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Autore: Fragolina84    21/01/2014    0 recensioni
Megatron ha un nuovo piano: impadronitosi di un'immensa fonte di Energon, sta cercando di distruggere tutto quello rimasto. E ha tra le mani un'arma potente, un virus in grado di piegare anche gli Autobots.
Per combatterlo serviranno coraggio, sacrificio e un'antica Reliquia aliena.
Genere: Avventura, Azione, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bumblebee, Nuovo personaggio, Optimus Prime
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Trovare un alloggio per Destiny si rivelò più difficile del previsto. Non c’erano missioni in corso quindi tutti gli uomini erano alla base Nest.
Quando Destiny ripeté che poteva benissimo dormire con Heaven, Lennox prese la sua decisione. «Puoi venire a stare da me. Il mio appartamento è più grande degli altri, quindi non ci saranno problemi».
«Sicuro?» chiese lei e quando William annuì, lo ringraziò.
L’appartamento del colonnello Lennox era al terzo piano dell’edificio. La porta d’ingresso si apriva direttamente sul salotto. Da un lato c’era un piccolo cucinotto mentre in mezzo alla sala c’era un grande divano, proprio davanti ad una TV maxischermo che, per quello che poté notare Destiny, era l’unico lusso della stanza.
Non c’era tavolo, ma c’erano tre sgabelli alti vicino al bancone che fungeva da divisorio tra la zona giorno e la cucina. La parete di fronte all’ingresso era occupata da un’enorme vetrata.
«Eccoci qui» disse Lennox. «Mettiti a tuo agio e fa come se fossi a casa tua».
Destiny si avvicinò alla finestra e sbirciò fuori. La vetrata non dava sull’esterno, ma sull’hangar degli Autobots. Da lì poté vedere le due Camaro, quella rossa e quella gialla, parcheggiate una vicino all’altra e il resto degli Autobots ognuno nel suo box.
«Le piace avere le cose sotto controllo, eh colonnello?» chiese la ragazza e lui le si avvicinò.
«È una necessità a volte, purtroppo». Poi le prese la borsa. «Puoi chiamarmi William comunque. Vieni».
Accanto alla cucina si apriva una porta che dava sulla zona notte. C’era una sola camera da letto con il letto matrimoniale e un piccolo bagno.
«Ti cedo la mia stanza, io dormirò sul divano» disse, ma la ragazza scosse la testa.
«Assolutamente no! Sul divano dormo io e su questo non si discute».
Lui rise del piglio autoritario con cui Destiny aveva pronunciato la frase. «Credimi, ho dormito in posti peggiori».
Ma Destiny fu irremovibile, sicché lui alla fine cedette. «Hai fame?» chiese e la donna parve accorgersi solo in quel momento di essere veramente affamata. Quindi, mentre lei faceva una doccia e si metteva comoda, William preparò degli hot dog e un po’ di insalata.
«Non è proprio un pasto da gourmet» si scusò William quando lei lo raggiunse dopo la doccia, «ma purtroppo non ho altro da offrire. Non mi aspettavo di avere ospiti».
Destiny rise e disse che la cena andava benissimo.
Terminata la cena lei insistette per lavare i piatti e quando ebbe finito lui le diede un cuscino e una coperta leggera e le augurò la buonanotte.
La ragazza, stremata, si addormentò subito. William invece rimase sveglio a lungo a fissare il soffitto. Ripensò agli eventi di quella sera, fin dall’arrivo di Destiny. Le informazioni che Destiny aveva condiviso con loro erano davvero importanti e sicuramente meritavano di essere analizzate con la massima cura.
Lo preoccupava soprattutto il discorso del virus. Gli Autobots erano diventati per lui e i suoi uomini una seconda famiglia. Più che compagni d’armi erano amici ed era preoccupato che potessero rimanere colpiti in maniera irrimediabile.
Da quando avevano cominciato a lavorare in sinergia avevano sputato sangue e olio motore insieme. Lui comandava gli uomini, Optimus gli Autobots, ma ormai avevano raggiunto un livello tale di collaborazione che non servivano nemmeno le parole.
E poi c’era Destiny. Non poteva negare che la ragazza l’aveva colpito come solo un’altra donna aveva fatto nel corso della sua vita. Si voltò sul fianco e nella luce che filtrava dalla finestra osservò la foto che stava sul suo comodino.
Ritraeva lui stesso con sua moglie Sarah e sua figlia Annie di tre anni e mezzo. Risaliva all’estate appena trascorsa e li vedeva seduti su una coperta per un picnic a Central Park. Era stata l’ultima vacanza che Lennox si era concesso con la sua famiglia, prima che i Decepticons cominciassero quella serie di strani attacchi. Prima che attaccassero Baltimora, dove abitava la sua famiglia.
Baltimora era ad appena un’ora da Washington e Sarah aveva acconsentito a trasferirsi lì per essergli più vicina. E dato che Lennox aveva a disposizione gli Autobots era in grado di coprire quella distanza in metà tempo.
La sera che il sistema aveva segnalato la presenza dei Decepticons a Baltimora, un vento gelido gli era corso giù per la schiena. In un quarto d’ora dalla segnalazione erano partiti e in venticinque minuti erano a Baltimora.
Ma era già troppo tardi. La città era già semidistrutta, con gli edifici dati alle fiamme e gruppi sparuti di civili che si aggiravano tra le macerie. C’era stata una piccola scaramuccia con alcuni Decepticons che erano tuttavia riusciti a sfuggire all’ira di Optimus e dei suoi Autobots.
Lennox aveva quindi lasciato il comando ad un altro ufficiale e aveva chiesto a Ironhide di portarlo a casa sua. Aveva guardato preoccupato dal finestrino mentre si avvicinavano al luogo dove Sarah abitava con la madre: sembrava che la devastazione più grande fosse stata fatta in quel luogo.
Quando arrivarono nei pressi della casa, Lennox gemette. L’abitazione non c’era più: c’erano solo macerie fumanti. Era sceso precipitosamente dal pick-up e urlando i nomi di Sarah e Annie aveva cominciato a scavare a mani nude.
Ironhide si era trasformato e l’aveva aiutato, scostando con delicatezza i detriti più pesanti. Ma quando le avevano trovate, era troppo tardi. Annie stava fra le braccia della madre: probabilmente Sarah aveva cercato di fuggire prima che uno dei Decepticons facesse saltare la casa.
Sarah aveva la parte inferiore del corpo schiacciata sotto una grossa trave mentre la bambina aveva il collo torto ad un angolazione impossibile. Ironhide assistette impotente mentre Lennox, singhiozzando, cercava di pulire il sangue ormai secco che era uscito dall’angolo della bocca di Sarah. Poi non resistette più e cercò di far spostare Lennox, ma questi gli si rivoltò contro.
Alla fine, Ironhide aveva dovuto afferrarlo per la vita e spostarlo di peso.
«Ora basta, William. Un uomo non dovrebbe mai vedere cose del genere» mormorò, mentre Lennox si divincolava.
«Lasciami, Ironhide. Devo andare da loro. Devo…» ma non riuscì a proseguire e si accasciò nella mano metallica del cyborg, piangendo disperato.
«Resta qui» disse Ironhide, mettendolo a terra. «Le recupero io».
Ironhide era tornato fra le macerie della casa. Aveva frugato in giro trovando alcune coperte e le aveva stese a terra. Con estrema delicatezza aveva tolto di mezzo la trave che bloccava Sarah e sollevato i corpi ormai freddi di lei e della bambina. Poi li aveva avvolti nelle coperte ed era tornato da Lennox che sedeva a terra, su quello che era stato il prato della casa.
«Dobbiamo andare, ora» disse Ironhide, riprendendo la forma del GMC. Lennox aveva quindi caricato i corpi della sua famiglia sul cassone e si era seduto accanto a quei miseri resti. Ironhide era ripartito, cercando di guidare con cautela, evitando buche e scossoni.
Quando si era ricongiunto con gli altri Autobots, Prime aveva intuito subito e aveva ordinato ai suoi di fare da scorta al veicolo che trasportava Lennox. Rientrati a Washington, organizzare il funerale era stato cosa di qualche giorno e alle esequie avevano partecipato solo pochi intimi: alcuni degli amici più cari di Lennox e tutti gli Autobots della base Nest.
Da quel giorno, Lennox si era buttato nel proprio lavoro senza concedersi tregua, probabilmente per scappare a quei ricordi che tuttavia disturbavano ancora i suoi sonni.
 E ora, appena un mese dopo quella tragedia che l’aveva quasi annientato, sentiva di provare qualcosa per un ragazza dagli occhi neri che aveva conosciuto da non più di qualche ora. E si vergognava terribilmente di ciò che sentiva.
«Mi dispiace» sussurrò alla foto e il silenzio che seguì gli pesò sull’anima.
Erano le tre e mezza quando finalmente il sonno vinse la sua battaglia e appena due ore più tardi la sveglia lo ridestò. Si alzò, fece la doccia e si preparò per scendere.
Quando entrò in salotto, sbirciò cautamente il divano. Destiny dormiva sul fianco sinistro, con il braccio piegato sotto il cuscino. Indossava canottiera e shorts e la coperta era scivolata a terra, scoprendo la pelle perfettamente abbronzata delle gambe nude.
Con molta delicatezza, William raccolse la coperta e gliela drappeggiò addosso. La ragazza sospirò, ma non si svegliò.
Diede un’occhiata dalla finestra: Heaven era ancora nel suo box, ma Bumblebee non c’era più, probabilmente impegnato nel suo turno di ronda.
Lennox decise di fare colazione alla mensa, per non disturbare Destiny che dormiva. Le lasciò un biglietto chiedendole di raggiungerlo al centro di comando non appena fosse pronta e scese. Dopo aver fatto colazione raggiunse Heaven.
«Destiny sta ancora dormendo e non ho voluto svegliarla» spiegò all’Autobot che fece lampeggiare i fari per segnalare che aveva capito.
Poi uscì per controllare la situazione all’esterno. La base si stava svegliando in quei momenti e riprendeva il proprio normale assetto. Ratchet e Bee stavano tornando dalla ronda. La Camaro salutò Lennox con un allegro sfarfallio di luci, prima di precipitarsi all’interno dell’hangar, ignorando bellamente i cartelli che ricordavano agli Autobots di muoversi a passo d’uomo.
«Ma che gli prende?» chiese Lennox a Ratchet che si era fermato all’esterno.
«A Bee?» chiese Ratchet. «Niente di che. Ha solo perso la testa per una Camaro rossa».
Lennox rise. «Quelle due hanno portato un bel po’ di scompiglio in questa base» disse, riferendosi a Heaven e Destiny.
Dato che erano rimasti soli, Ratchet si accucciò a fianco dell’umano. «Non rimproverarti per ciò che senti, William». L’uomo tacque e Ratchet proseguì. «È più che normale che tu ti senta attratto da lei».
«Non ti si può nascondere nulla, eh?».
L’Autobot si strinse nelle spalle e sorrise. Ma poi tornò subito serio. «Non hai ancora quarant’anni e sei già vedovo. Non costringerti ad una vita di solitudine solo perché credi che così sia giusto nei confronti di Sarah».
Lennox si coprì il viso con una mano. «Mio Dio, è passato appena un mese. L’amavo davvero tanto se riesco a consolarmi dopo appena quattro settimane» disse mestamente.
«Non siamo noi a decidere ciò che il destino ci mette davanti né in che tempi. Il ricordo di Sarah e Annie non ti abbandonerà mai, questo è certo. Ma non c’è motivo per il quale tu non possa rifarti una vita. Quella ragazza ha un nome importante e non credo che sia capitata per caso nella tua vita».
«Non lo so» disse Lennox, scuotendo la testa. «Sono confuso».
«È normale che tu lo sia». Ratchet si alzò e fece per rientrare nella base. «Ma, se può aiutarti, sappi che la ragazza è rimasta colpita da te almeno quanto tu da lei».
Ratchet non attese risposta ed entrò nel deposito. Lennox lo seguì lentamente, mentre le ultime parole del cyborg gli turbinavano in testa e gliela facevano sentire leggera come se fosse sbronzo. Quando passò davanti alla postazione di Ratchet, gli batté affettuosamente una mano sul muso.
«Grazie, amico» mormorò, e Ratchet fece lampeggiare le luci sul tetto.
Uno dei suoi uomini gli si avvicinò. «Colonnello, l’agente Simmons è nel suo ufficio».
«Grazie, Anton».
Quando lo raggiunse, Simmons si alzò in piedi.
«Bentornato, Seymour!» lo salutò Lennox. Simmons era stato richiamato in servizio non appena i Decepticons erano tornati. «Ti trovo bene».
Sebbene un po’ di grigio colorasse la chioma nera dell’agente Simmons, Lennox doveva ammettere che non l’aveva mai visto così in forma.
«Sai bene che questo lavoro è la mia vita» proclamò pomposamente Seymour. «Nonostante mi abbiate affibbiato questi due perditempo» brontolò, tirando un calcio che mandò il suo piede a sbattere contro la scrivania di Lennox.
«Non siamo perditempo».
L’obiezione era arrivata da un piccolo cyborg blu con gli occhi rossi.
«E cosa sareste?» domandò Simmons.
«Siamo Autobots» proruppe il secondo cyborg, ancora più piccolo, con una corona di indisciplinati capelli bianchi e un occhio più grande dell’altro.
«Wheelie, Brains» li salutò Lennox ed entrambi gli fecero il saluto militare.
«Non siete Autobots, siete Decepticons disertori» borbottò Simmons.
«Non è colpa nostra se siamo nati Decepticons» obiettò Brains. «L’importante è che abbiamo capito che non è con i cattivi che vogliamo stare».
«Ben detto, fratello!» esclamò Wheelie e si diedero il cinque.
Seymour tentò di nuovo di prenderli a calci, ma entrambi riuscirono ad evitarlo.
«Ok, ora basta» intervenne William. «Avete novità per me?»
Seymour si fece serio. «Purtroppo no. Sembra che i Decepticons siano interessati a distruggere l’Energon ma non siamo riusciti a capire perché».
Proprio in quell’istante, Lennox vide Destiny fuori dalla porta di vetro del suo ufficio e le fece cenno di entrare. Simmons si voltò e sgranò tanto d’occhi.
«Seymour, lascia che ti presenti Destiny. Destiny, questo è l’agente speciale Seymour Simmons, della nostra Intelligence».
Poi indicò i due piccoli Autobot e glieli presentò.
«Wow!» esplose Wheelie e diede di gomito a Brains. «Vedi che ho ragione quando dico che stare con gli Autobots è meglio? Dimmi, hai mai visto donne così belle tra i Decepticons?»
Brains scosse il capo e un po’ di fumo gli uscì dalla testa. Destiny ridacchiò.
Simmons la squadrò: Destiny indossava una maglietta bianca con scollo a V, i jeans e un paio di scarpe da ginnastica.
«Una criminale, senza dubbio» bofonchiò Simmons dopo averle stretto la mano.
«Ehi!» protestò la ragazza. «Moderi le parole, non mi conosce nemmeno».
«Non ti conosco, ma sei gnocca. E questo per me è sufficiente: gnocca uguale criminale».
Destiny non capiva e cercò lo sguardo di Lennox per chiedergli aiuto.
«Lascia stare, ti spiego dopo». Quindi si rivolse a Simmons. «La ragazza ha informazioni nuove».
Quando ebbe ascoltato la storia di Destiny, Simmons rimase in silenzio per un po’. «È una brutta faccenda» disse infine.
«Già. Voglio che torniate là fuori con queste nuove informazioni e cerchiate di saperne di più. Soprattutto del virus. È fondamentale capirci qualcosa per essere pronti a proteggere gli Autobots».
Simmons si alzò all’improvviso, facendo sobbalzare Destiny.
«D’accordo, puoi contare su di noi» esclamò e con passo marziale raggiunse la porta.
«Muoviamoci, teste di transistor» disse rivolto a Wheelie e Brains che salutarono Destiny e Lennox e si affrettarono ad uscire.
Quando rimasero soli, Destiny scosse la testa. «Quel Simmons mi sembra totalmente svalvolato».
Lennox scoppiò a ridere. «Sì, può dare questa impressione. Ma è bravo nel suo lavoro e farebbe di tutto per contrastare i Decepticons e proteggere gli Autobots».
Stava ancora ridendo quando alzò gli occhi e la risata gli morì in gola. Charlotte Mearing stava raggiungendo il suo ufficio a passo di carica.
«Che succede?» chiese Destiny notando la sua espressione.
«Niente. Lascia parlare me».
La donna entrò nell’ufficio senza bussare. Indossava un vestito di sartoria e un paio di scarpe sportive rosse che stonavano con l’abbigliamento formale. I capelli biondi erano raccolti in una coda e gli occhi azzurri saettarono per un attimo su Destiny, prima di fermarsi su Lennox.
Era seguita da un’orientale con gli occhiali e una quantità di borse appesa alle spalle esili.
«Che novità è questa, colonnello?» chiese.
«Buongiorno, direttore. Destiny, voglio presentarti il direttore dell’Intelligence nazionale Charlotte Mearing».
Destiny tese la mano ma l’altra ignorò il gesto. «Da quando in qua forniamo asilo a tutti gli Autobots che si presentano ai nostri cancelli?» inveì invece.
Lennox capì che doveva essere stata informata dell’arrivo di Heaven. «Si riferisce alla Camaro rossa? Si chiama Heaven, è l’auto di Destiny».
«Non mi interessa!» tuonò la Mearing. «Questa è una base segreta, non possiamo far entrare cani e porci!»
«Cani e porci?» ripeté Destiny. «Siamo venute qui per…» ma non riuscì a proseguire perché la bionda la interruppe.
«Non mi pare di averla interpellata, signorina».
Destiny indietreggiò come se l’avessero colpita, ma si riprese in fretta. Lanciò uno sguardo verso Lennox che sembrava sconvolto quanto lei. Senza dire una parola girò sui tacchi e uscì.
«Destiny!» la chiamò il colonnello, ma lei non si voltò.
Heaven non era nell’area dove aveva dormito. Destiny si guardò intorno e la vide trasformata accanto agli altri Autobots. Sembravano impegnati in una specie di addestramento con gli umani a cui lei non stava comunque prendendo parte.
«Heaven!» urlò e l’Autobot si girò di scatto. «Ce ne andiamo».
Lennox l’aveva raggiunta e la prese per un braccio, ma la ragazza si divincolò.
«Aspetta, Destiny! Devi scusare il direttore Mearing. Ma quando le avrai parlato…»
«Hai sentito, no? Non sono stata interpellata».
Lennox lasciò cadere le braccia lungo i fianchi e Destiny si voltò verso Heaven.
«Muoviti!» sbottò, e il cyborg riprese le sembianze della Camaro.
«Non andare» mormorò Bumblebee, ma la ragazza lo ignorò.
«Addio, colonnello Lennox» sussurrò con voce spezzata e salì in macchina.
Partì sgommando e lasciando neri segni di gomma sul pavimento. Quando arrivò al portone del deposito guidò l’auto in una stretta sbandata controllata e uscì. Le guardie si affrettarono ad aprire i cancelli e la ragazza si lanciò in strada senza nemmeno controllare il traffico, facendo fischiare le gomme sull’asfalto, e beccandosi una serie di coloriti insulti da un paio di automobilisti che avevano frenato di colpo per evitarla.
Lacrime di rabbia e frustrazione scendevano dai suoi occhi e lei le asciugò con il dorso della mano. Si fermò poco fuori città, in un motel.
Quando era partita da Città del Messico non aveva avuto molto tempo per fare i bagagli, quindi aveva solo una piccola borsa con qualche cambio. Purtroppo nella fretta di partire dal Nest non l’aveva recuperata, quindi il giubbotto di pelle, gli stivali e il resto delle sue cose erano rimasti nell’appartamento di Lennox. Aveva solo il suo zainetto che conteneva il cellulare, il portafoglio e pochi effetti personali.
Per fortuna sull’altro lato della strada rispetto al motel c’era un piccolo centro commerciale. Comprò qualche capo di biancheria e qualche maglietta e si rifugiò nel motel. Heaven era chiusa in un silenzio offeso, ma Destiny non aveva voglia di curarsene.
Quando scese il buio non aveva ancora deciso cosa fare. Fece una doccia e ordinò una pizza che le consegnarono in camera. Poi si mise a letto, ma si rigirò inquieta fra le lenzuola per un bel po’.
  
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