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Autore: Ivola    20/01/2014    3 recensioni
Le storie di Panem sono varie e numerose. Avete mai sentito parlare dei promessi del Distretto 6, quei due ragazzi che avrebbero fatto di tutto pur di ammazzarsi a vicenda e non sposarsi? Loro sono solo una sfocatura, come tanti altri.
Klaus e London. London e Klaus.
Un altro matrimonio combinato, le persone sbagliate, un cuore solitario, e tutto ciò che (non) può essere definito amore.

▪ VI: « Che cosa mi stai facendo? » ansimò la ragazza, tentando di aggrapparsi alle sue spalle. Era decisamente una domanda stupida, visto che era piuttosto evidente cosa il ragazzo stesse facendo. [...]
Klaus non si degnò neanche di rispondere, ben concentrato a muoversi sul suo corpo con gli occhi distanti e le labbra socchiuse. Non aveva né la voglia né la forza di ribattere, per cui la zittì con un bacio rabbioso. « Taci » le sussurrò, corrugando la fronte e mantenendo le labbra a pochi centimetri dalle sue nel caso London avesse deciso di parlare ancora.

▪ XIII: « Perché lo state- no, perché lo stai facendo? »
L’altro lo guardò bene negli occhi, con un’espressione che Klaus non seppe decifrare.
[...]
« Mert szeretlek » rispose Ben semplicemente.
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Incest, Triangolo
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Note: Aggiornare una volta al mese non mi fa bene per niente, perdo completamente il ritmo. Eppure non dipende da me: se fosse così starei a scrivere sicuramente tutti i giorni. E invece c'è la scuola di mezzo. Devo mantenere i nervi saldi - magari facendo un po' di yoga, come mi consiglia sempre il mio professore di filosofia.
Bando alle ciance, cosa ho da dire su questo capitolo? In realtà molto, credo.
Innanzitutto volevo chiarire sul nome di Klaudia. Spero che abbiate tutti colto il significato del gesto di London e Ben, ma, al di là di questo, volevo precisare che "Klaudia" non è il vero femminile di "Klaus". In italiano Klaus si traduce con "Nicola", e quindi il femminile appropriato - sia in italiano che in tedesco, a questo punto, perché coincidono - sarebbe "Nicole" o derivati, ma quando avevo scelto il nome della bimba ero straconvinta che Klaus fosse "Claudio", quindi ho agito di conseguenza. Pardon.
Alcuni mi avevano fatto notare che i figli di incesto nascono con problemi psico-somatici e... sì, qui noterete che genere di problema ha Klaudia, di certo non me l'ero lasciato sfuggire ;w;
Come al solito(?), in questo capitolo ci sarà dell'altro lime quasi-lemon, ma moderato perché non posso finire nel rating rosso. Già. Spero di non risultare monotona, solo che 1) non so descrivere scene di sesso; e 2) questi due mi ispirano tante cose così, e il mio cervello quasi mi impone di inserirle nella storia. Quindi... Pardon pt. II.
Ad ogni modo, ho voluto dimostrare un po’ della loro maturità, se si dovesse notare.
Credetemi, scrivere questo XVII è stato un vero e proprio parto - altro che London - forse perché c'è troppa felicità e, beh, non sono abituata. Ma tanto probabilmente sarà l'ultimo, quindi vado tranquilla (io).

Now I go (sto inglesizzando tutto, aiuto).
Buona lettura ♥
 

Il titolo del capitolo viene da "Lithium" dei Nirvana.

Questo banner è stato realizzato sotto la gentile concessione di SimoBrev's Pics; ϟ














 

 





 














Blur

(Tied to a Railroad)






017. Seventeenth Chapter – Sunday morning.




London era seduta sul letto, con i gomiti appoggiati alle ginocchia, e non riusciva a fare a meno di guardare quella culla nell’angolo con sguardo rapito. Sapeva che Klaudia stesse dormendo lì dentro, ma ogni tanto si alzava e andava a controllare, come per accertarsi che non si fosse dissolta da un momento all’altro.
Per l’ennesima volta in quelle giornate si accostò alla culla e osservò la figlia che sonnecchiava placidamente, spostando gli occhi verso le sue manine da neonata, il piccolo naso all’insù, le sottili labbra schiuse e i radi capelli albini che le decoravano la testa come una spruzzata di neve sul terreno. Era lì, Klaudia, era viva.
Respirava piano, sembrava una bambola di porcellana, ma era viva,
esisteva davvero. Non era un sogno, né un’illusione. Quella bambina era sua figlia, era stata lei a darla alla luce e lei l’avrebbe cresciuta, facendola diventare una donna. L’avrebbe vista cambiare rapidamente, le avrebbe insegnato l’alfabeto, le avrebbe raccontato tutta la sua vita, avrebbero litigato, un giorno l’avrebbe vista sposarsi e avere a sua volta dei figli.
Era stata così cieca… non si era mai resa conto di quanto la vita potesse essere bella, di quanto un frugoletto come Klaudia potesse portare un po’ di luce in tutta la famiglia. Se lo meritavano, in fondo. Forse da quel momento tutto sarebbe stato più facile, tutto avrebbe preso una piega diversa.
Accarezzò piano la fronte della bambina, scendendo fino alle guance morbide e rosee. Per essere nata durante il settimo mese di gravidanza non era per niente smunta o pallida: era esattamente come se l’era immaginata, meravigliosa nella sua innocenza.

« Se continui a fissarla e ad accarezzarla finirai per farla svegliare. »
London si voltò di poco e guardò il marito da sopra una spalla. « Cosa ne vuoi sapere tu di bambini? » commentò con un sorriso. « A stento sai che non li porta la cicogna. »
Klaus le si avvicinò e si unì alla contemplazione della bambina. « Sai, mi ha detto mia madre che i neonati riconoscono sempre la voce della mamma. »
« Come fa a saperlo? » domandò la ragazza.
« E lo chiedi a me? » ridacchiò Klaus. London rise a sua volta, cristallina.
« Proviamo » disse, abbassandosi di più sulla culla. « Klaudia, tesoro? Sono la mamma. » La bambina non fece alcun movimento, restandosene ferma a dormire.
« Klaudia? Lo so che mi senti, piccola, sono io » riprovò, spostandole un piccolo ciuffo bianco dalla fronte. « Klaudia? »
Ma Klaudia non si svegliò.

London avvicinò la mano chiusa a pungo alla propria guancia e, muovendola piano, mimò con le labbra: 
« Mamma. »
La bambina, dal canto suo, seduta sulla sedia ma con i piedi a penzoloni nel vuoto per la sua statura ancora poco elevata – aveva soltanto tre anni, del resto –, fissò la madre negli occhi, sbattendo leggermente le palpebre. Dopodiché, tornò a dedicarsi al suo pasticcino di cioccolato senza dar cenno di aver capito cosa la madre stesse facendo.
London emise un sospiro esasperato.
« Dài, Klaudia, avanti! » La figlia, tuttavia, continuò a mangiare indisturbatamente il suo dolcetto, finendo con lo sporcarsi tutta la bocca di crema al cacao. « Perché le hai comprato i dolci? » domandò arrabbiata al marito, che intanto stava apparecchiando controvoglia la tavola per tre. « Adesso non mangerà più niente! »
Klaus alzò gli occhi al cielo. « Guardava la vetrina con gli occhi talmente luccicanti che non le si poteva dire di no. Andiamo, Londie, rilassati. »
La donna prese il viso della bambina tra le mani, sbuffando. « Tesoro, guardami » le disse, prima di imitare una seconda volta il gesto con la mano chiusa a pugno. « “Mamma”! E’ semplice, vedi? »
Klaudia scoppiò a ridere, rivelando i dentini sporchi di cioccolata. « M-m! » fece, ma London stentava a credere che stesse provando ad imitare la parola “mamma”; piuttosto, somigliava soltanto a uno dei tanti versi insensati – o forse no, questo non poteva saperlo – che solo una bambina sorda di tre anni poteva fare.
Klaus ridacchiò. 
« E’ inutile, non sei una brava insegnante. »
« La fai facile tu » controbatté la moglie, recuperando un fazzoletto di stoffa per pulire la bocca della bimba. « Perché non apri una scuola per sordi, eh? »
L’ormai venticinquenne si ammorbidì leggermente; del resto, sapeva bene quanto London soffrisse nel parlare del problema di sua figlia. Era una bambina stupenda, certo, ma avrebbe dovuto scontare al loro posto gli errori di una vita. E il prezzo, a quanto pareva, era molto caro.
« London, ormai Klaudia è abbastanza grande per essere seguita da qualcuno. Non c’è bisogno che ti divida in quattro. » Avevano affrontato già altre volte quella questione, ma lei sembrava irremovibile sull’argomento, perché voleva istruire personalmente la figlia, almeno sul linguaggio. Non che lei conoscesse la lingua dei segni, ma aveva cercato per mari e monti quel libro che ormai portava con sé come un’ossessione, ovvero quello che raffigurava tutti i gesti basilari dei sordomuti.
« Non mi interessa » fece London. « Sai già come la penso. Prima devo insegnarle qualcosa io, poi potrà andare da tutti i maestri che vuoi. E’ una questione di principio. Sono sua madre, maledizione! Da che ricordi, sono stati i miei genitori a insegnarmi quasi ogni cosa, perché con lei dovrebbe essere diverso? »
« Non sarà diverso, infatti » replicò l’altro. « Ma ci vorrà più tempo. »
« Klaudia è una bambina molto intelligente » si ostinò la moglie. « Vero, amore? » chiese con un sorriso tirato, rivolgendosi alla diretta interessata, che la guardò senza capire.
« Hai ragione » concesse infine Klaus. « Non è colpa tua » aggiunse.
London spostò lo sguardo altrove. E di chi era la colpa? Si poteva stabilire? Scosse la testa, prendendo ad aiutare il marito ad apparecchiare la tavola. 
« Non c’entra avere colpa o meno. Il punto è che la nostra vita non sarà mai normale fino in fondo. »
Klaus le poggiò una mano sulla spalla, e con l’altra le accarezzò piano il viso. « E chi l’ha mai voluta, una vita normale? » chiese retoricamente.
 

*


L’acqua calda le scorreva sul corpo cancellando tutte le preoccupazioni. Scivolava via, sui suoi capelli, sulle braccia e sulle gambe, permettendole di rilassarsi e di abbandonare per un secondo tutto alle proprie spalle.
London reclinò la testa, lasciando che l’acqua della doccia le bagnasse il viso.
Era poco prima di mezzanotte; era rimasta tutto il tempo in camera con Klaudia perché lei aveva paura del buio e, quando la figlia finalmente si era addormentata, si era rintanata in quella pace solitaria prima di andare a letto.
London adorava la sensazione dell’acqua che scivoleva sulla propria pelle, la faceva sentire protetta, al sicuro, quasi come un abbraccio. E lei desiderava essere abbracciata, non perché fosse triste, bensì perché a volte era stanca di recitare la parte della ragazza orgogliosa e voleva soltanto ricevere un po’ di affetto. Non c’era nulla di male, ma per London Bridge era tutto più complicato. Non era mai stata brava a legare con le persone, e a venticinque anni adesso ne sentiva tutto il peso sulle spalle.
Nonostante ciò, comunque, le bastava avere la sua famiglia accanto. Sin da bambina era stata vezzeggiata, adulata e coccolata, e in quei momenti quasi sentiva la mancanza di una persona che la viziasse un po’, facendole credere di essere la regina suprema del suo mondo; tuttavia, adesso era il suo turno di dedicarsi a qualcun altro.
Lo era stato, precisamente, dal momento in cui Klaudia era stata concepita. Avrebbe dovuto metterselo bene in testa: lei prima di se stessa. Tuttavia, c’era sempre quella vocina insidiosa nella sua testa che pretendeva di essere ascoltata.
Si passò il bagnoschiuma sulle braccia e sulle spalle, cercando di rilassarsi.

« Se entro non mi meni, vero? » domandò una voce all’esterno del bagno.
London scosse la testa ridacchiando. 
« Puoi entrare, ma che ti meni non è da escludersi. »
Sentì Klaus aprire la porta e vide attraverso il vetro opaco la sua sagoma muoversi in direzione del lavandino. Il marito aprì il rubinetto, e probabilmente si lavò i denti, mentre lei continuava a stare ferma sotto il getto dell’acqua calda.
« Ci vuole tempo? » chiese lui.
London si decise, seppur a malincuore, a chiudere il getto e a uscire dalla doccia, dopo essersi strizzata i capelli zuppi d’acqua.
« Ho finito. Mi passi l’accappatoio? »
Klaus fece un sorriso obliquo. « Devo proprio? » disse, lasciando vagare maliziosamente gli occhi sul corpo snello della moglie, bagnato e tentatore.
L’altra alzò gli occhi al cielo. 
« Se non vuoi farmi morire di freddo, sì. »
« Conosco tanti altri modi per non morire di freddo » ribatté lui, recuperando l’accappatoio azzurrino, tuttavia senza passarglielo.
« Non fare il cretino, Klaus » protestò London, tendendo un braccio per sottrarre l’indumento dalle sue mani, ma Klaus le si avvicinò senza permetterle di strapparglielo; evitando le occhiatacce di lei, glielo poggiò sulle spalle personalmente.
« Così non morirai di freddo » disse, « ma posso guardarti lo stesso. »
London gli mise una mano sul petto, come monito, e gli lanciò uno sguardo a metà tra il serio e il provocatorio. « E’ così importante per te? »
« Cosa? » fece il ragazzo.
« Guardarmi » rispose lei. « Sembra che tu non ne possa fare a meno » aggiunse con una punta di orgoglio e supponenza.
Klaus infilò le mani sotto il suo accappatoio, prendendo ad accarezzarle lascivamente i morbidi fianchi. 
« E’ così » rivelò, posando leggermente le labbra sulla sua fronte.
London alzò d’istinto la testa, pur di baciarlo, ma l’altro si scostò di poco con un sorriso soddisfatto a ornargli il viso. 
« Sembra che anche tu non ne possa fare a meno » commentò, deciso a farglielo ammettere, almeno per una sola volta. Sarebbe stato un traguardo troppo grande persino per lui, quello si smuovere l’orgoglio di London, e infatti la ragazza non gliela diede vinta. Lasciò cadere l’accappatoio a terra senza remore, come se fosse stato un oggetto inutile, guardando insistentemente il marito negli occhi.
« Allora » gli domandò, « quali sono questi famigerati altri modi per combattere il freddo? »
« Potrei anche non dirteli » replicò Klaus, senza perdere quella maliziosa luce negli occhi scuri. « Ma come potrei, invece, abbandonare una dolce fanciulla al freddo e al gelo? »
London gli diede un leggero pugnetto sul braccio. « Ecco perché ti odio » ribatté, prima di tirarlo per la maglietta e baciarlo con lentezza, com’era solita fare quando aveva voglia di giocare con Klaus.
Il moro la spinse contro il muro, stanco delle provocazioni, e continuò a baciarla imperterritamente, come se fosse nato per essere l’unico a poterla sfiorare, toccare, accarezzare. Klaus non era mai stato possessivo, eppure su London rivendicava diversi diritti. Doveva essere sua, anche se non lo era mai stata. Doveva trattarla come si tratta una rosa appena colta e al contempo lasciare che lo pungesse con le sue spine.
London lo trasformava, semplicemente. Lo faceva impazzire.

« Adesso va meglio? » chiese con voce più roca, separandosi dolorosamente per un attimo dalle sue labbra. « O hai ancora freddo? »
La moglie, schiena contro il muro, rise maliziosamente. « Ancora un po’. »
Klaus non esitò a impadronirsi di nuovo della sua bocca famelicamente, tentando invano di sopprimere l’istinto. Era più forte di lui, non ci riusciva.
London, tuttavia, non si lasciava sopraffare con facilità e rispose con altrettanta veemenza. Come al solito, la loro era una guerra a chi ne sarebbe uscito sconfitto: a volte risultavano entrambi vincitori, o entrambi perdenti, ma non c’era mai disparità di risultato. Erano nati per combattersi e vincersi a vicenda, probabilmente.
Klaus si abbassò a baciarle il collo e le clavicole, facendole scendere un brivido lungo la schiena e, quando rialzò il viso, il ragazzo notò con piacere la sua espressione di desiderio crescente. 
« Se vuoi posso anche fermarmi » le disse all’orecchio, sfiorandole un lobo.
« Non dire stronzate » protestò London, mentre si ritrovava sempre più premuta contro la parete dal corpo dell’altro, fino a potersi aggrappare al suo bacino con le gambe. Klaus, tenendola così – in una scomoda quanto eccitante posizione –, la allontanò dal muro e si fece strada verso la camera da letto, ignorando il fatto che avesse ancora i capelli e la pelle bagnata.
Una volta aperta a tentoni la porta della stanza, adagiò la moglie sul materasso e fece per stendersi su di lei, ma London lo bloccò.
« Aspetta » sussurrò, facendolo semplicemente sedere accanto a sé. Il ragazzo non si oppose e, una volta seduto sul bordo del letto, lasciò che lei gli togliesse la maglietta, che finì lontano sul pavimento dove non avrebbe dato fastidio, e che gli accarezzasse le spalle delicatamente. Il tocco di London lo inebriava: sembrava sapere dove provava più piacere senza che lui glielo dicesse. Aveva mani piccole ma affusolate, con i palmi morbidi e caldi.
La ragazza prese a massaggiargli le spalle lentamente, poggiando e strofinando di tanto in tanto le labbra contro la sua pelle rovente – aveva sempre avuto la temperatura corporea un po’ sopra la media, ma forse in quel momento non c’entrava molto con il calore languido che lo stava attraversando –, tanto da fargli desiderare che quelle stesse labbra fossero altrove.

« Sta’ fermo » gli intimò sottovoce.
Klaus faticò ad obbedire, ma dopo qualche istante una punta di disagio si fece strada dentro di sé, abbandonando il desiderio per un attimo. Non era la prima volta, eppure in quel momento il fatto che London stesse fissando la sua schiena lo fece sentire uno schifo. Era inguardabile, del resto, piena di cicatrici orribili e portatrice del suo dolore.

« London » le disse, con un tono di voce più serio. « Smettila. »
La moglie rimase interdetta. « Ti dà fastidio? » domandò, interrompendo il massaggio.
« No… » rispose lui, temendo di essere stato frainteso. « Solo… non guardarmi. »
L’altra alzò un sopracciglio. « Mi spieghi come faccio a non guardarti? »
« Non intendevo quello » ribatté Klaus, voltando di poco il viso verso di lei. « Non voglio che tu veda questo spettacolo raccapricciante, lo sai » continuò, parlando tra i denti e tentando di alzarsi, ma London lo fermò trattenendolo per un braccio. Non disse niente, limitandosi a restare ferma, in ginocchio dietro di lui sul materasso.
« London… » insistette. La ragazza passò le dita su quella che le sembrava la cicatrice più lunga, esaminandola con sguardo attento – l’esatto contrario di quello che avrebbe voluto lui –; era liscia al tatto e andava dalle scapole alla zona lombare, sovrapponendosi ad altre cicatrici.
« Klaus, sta’ zitto » sussurrò London, come se fosse già stanca di quella conversazione. « Parli troppo. »
L’altro stirò le labbra in un’espressione rassegnata. « Lo so che è orribile. »
« Non importa, » disse la ragazza, « lasciati tutto alle spalle e pensa a me, adesso. Soltanto a me. »
Klaus le avrebbe tanto voluto dire che stava pensando soltanto a lei in quel momento, ma London si sporse di poco da sopra una sua spalla, baciandogli la guancia, e poi il collo, facendogli dimenticare ogni cosa che fosse diversa dalla sua bocca.
« D’accordo » replicò, voltandosi e catturando le sue labbra morbide ancora una volta. Si sentiva insaziabile: lo sapeva, non ne avrebbe mai avuto abbastanza di lei.  
 
London, probabilmente, quella notte si era messa in testa di poter giocare a proprio piacimento; non aveva messo in considerazione, tuttavia, il fatto che Klaus fosse della stessa opinione. Nessuno dei due sarebbe riuscito a dire quante volte avessero già fatto l’amore – o era ancora soltanto sesso? –, eppure non si erano fermati, abbandonandosi a quella che qualcuno avrebbe definito lussuria; qualcuno di molto superficiale, però. La sottile differenza quasi non si notava più, avevano passato così tante notti insieme che probabilmente era impossibile ricordare quando il confine tra sesso e amore fosse stato valicato. Sempre se era già successo. Forse ci sarebbero voluti anni, o forse era avvenuto sin dall’inizio.
Klaus, in realtà, era convinto che non sarebbe cambiato poi molto: gli bastava che London fosse lì, in quel momento, accanto a lui. Cosa importava di quello che erano stati o di ciò che sarebbero diventati?
Niente, ecco cosa. Era solo un pensiero sfocato, nella sua mente, e non vi avrebbe dato importanza almeno finché non sarebbe sorto il sole.

« Klaus? » lo chiamò, con la testa appoggiata sul suo petto e le braccia avvolte intorno al suo busto; lui le stava accarezzando distrattamente i capelli, intrecciandoli tra le dita.
« Cosa c’è? »
« Ci pensi mai, al passato? » chiese la ragazza, guardandolo di sottecchi.
Quella domanda calzava a pennello, eppure Klaus ne rimase spiazzato. Sì che ci pensava, sì che si rendeva conto di quanto gli anni passati ad odiarsi fossero stati inutili, sì che l’avrebbe volentieri cancellato.

« A volte » rispose, continuando a giocare con i suoi lunghi capelli bianchi.
London chiuse gli occhi, rilassata. 
« E… se le cose fossero andate diversamente? »
« Diversamente come? »
« Se tu ed io… » cominciò, prima di bloccarsi. Riaprì gli occhi.
« Se tu ed io? » la incitò a continuare lui.
« Hai sentito? » domandò London, corrugando le sopracciglia.
Klaus rimase interdetto. 
« Sentito cosa? » fece, provando ad ascoltare il silenzio delle quattro del mattino. Non gli parve di cogliere nessun suono sospetto.
La ragazza si alzò a sedere e l’altro sembrò dispiacersene, ma lei non vi badò. Si scostò velocemente le coperte dal corpo e indossò una vestaglia, andando ad aprire la porta.
London, sebbene l’avesse messo in considerazione, sobbalzò nel vedere Klaudia sull’uscio della porta a piangere, stringendo il suo peluche a forma di orsacchiotto.

« Amore! » esclamò, precipitandosi su di lei. La prese immediatamente in braccio, stringendola a sé e lasciando che la piccola affondasse il viso nella sua spalla.
Klaus si mise seduto a sua volta, vagamente preoccupato. 
« Cos’è successo? »
« Niente, credo » rispose London, cullando la bambina che ancora piangeva. « Ha paura del buio » spiegò. « Vestiti, avanti, la faccio mettere qui vicino a noi. »
Il ragazzo non se lo fece ripetere due volte, e si rimise il pigiama con una vaga aria delusa.
Uno spiacevole inconveniente, si disse, prendendo Klaudia dalle braccia della moglie, che intanto aveva ugualmente preso a rivestirsi. La bambina aveva smesso di piangere dopo poco, e ora lo guardava con gli occhi grigio-verdi spalancati.

« Apa! » disse, giocherellando con i suoi capelli scuri.
Klaus per un attimo restò stupito. 
« Ha detto “papà”? » chiese alla moglie.
London scosse la testa con amarezza. 
« Probabilmente no. Sarà solo uno dei suoi vocaboli immaginari. »
L’altro posò un bacio sulla fronte della piccola, facendola stendere sotto le coperte del letto matrimoniale. « Nella sua testolina bianca ci deve essere un mondo fantastico, pieno di suoni, parole… »
« A volte mi domando in che lingua pensa » lo interruppe lei, stendendosi accanto alla figlia. Klaus la imitò, lasciando che Klaudia lo abbracciasse ridendo. Era stupendo come riuscisse a mettergli il buonumore con una semplice risata cristallina.
London sorrise a quella scena. Nonostante fosse figlia di Ben, Klaudia si era affezionata moltissimo al padre adottivo – o meglio, illegittimo – e non si faceva scrupoli nel dimostrarlo ogni volta che poteva, persino senza le parole.

« Non lo so, London » replicò il ragazzo, sfiorando con le dita una guancia della bambina. « Ma è perfetta anche così. »
 

*


Quando si svegliò doveva essere circa mezzogiorno.
Guardò al suo fianco e, notando che London era ancora lì, al di là di Klaudia, gli scappò un sorrisetto. 
« Quando London Bridge ha mai dormito tanto? » le domandò sarcastico, scuotendola piano per un braccio.
London mugugnò qualcosa, voltandosi dall'altro lato. 
« Lasciami in pace » biascicò con il viso quasi affondato nel cuscino e la voce impastata dalla dormita.
Quanto tempo era rimasto sveglio, quella notte? Klaus ricordava di essersi addormentato all'alba.

« Lo sai che è quasi mezzogiorno? » le chiese.
London controvoglia si voltò verso di lui, gli occhi ancora semichiusi. 
« Dannazione, Klaus. Frequentarti troppo fa male alla salute. »
A Klaus venne da ridere, e scherzò: « Nessuno ti ha mai obbligato a frequentarmi, raggio di sole»
L'altra gli diede un leggero - leggero? – schiaffo sull’avambraccio, ma poi scoppiò a ridere anche lei, e per quale motivo neanche lo sapeva. « Sappi che ti odio ancora. »
« Lo so » rispose Klaus, prendendole una mano. « Me l'hai detto così tante volte che ho perso il conto. »
« E tu? » gli domandò lei di rimando. « Mi odi? »
« Non sai quanto » rispose, guardandola dritto negli occhi e intrecciando le loro dita.
London sorrise.
Era domenica mattina. In realtà, forse, era domenica mattina tutti i giorni.
Klaus pensò che avrebbero dovuto continuare a vivere così la loro vita, senza guardare al passato, senza guardare al futuro. Come in una fotografia. Solo in questo modo si sarebbero fermati a saggiare il presente, almeno per avere il tempo di capire quanto tutto stesse andando finalmente per il verso giusto.
Nulla in quel momento gli avrebbe impedito di ottenere anche un solo, singolo, meritato granello di felicità.

 














   
 
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