A
radioactive, che mi supporta sempre
anche
quando shippo cose random.
La pioggia scrosciava
con un dolce suono regolare e continuo, accarezzando la lapide chiara che aveva
davanti. Era rimasto seduto lì per un tempo indefinito – ma comunque
incredibilmente lungo – ad osservare come le piccole stille si incastravano in
quelle lettere, cesellate nella pietra fredda – non c’è più, è finita. Finita davvero.
Si strinse appena nelle
spalle rabbrividendo, forse per via degli abiti inzuppati, o forse per l’idea
di quella mancanza che da un lato lo rassicurava, ma che gli lasciava comunque
quel senso di amaro in bocca. Sospirò chinando il capo, lasciando che le gocce
d’acqua gli scivolassero sul cappuccio che ora non avrebbe più dovuto coprire i
lividi delle botte, ma solo quelle lacrime che si incastravano impreziosendogli le ciglia
bionde, rifiutandosi di scivolare sulle sue guance pallide.
Si sentiva stupido:
stava piangendo perché la ragione per cui la sua vita faceva schifo non c’era
più. Ma forse era giusto così, forse non si può odiare così tanto l’uomo che ti
ha messo al mondo da non versare lacrime alla sua morte. O più probabilmente
quello era solo uno sfogo, il manifestarsi della sua consapevolezza che era
finita, che non sarebbe mai più stato costretto a proteggere Karen da quella
pattumiera che era diventata la loro esistenza – la loro famiglia.
Si crogiolò in quel
pensiero per alcuni minuti, fissando l’erba sotto i suoi piedi con lo sguardo
perso e smarrito, quando ad un tratto la pioggia smise di colpirgli la schiena
e il capo, continuando però la sua lenta discesa – riusciva a sentirla mentre
picchiava sull’ombrello che ora lo riparava, sussurrandogli che la pioggia non
c’era più. È finita – aveva
mormorato, mentre il tocco dolce e leggero di una mano sulla spalla lo
rassicurava, dicendogli piano che non c’era più nemmeno suo padre.
Così come l’alcool lo
aveva portato a inveire contro sua moglie e i suoi figli, così – allo stesso
modo – lo aveva portato via da loro, lasciando comunque un intenso vuoto da
colmare. Era lui l’uomo di casa, adesso.
Percepiva la presenza di
Stan accanto a lui: la sua mano sulla spalla,
l’ombrello aperto sopra le loro teste… ma era come se
fosse lontano anni luce da lui, da quella pietra sepolcrale che sembrava
ricordargli che lui non era tanto diverso da quell’uomo, e che nulla sarebbe
cambiato ora che lui non c’era più.
«Kenny, ti ammalerai se
resti qui…» lo sentì dire, ma la voce gli arrivò distante,
come ovattata dal risuonare incessante di pensieri che gli riempivano la testa. Eppure sapeva che aveva ragione: era sempre stato di salute cagionevole –
all’ospedale avrebbero dovuto dargli un abbonamento o una tessera punti.
Non rispose, Kenny, si limitò
a girarsi verso di lui, a ricambiare lo sguardo di quegli occhi blu e profondi
come l’oceano che aveva visto solo alla televisione, nei film e nei libri di
Geografia. Non avrebbe voluto farsi vedere in quello stato da lui, ma non era
la prima volta che Stan lo vedeva piangere e, anche
se in quel momento desiderava chiudersi ermeticamente in quel suo cappuccio e
sparire, lasciò che l’altro lo guardasse in tutta la sua fragilità, spogliato
da quella barriera che lo proteggeva, nascondendo le sue emozioni al mondo.
Crollò sulla spalla di quello che per lui era sempre stato un amico, come un
ramoscello piegato dallo sferzare del vento, pronto a spezzarsi da un momento
all’altro. Perché prima o poi si sarebbe rotto anche lui, e lo sapevano
entrambi: quello stile di vita lo stava facendo a pezzi, lentamente ed
inesorabilmente lo corrodeva e – presto o tardi – sarebbero rimaste solo le
ossa, le ceneri di quello che sarebbe potuto essere Kenneth McCormick.
Lasciò che le braccia di
Stan lo scaldassero e riparassero, come una campana
di vetro fa con i fiori durante l’inverno. Perché era lui, il suo rifugio,
l’unico che si fosse mai preoccupato dello schifo in cui era stato
ineluttabilmente trascinato – contro la sua volontà, perché se avesse potuto
scegliere di essere qualcun altro lo avrebbe fatto, avrebbe smesso di essere
Kenny e si sarebbe preso la vita di qualcuno che non fosse lui: una vita più
facile.
Non sapeva dire con
certezza da quanto e quando Stan era diventato il suo
luogo sicuro, se era stato quando si era presentato a casa sua permettendogli
di vedere gli ematomi delle botte, oppure quando lo ospitava a cena,
permettendogli di fuggire solo per qualche ora da quell’atmosfera stantia che
regnava sovrana in casa sua. Non lo sapeva, ma ricordava la prima volta che
avevano oltrepassato il limite, il giorno in cui le sue labbra avevano sfiorato
istintivamente quelle morbide di Stan, portandoli al
di là della semplice amicizia che dicevano di avere. Ma questo Kenny non lo
aveva capito, e faticava a comprenderlo pure in quel momento, mentre il suo
corpo si stringeva in quell’abbraccio e le lacrime – prima ingarbugliate,
intrappolate – si facevano strada sulle sue guance, costellate da quelle
efelidi che non se n’erano andate con l’avanzare degli anni.
Non lo aveva mai capito
l’amore, non aveva mai compreso a fondo il suo significato. Ma la colpa non era
sua e della sua fissazione per il sesso, era la famiglia che lo aveva portato
ad una visione distorta di questo sentimento. Così, per lui, l’amore era sempre
stato una cosa prettamente materiale, fondata principalmente – e forse
unicamente – sul piano fisico.
Pensava di amare Stan, ma perché sentiva di volerlo. E lo amava davvero, lo
amava male, totalmente e tragicamente, ma lo faceva inconsapevolmente, senza
sapere di amarlo.
Strinse convulsamente il
cappotto di Stan fra le dita, lo fece nell’istante in
cui sentì la mano del ragazzo abbassargli il cappuccio per poi naufragare in
quelle ciocche bionde e spettinate. Era stato un gesto lento, un movimento che
indicava l’inutilità di quell’indumento: non gli serviva più, non doveva più
nascondere niente.
Sollevò il capo
incrociando di nuovo quelle iridi oltremare, specchiandosi in quello sguardo – non
servivano parole, entrambi sapevano che non c’era nulla da dire. Rimasero così
per qualche secondo: gli occhi di uno puntati in quelli dell’altro – e quando
Kenny chinò il capo annullando quel contatto visivo, le dita di Stan gli sfiorarono il mento, costringendolo a guardarlo, a
mostrare quelle iridi celesti macchiate dal pianto.
«Va tutto bene…» – fu un
sussurro, un soffio di vento. Non era nemmeno certo che Stan
avesse davvero parlato, magari se l’era solo immaginato, esattamente come si
era figurato tutto il resto – compresa la voce di suo padre, quella che gli
ripeteva che era come lui, che sarebbe diventato anche lui così.
«Va tutto bene» gli fece
eco lui prima di poggiare le labbra sulle sue in cerca di conforto, sommerso da
quella cupola che lo difendeva dalle intemperie – da quell’amore difettoso che
lo teneva insieme, impedendogli di sgretolarsi fra quelle braccia.
“Ciò che il padre ha taciuto,
prende parola nel figlio;
e
spesso ho trovato che il figlio altro non era, se non il segreto denudato del
padre.
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Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra |
• NdA;
Innanzitutto: buongiorgio.
Capita raramente che io mi inabissi in nuovi fandom,
ma oramai sono qui e devo spiegare il perché di tante cose. Inizio dicendo che
avrei voluto fare le note iniziali per evitare che qualcuno mi linciasse, ma
non volevo passare per quella che si giustifica dicendo che è la sua prima
storia in questo fandom, quindi probabilmente se fa
schifo è per quello. No, non sono il tipo.
Volevo dire che è tutta Licenza Poetica, perché io non ho idea di come
siano diventati verso i diciotto anni questi esseri, e che io me li sono
figurata così ricostruendo un po’ i vari trascorsi delle loro vite. In più ho
notato che non è una coppia molto shippata, forse
(probabilmente) per via di Stan e Wendy,
ma io mi sono innamorata subito di questo pairing e
non posso fare a meno di urlare come una pazza isterica – perdonatemi, se
potete.
Non lo so, ecco. Spero solo che non sia un totale disastro, ecco tutto.
Ho questo brutto vizio di umanizzare i personaggi, facendo di tutto per
renderli verosimili, e quindi ho preso Stan e Kenny e
li ho spogliati del fatto che siano dentro un cartone animato, facendo emergere
quello che – secondo me – sarebbero se fossero esseri umani realmente
esistenti.
Probabilmente sono andata OOC – di sicuro, in realtà – , ma come ho già
detto: sono grandi, non hanno più otto anni, e sebbene certe cose non cambino
mai, io ho provato a smontarli e rimontarli sui diciotto anni.
Nonostante questo mio OOC che io ritengo motivato, ho trovato giusto
indicarlo lo stesso. Dopotutto siamo in una “What if?” perché – come ho già spiegato – non so come finiranno
da grandi, e perché Stan non sta più con Wendy. Non lo so, sono confusa dai miei stessi avvertimenti,
illuminatemi voi! ;A;
Per quanto riguarda la coppia in sé: io li vedo molto reverse. Entrambi
hanno le loro debolezze, ed è giusto mostrare entrambe – questa volta è toccata
a Kenny, ma la prossima volta (se ci sarà una prossima volta) toccherà a Stanley,
già.
Diciamo che di tutto questo delirio introspettivo su Kenny salverei
solo il bellissimo banner che – naturalmente – non ho fatto io.
Niente, dovrei aver concluso con le mie spiegazioni senza senso, se
volete insultarmi o sputarmi: fatelo pure, sono qui.
Alla prossima (se ci sarà). ~
~yingsu.
ps. Il banner appartiene a radioactive
che ringrazio per la grafica e il betaggio, e anche
per avermi spronata a lanciarmi nella scrittura di questa shot
che – diciamocelo – è stata un parto plurigemellare. ~
Grazie mille. ♡