organi interni; reclinò leggermente la testa sul petto, trattenendo il respiro. La presa si allentò impercettibilmente, ma in modo sufficiente. Scattò. Le zanne affondarono nella gola dell’avversario, mentre la mano si torse cambiando direzione e cercando di risalire dall’intestino verso il cuore. Perforò stomaco e polmoni e stappò il cuore. Sesshomaru liberò le zanne e il corpo ricadde indietro con la testa staccata quasi del tutta dal collo, mentre altri cortigiani si avventavano sul Principe, che grondava sangue e sudore, ma non sembrava aver perso la calma, la lucidità e soprattutto la forza di reagire e combattere.

 

Kumamoto.

Era stato grazie alle parole del Principe di Kita che Inuyasha e Sesshomaru erano venuti a conoscenza di quanto avvenuto appena tre giorni dopo che loro se ne erano andati. Il ricatto cui i ningen e anche gli altri erano stati costretti a piegarsi, il fatto che il generale fosse nell’altro padiglione, ignaro, assieme ai signori del Kansai e di Yezo; le minacce, le suppliche i lamenti vani e quasi patetici di Jacken. Un racconto anche alquanto veloce, stringato, senza molti particolari e con evidente imbarazzo. Non erano argomenti per un vecchio generale, quelli. E soprattutto non era un argomento che avrebbe voluto dover riferire al suo piccolo principe. Poche parole con la voce strozzata in gola e la mente che vagava dietro ad una notte d’autunno, quando era piombato a palazzo con il fiato corto, ansimante e sudato, per vedere gli occhi dilatati e spaventati di Inutaisho supplicarlo. Di un qualcosa che non aveva ancora nome. Lo stesso sguardo di Sesshomaru mentre prendeva sempre più coscienza del valore delle sue parole. E poi, la rabbia, i muscoli contrarsi, il passo farsi da leggermente barcollante, insicuro e stabile. La mente velocissima ad elaborare una strategia, la possibilità di vendicarsi subito, prima ancora di sapere esattamente cosa fosse successo, prima di accertarsi di come stesse Alessandra. Prima di Alessandra.

 

Sesshomaru ruotò su se stesso, alzando al soffitto gli artigli e squartando il demone che aveva tentato di coglierlo di sorpresa. Tagliato in due mentre ancora era intento nel balzo che avrebbe dovuto portarlo addosso al Principe. Il sangue piovve sul tatami, sulle mense, sui cibi. Con i tukurri e i sakazuki che rotolano a terra, spandendo sake freddo e allungando il sangue in macchie scure e scivolose. Se ne lasciò investire, ricoprire da capo a piedi, screziare i capelli e macchiare il kimono intrecciato d’argento. Ne aveva eliminati sette; di demoni ne restavano ancora otto o nove, e poi le yasha. Nessuno di loro sarebbe uscito vivo da quella sala. Solo lui. Solo lui e la sua vendetta.

 

Scattò inchiodando con la pressione degli artigli un nuovo cortigiano alla parete. La mano premette contro il legamento fra la clavicola e il braccio, liquefacendo la carne e le ossa con il veleno. Sentì distrattamente artigli afferrargli la gola, premere per spezzare le vene che pulsavano selvaggiamente. Affondò, strinse, torse. E il corpo piombò sul pavimento assieme alle urla strazianti, davanti agli occhi una disgustosa macchia sanguigna a colorare di scuro la carta washi. Gettò lontano l’arto che aveva amputato e artigliò il petto del demone ai suoi piedi. Il sangue schizzò sul viso di Sesshomaru mescolandosi a quello vecchio, colando in piccoli rigagnoli inquietante. Lambì la bocca e si insinuò nell’incavo delle labbra. Sesshomaru lo assaporò lentamente con la lingua, rivelando le zanne intarsiate di sangue. Immaginò il collo aperto a mostrare la carotide grondante. Poi, scese con la mano sul petto, trapassando il cuore all’istante.

 

Un sibilo e un richiamo. Girò la testa sopra la spalla e la bilanciò leggermente all’indietro. Il tanto gli sfiorò la guancia tranciandolgli qualche capello e provocando un sottile graffio. La mano si alzò lentamente fino alla ferita che già andava rimarginandosi, per poi afferrare il pugnale conficcato nel legno. Il demone che lo aveva lanciato, protetto dai compagni, si ritrovò solo davanti al suo signore. Tremante e incapace di muovere un passo. Inciampò nel kamishimo e cercò di strisciare lontano. Sesshomaru avanzava lentamente nella luce sanguigna delle ultima candele che ne proiettavano sul fondo l’ombra deformandola. Sentì l’urlo formarsi nella gola del demone, e la lama affondare nella sua bocca, gli occhi ruotare e gli spasimi percorrerne il corpo. Non lo aveva ucciso a mani nude, ma era lo stesso.

 

Morire. Dovevano morire tutti. Per aver osato disobbedire alla sua autorità, sfidare la sua persona, desiderare quello che non avevano alcun diritto di guardare. Morire. Per offrire a se stesso la giusta vendetta, per lavare l’onta del disonore, del sospetto che non fosse degno del titolo che portava. Morire e bruciare in un fuoco di purificazione. Sì. Avrebbe fatto appiccare il fuoco a quella sala, distruggendo cadaveri e legno, tatami, vasellame, pietre; incendiare tutto e poi ricostruire. Purificando le ceneri con l’acqua, per mondare quello sporco, quel sudiciume che si era insinuato fin nel suo padiglione privato, fin dentro le sue stanze.

 

Per te, Alessandra.

 

Si voltò concedendosi uno sguardo fuggevole a Inuyasha. Era ormai in fondo alla sala, quasi addossato alla parete. Pallido, cadaverico. E con la sorpresa mescolata all’orrore negli occhi. Bene: sarebbe stato motivo di monito anche per lui. Quello che accade a provocarlo, a voler sfidare la sua collera. Non aveva concesso una parola a quei miserabili, non aveva permesso loro di aprire bocca, e se anche lo avevano fatto non vi aveva badato. Non erano nemmeno degni di ascoltare dalla bocca del loro signore la loro stessa condanna.

 

“Perché Sesshomaru-sama?

Per una puttana umana?”

 

La mano trapassò d’istinto il ventre della yasha e il cuore dello youkai che la usava come scudo. Il demone cadde all’indietro in una pozza di sangue e urina. La yasha, invece, si accasciò sul braccio che la attraversava. I capelli disfatti e l’elegante acconciatura ormai lontana. Una oiran. Dal seno piccolo e sodo, la pelle pallida e le labbra sfacciatamente rosse. Si aggrappò alle spalle del Principe alzando debolmente la testa. Non era infuriata, arrabbiata, rattristata. Sul suo viso c’era invece una smorfia di scherno, quasi di sarcastica compassione. Lo baciò per poi scivolare lungo il volto di Sesshomaru con la lingua, fino al suo orecchio mordendolo leggermente. Lui affondò di più la mano, avvertendo il corpo abbandonarsi in singulti. Non riuscì a distinguere le parole che la yasha gli sussurrò. Forse una maledizione, forse una profezia.

 

Panico. Urla sempre più acute e isteriche. Corpi che si attorcigliano cercando di sfuggire, di allontanarsi; mani che battono, che implorano pietà. Lacrime, bava, sangue. L’odore del terrore ammorbare l’aria, appesantire il respiro ubriacando la mente con le esalazioni dolciastre del sake. I movimenti sempre più precisi e fulminei. Corpi fatti a pezzi; volti ridotti a maschere grottesche e deformate. E sangue. Su ogni cosa, su ogni corpo, su ogni oggetto, sulle pareti e sul soffitto, sul tatami ormai viscido. E su di lui. Su Sesshomaru. Sui capelli d’argento, sul viso affilato, lungo il collo che pulsava impercettibilmente, sul kimono scurito da macchie color ruggine, sulle mani gocciolanti. Negli occhi. Nel tenue alone rossastro del bulbo; fisso. Ieratico. Incapace di accendersi, incapace di disperdersi. Un precario equilibrio fra ragione e pazzia; la pazzia di uno youkai. Un misto di razionalità che fluisce violenta e improvvisa, sfuggendo all’articolazione mentale e diventando solo istinto. Folle, puro, perfetto istinto omicida. Per sopravvivere. Per proteggere se stessi e chi attorno.

 

Inuyasha strinse gli occhi e voltò la testa con una smorfia di disgusto.

Non lo aveva capito. Quando era entrato in quella stanza, non aveva capito esattamente cosa Sesshomaru volesse fare. Vendicarsi, quello era naturale. Ma aveva pensato a minacce, alla sua voce tagliente, al suo sguardo di sprezzante sufficienza. Aveva pensato ad una collera furiosa che prendeva corpo in offese, insulti, forse anche urla. Forse avrebbe sentito per la prima volta la voce di suo fratello deformarsi in un suono gutturale e di petto, alzarsi fin quasi a perdere la nota incolore e a strozzare le parole. Si era immaginato i cortigiani supplicarlo inginocchiati a terra; aveva sentito nelle orecchie le scuse e le motivazioni che avrebbero formulato. Le conosceva già, in fondo. E gli artigli gli avevano carezzato pericolosamente la pelle. Quelle stupide, inutile, futili motivazioni: Alessandra è una ningen, un oggetto; bisogna preservare la stirpe; il Principe è stato fin troppo evasivo e la corte era preoccupata; si è solo voluto verificare, accertare.

 

Inuyasha li avrebbe disprezzati, avrebbe volentieri sputato loro in faccia, li avrebbe pestati a sangue fino a ridurne le ossa in frantumi minuscoli, fino a lasciargli agonizzanti sul pavimento. E rimpiangere la possibilità di non poterli uccidere. Perché sono membri della corte, perché sono fra i demoni più influenti presenti a palazzo.

Inuyasha aveva immaginato molte soluzioni, ma non quella. Non l’eccidio che suo fratello stava perpetrando sotto i suoi occhi. Con la naturalezza del predatore. Con la furia dell’animale ferito, circondato, spalle al muro, e che gioca il tutto per tutto. Non aveva mai visto la collera di suo fratello. Se ne accorse in quel solo, drammatico, eterno frangente: Sesshomaru non aveva mai rivolto a lui quella furia ferina e annullatrice. Non aveva pronunciato una parola; non aveva concesso un respiro. E straziava, affondava, mordeva, artigliava. Addentava con le zanne e strappava carne sanguinolenta e palpitante; inghiottiva sangue e …Inuyasha represse un conato. Non era una certezza, ma il solo pensiero lo nauseava; tuttavia, sapeva possibile che Sesshomaru ingoiasse carne di demone. Forse per un qualche recondito motivo, forse per rendere ancora più terribile la sua figura ricoperta di sangue, il viso cosparso dei piccoli grumi spumeggianti e il colare lento del sangue lungo il mento, sul collo, allargandosi sul date-eri.

 

Si appoggiò di peso alla parete retrostante, incapace di trovare la forza di staccare gli occhi, di chiudere anche solo le palpebre. Il corpo cosparso dai tremiti di un eccitato terrore. Sesshomaru era lontano da lui; era completamente diverso da lui. E Inuyasha si accorse con un brivido freddo che quella era la furia che lo prendeva quando si trasformava; quella era l’irrazionalità che gli attraversava il cervello facendolo cadere in un delirio profondo e impossibile da vincere. Quella era la differenza. Sesshomaru sarebbe stato in grado in qualsiasi momento di riprendere la normalità, di riguadagnare la postura elegante e altera; lui no. Lui sarebbe rimasto succube, con la coscienza confinata in un angolo recondito della mente.

 

Barcollò fino alla fusuma lasciata aperta, appiattendo disperatamente le orecchiette sulla testa. Per non sentire le urla isteriche delle donne, il rumore della carne che si apre, i flotti di sangue cadere e i corpi accasciarsi. Aprì. L’aria leggermente pesante della mattina lo investì, assieme all’odore disgustoso che trapelava da quella stanza. Il sunoko leggermente riscaldato dal sole sotto le mani e il corpo piegato in avanti. La gola che brucia e i crampi allo stomaco. Inuyasha si ritrovò ad ansimare, la bocca impastata e il mento gocciolante saliva e lacrime. Le grida si erano fatte più acute, quasi stridule. Si premette una mano sulla bocca, stringendo forte. Non aveva mai vomitato per una strage; non era mai successo che un orrore simile lo nauseasse fino a quel punto.

 

“Inuyasha!”

 

Alzò debolmente la testa. Si sentiva svuotato e faticava a mettere a fuoco le immagini. Chiazze sfumate, quasi fumo e nebbia. La voce arrivava ovattata, lontanissima. La voce di Kagome. Possibile che fosse lei, che quella macchia fosse la sua Kagome? Strinse gli occhi e scosse alcune volte la testa. Le urla nella stanza continuavano.

Doveva portarla via; doveva evitare che vedesse quello scempio. Si alzò quasi con prepotenza in piedi, barcollando instabile e accettando di lasciarsi aiutare nel recuperare una postura leggermente eretta. Il corpo quasi abbandonato contro Kagome, un braccio sulle spalle e l’altro lasciato ciondolare. Un passo; e poi un altro. Verso la porta poco distante. Lontano da quella stanza maledetta.

 

“Continua a camminare”

 

Abbassò la testa e strinse un braccio della ragazza, troncandole il movimento. Non doveva voltarsi, non doveva rischiare di vedere attraverso la fusuma che aveva lasciato aperta. Bastavano le grida; bastavano le parole deformate in suoni rauchi a riempire il silenzio. La sbirciò stringere gli occhi e contrarre la bocca. Combattuta dal desiderio di scappare e la voglia di non lasciarlo lì. Il cuore che aumentava velocemente i battiti, che martellava violento nel petto.

Poi, il silenzio.

 

Inuyasha e Kagome si fermarono. Incapaci di razionalizzare esattamente cosa significasse, cosa volesse dire quell’improvvisa assenza, quella mancanza di suono. Il fruscio della fusuma e un passo lento e leggermente pesante: Sesshomaru. Sesshomaru era dietro di loro.

Inuyasha inghiottì a vuoto, rivedendo il fratello fradicio di sangue mentre colpiva. Ancora e ancora.

Ne respirò l’odore ferino e violento, mescolato a sake, sudore e sangue. E al tanfo di cadaveri che già si stava allargando nell’aria.

Kagome sussurrò appena al suo orecchio, con la voce ridotta ad un pigolio quasi impercettibile e un tremito attraversarle il corpo senza che potesse fermarlo. Perché aveva capito cosa fosse successo; perché sentiva l’aria alle sue spalle ancora elettrizzata dalla youki del Principe.

 

“Avete saputo?”

 

“…hai…”

 

Saputo. Raccontato. Affrontato.

Sesshomaru aveva avuto quello che voleva. Adesso, doveva pensare ad Alessandra. Constatare di persona cosa fosse concretamente successo; cosa quei maledetti avessero provocato. Adesso, aveva voglia di vederla, voglia di baciarla, di fare l’amore con lei. Adesso, voleva le sue azioni a rassicurarla, a dirle che non l’aveva abbandonata, che non era stato lui a volere tutto quello. Anche se ne era stato la causa. Anche se era stato lui a permetterlo.

 

Sesshomaru-sama

 

Rin. Affacciata appena attraverso il pannello di legno socchiuso. Con gli occhi sgranati a fissare il suo signore; a metà fra felicità e paura. Rin aveva visto molte volte il suo signore dopo un combattimento; lo aveva visto uccidere davanti a lei, artigliare e squarciare. Ma non lo aveva mai visto in quello stato: dopo una pioggia di sangue. Sesshomaru era ricoperto di sangue.

La bimba gli si avvicinò un po’ titubante, le mani strette al petto e un piccolo tremito di spavento lungo le membra; testa reclinata sul petto. Sesshomaru si inginocchiò lentamente, e le sfiorò il mento con gli artigli incrostati di sangue. La costrinse a sollevare il viso bagnato e Rin vide i suoi occhi lampeggiare di rosso e azzurro, la bocca serrarsi in un movimento rigido e trattenere a stento un ringhio in gola. La mano scivolare sul collo, sfiorare i sottili graffi che segnavano la gola. Ombre chiare o velatamente rosate.

 

Strinse la mano e si rialzò, incamminandosi verso le sue stanze private. Alle sue spalle, Kumamtoto fece appiccare il fuoco al corpo centrale, per distruggerlo completamente.

 

 

*****

 

 

Ah-Un scrollò le teste e raspò impaziente la terra.

Jacken lo aveva fatto strigliare e sellare, gli aveva messo sul dorso delle bisacce e serrato le bocche con il morso. Lo aveva portato nei giardini del Principe e adesso lo teneva per la cavazza, continuando a rigirasi per le mani il bastone ninto e a borbottare mezze parole. C’erano anche i ningen, in quel giardino, e i Principi degli ookami.

Sollevò una testa annusando l’aria. Fumo. E legno che brucia. Una densa nube alzarsi dal corpo centrale del palazzo. Strattonò appena le briglie e tornò a raspare il terreno.

 

Sesshomaru-sama sarebbe arrivato presto. Sesshomaru-sama aveva stranamente dato l’ordine di farlo preparare. In fretta. Senza alcun preavviso. Di solito, era il Principe stesso che se ne occupava. Ah-Un era la cavalcatura che Inutasiho aveva regalato al figlio quando aveva compiuto sette anni. Un dragone del Continente, un guardiano perfetto. Fedele, docile con il padrone, spietato con gli avversari. Glielo aveva donato che era appena uscito dal suo uovo e ancora caracollava sulle tozze zampette. Sesshomaru non lo aveva mai trattato come lo trattava la bimba umana, ma nemmeno come trattava Jacken. Gli affidava spesso la piccola ningen, e benché non lo avesse mai accarezzato né gli avesse mostrato se lo apprezzasse, Ah-Un sapeva di avere la fiducia del suo padrone. E quella era una prova ulteriore. Sesshomaru-sama aveva fatto preparare lui, non un’altra cavalcatura.

 

Sesshomaru-sama! Vi prego!”

 

“Sei completamente rimbambito?! Vuoi ucciderla?”

 

Ah-Un rialzò la testa e scrollò il collo possente, soffiando. Sull’engawa, Sesshomaru teneva in braccio il corpo abbandonato e privo di sensi di Alessandra. Aveva ancora in dosso il kariginu imbrattato di sangue; aveva ancora i capelli e il volto screziati di rosso. E ignorava. Ignorava le parole di Yaone e Homoe e gli strepiti di suo fratello. Ignorava l’odore fastidioso del fumo che aveva invaso le stanze e i corridoi del palazzo. Ignorava le occhiate sbigottite, sospette, apprensive che il principe degli Yoro e i ningen gli rivolgevano.

 

Andare via. Portare Alessandra lontano da quel palazzo, dal male che lui avevano permesso che le facessero. Strinse leggermente a sé il corpo che trasportava. Non si era preoccupato della reazione che avrebbe potuto scatenare. Non aveva pensato ai suoi abiti, alle sue mani, al suo viso imbrattato di sangue. Aveva spalancato la fusuma della stanza di Alessandra mettendo a tacere ogni parola, ogni tentativo di Yaone e Homoe di impedirgli di entrare in quelle condizioni.

Aveva aperto la fusuma, ed era rimasto fermo sulla soglia.

 

Alessandra.

 

Il corpo magro abbandonato nel futon, occhi dilatati e vuoti che si erano posati distrattamente su di lui, per poi ritornare a osservare lo spiraglio di luce che filtrava dalle shoji. Si era avvicinato lentamente, cercando di reprimere il bisogno disperato di premere il suo corpo contro quello della ragazza, la voglia di baciarla, di strappare coperte e yogi e vederla. Vedere quello che le avevano fatto, vedere il suo corpo umiliato e desiderarlo ancora. Ancora e ancora di più. Agognare la sua pelle, il suo respiro, le gambe attorno ai fianchi e la risata imbarazzata. I silenzi rilassati fra loro e le chiacchierate essenziali. Le labbra di Alessandra piegarsi in una smorfia per la voglia di parlare e la consapevolezza che lui odia le chiacchiere futili. Le mani che tormentano i capelli e il broncio leggero mentre non riusciva a risolvere qualcosa.

 

Sesshomaru si era fermato. La mano appena abbozzata in un gesto. Incapace di piegarsi e dire anche solo una parola. Mentre lacrime sottili annacquavano gli occhi di Alessandra e la bocca si muoveva in parole mute, in un respiro strozzato in gola dalla voce roca per le urla e l’abitudine al mutismo.

 

“Portami via

 

Aveva annuito e si era inchinato per sollevarla fra le braccia. Senza incontrare resistenza. Mascherando lo stupore della fragilità di quel corpo magro. Troppo magro. Poteva quasi sentire il contorno di ogni osso, le scapole premere contro la carne del braccio, la rotula leggermente sferica e i fianchi con un accenno spigoloso per le ossa del bacino. L’aveva presa in braccio premendola al kimono sporco, macchiando leggermente lo yogi e il viso della ragazza. Non vi aveva prestato attenzione. Era solo sangue. E avrebbe potuto lavarlo in qualsiasi momento.

 

Era uscito dalla stanza senza prestare orecchio agli strepiti di suo fratello e al tentativo delle yasha di dissuaderlo. Ah-Un lo aspettava fuori, in giardino. Bardato e pronto a partire. Lo aveva già fatto preparare. Aveva già deciso di portare via la ragazza. Ma non si era aspettato di trovarla in quello stato; di scoprire quello che era accaduto.

 

È passato.

 

Passato. Finito. Archiviato.

Scambiò una lunga occhiata con Kumamoto, finchè il generale non gli cedette il passo, sorridendo di sbieco e ignorando i richiami della figlia. Ah-Un si liberò con uno strattone di Jaken e si accucciò a pochi passi dal demone, offrendogli il dorso.

Sesshomaru monto stringendo a sé il corpo di Alessandra e cercando di fargli assumere una posizione più comoda possibile. La circondò con un braccio e afferrò le briglia premendo i talloni nei fianchi. Ah-Un si risollevò muovendo qualche passo per abituarsi al nuovo peso. Ma non si mosse più di tanto. Non era ancora il momento.

 

“Siete proprio deciso, Sesshomaru-sama?”

 

Annuì appena e Yaone sbuffò alzando le mani al cielo. Inutile insistere. Il Principe era irremovibile; inutile tentare ancora. Si inchinò velocemente e rientrò a palazzo a grandi passi, stizzita, arrabbiata e sollevata insieme. Sesshomaru la lasciò andare. Non capiva il motivo della sua reazione, ma non gli interessava nemmeno. Strattonò leggermente le briglie, intrecciandole alle dita. Ancora un attimo. Aveva ancora un cosa da sistemare. Indugiò su Rin che singhiozzava stretta alla gamba di Kagome, un ditino in bocca. Non aveva cercato di fermarlo, non aveva cercato di andare con lui. Piangeva e basta. Con il suo lupacchiotto che le sfregava la testolina sul fianco.

Avvertì un leggero rumore metallico e le mani di Kumamoto fissare alla sella le sue katana. Non gli disse nulla. Il generale aveva un’espressione strana, di sollievo e malinconia. Avrebbe indagato, in seguito. Avrebbe indagato. Si sentì battere una mano sulla spalla e gli artigli sfiorare in un atteggiamento paterno Alessandra fra le sue braccia. Lo lasciò fare. Quasi tranquillizzato.

 

“Padrone”

 

La voce gracchiante di Jacken lo riportò al presente. A quelle parole che aveva deciso di dire. Attorcigliò le briglie al polso e strattonò leggermente, costringendo Ah-Un a sollevare le teste e prepararsi. Jacken continuava a fissarlo fra il terrorizzato e il rassegnato.

 

Non questa volta.

 

Si voltò verso suo fratello, le mani stretta in petto e una smorfia sulla bocca. Koga e Kumamoto poco distanti. Perfetto. Testimoni presenti. Storse appena le labbra. Se la sarebbe legata al dito, ne era certo. Ma non gli interessava. Aveva deciso così; e così sarebbe stato. Un’idea folle, insensata, senza capo né coda. Il concretizzarsi del suo incubo. Una paura che stranamente lo lasciava tranquillo, quasi indifferente.

Lo chiamò. E si gustò le sua sorpresa fargli sgranare gli occhi e spalancare la bocca. Le labbra tremare leggermente per un sorriso che non si formava. Si gustò il respirò che si spezzava e fulminò con un’occhiata Jacken che balbettava qualcosa di incomprensibile.

 

“Inuyasha.

Cerca di non combinare troppi guai come reggente

 

Strinse la mano e conficcò i talloni nel ventre di Ah-Un. Il drago si alzò in volò fluido e delicato, quasi consapevole di chi stesse portando. E mentre le sagome di youkai e ningen diventavano sempre più piccole, Sesshomaru fissò ancora sua fratello, e strinse a sé Alessandra. Con un miscuglio di sicurezza e incertezza nell’animo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note

 

 

  1. Mamma amava Inutaisho. In giapponese, il termine haha indica la madre da parte di chi parla. In età medievale, stessa funzione aveva la parola okaasan, oggi impegata invece per indicare la madre altrui. Letteralmente, si traduce come “Signora madre”. Il verbo impiegato, invece, è desu, essere, e la traduzione letterale risulta quindi esser innamorato. La scelta è legata la fatto che l’altro verbo giapponese più frequente per indicare l’amore, aishiteru, è una forma letteraria raramente impiegata nel linguaggio orale, oltre al fatto di essere sostanzialmente neutrale. La forma suki desu, al contrario, è impiegata proprio per sottolineare il forte coinvolgimento emotivo del soggetto nel rapporto.
  2. Il ruolo della donna nella realtà medievale giapponese è estremamente vario e complesso, oltre a legarsi all’evolversi temporale. In periodo Heian, la donna non aveva alcun ruolo attivo e, a corte, viveva separata dagli uomini, in appositi padiglioni.
  3. I denti neri di Iazyoi rispondono ad un uso di bellezza delle donne della corte Heian, secondo cui il meck-up tradizionale prevedeva capelli lisci e lunghi, volto pallido con il belletto o la cipria, con le sopracciglia rasate e ridisegnate più in alto, labbra rosse disegnate a bocciolo e, appunto, i denti tinti di nero.
  4. In caso di assenza di discendenti maschi in una famiglia, o per maggiormente stipulare un legame matrimoniale, è tutt’ora possibile, da parte della famiglia della sposa, previo consenso del padre della ragazza, adottare il genero per tramandare il cognome.
  5. La collera di Sesshomaru e il suo desiderio di vendetta può sembrare strano se si considera il fatto che il demone parla di offesa soprattutto verso se stesso, preoccupandosi prima di ripristinare il suo prestigio e la sua autorità, piuttosto che delle condizioni di Alessandra. Il motivo è da ricercare nell’impostazione da me data al Principe, sulla scia del codice del bushido cui, in età medievale, si attenevano i samurai (un codice diverso da quello scritto e fissato nel Hagakure, “All’ombra delle foglie” durante il periodo Tokugawa). Secondo tale codice comportamentale, il samurai è padrone della sua stessa compagna, che vive in dipendenza del marito per prestigio, per quanto istruita maggiormente delle moglie e delle figlie dei damnyo, e anche capace, in caso di necessità, di combattere. Se quindi la donna subisce offesa, l’oltraggio investe anche e principalmente il marito, che ha il compito di proteggerla e farne rispettare il decoro. Di contro, la donna è “tutelata” dal fatto che nemmeno il marito, per quanto sia in suo potere picchiarla, non può assolutamente ferirla.

 

 

  
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