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Autore: Ellie_x3    27/01/2014    0 recensioni
Quando i miei cugini, che ora giacciono negli ossari come martiri della guerra Boshin, erano giovani e dediti allo studio del Cinese classico, io avevo l'abitudine di prendere parte alle loro lezioni. Ero solo una bambina, ma divenni stranamente brava e capivo con facilità i passaggi che loro trovavano troppo difficoltosi da comprendere e memorizzare.
Mio padre, un uomo colto, se ne dispiaceva moltissimo.
"Solo fortuna!" diceva "Che peccato che non sia nata uomo."

Contesto: da Toki no Kizuna a Hekketsuroku
On hiatus fino a data da definirsi -causa ispirazione morta, casini scolastici e soliti problemi in real. Non so se ho intenzione di finirla, davvero, ma prima o poi caricherò almeno i 10 capitoli già pronti.
Sorry, y'all
Genere: Romantico, Sovrannaturale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio, Toshizou Hijikata
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Triangolo
Capitoli:
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Acqua.
A volte scorre lenta, altre è un fiume in piena.
Ricordo terra negli occhi di un uomo: concreta e fedele.
Ricordo ferro nei modi di un'altro, lucidi e taglienti.
Infine, v'era il verde delle foglie di bambù nel fondo dell'animo di un bushi.
Ebbi la fortuna di conoscere bene quei tre elementi, così come conoscevo l'odore della mia cipria e l'acqua prfumata del mio bagno, ed in tutti vidi fierezza, gioia, dolore, compostezza.
Giri. Dovere e potenza.
Li amai, in diverso modo, tutti quanti.

E, cadesse l'ultima stella dal cielo, non rinnegherei mai nessuno di loro.


II

Come radici nel terreno
 

Nell'angolo più in ombra del giardino alla residenza della mia famiglia, Fuyuhara, si apriva la strada un fiumiciattolo di ciottoli bianchi.
Era stretto fra due lembi di terra, accarezzato dai fiori e bastavano due passi per attraversarlo, ma mi pareva ugualmente più enrome del Sunagawa e, nel suo intrico di cascatelle che portavano al laghetto delle carpe lontano dal ruscello principale, aveva una forza tutta particolare.
Era piccolo ma potente.
Avevo finito di riposare, farmi il bagno e supervisionare il disfacimento del mio bagaglio. Avevo passato qualche giorno ad oziare sul corridoio scoperto; leggevo libri, avevo composto una poesia in maniera piuttosto frettolosa e osservato le domestiche che pulivano la residenza da cima a fondo.
Non so come notai quel fiumiciattolo.
Semplicemente, me ne innamorai come ci si innamora di una canzone o di un dipinto, e non esitai a sgattaiolare fuori dalla portata dei miei compagni per mettere a bagno i piedi ancora calzati nei tabi.
"Sembri un fantasma, signorina."
Trasalii.
"Come avete fatto a...?"
Non mi ero voltata, irrigidita in mezzo all'acqua e con il viso rivolto all'alto muro bianco, e non mi azzardai a guardare colui che mi aveva parlato.
Temetti che fosse un ladro intenzionato ad usarmi come riscatto, o un assassino inviato da chissà chi.
Non mi intimoriva mostrarmi in pubblico, al contrario, e non mi vergognai d'essere sola in presenza di un uomo: tuttavia mi chiedevo chi mai fosse colui che mi parlava con tanta familiarità. Se fosse pericoloso.
Mi spaventava la sua voce leggera come vento, portata da un luogo lontano.
"Ad entrare, dici, fiorellino?" una risata. Pareva un sogno o, ancor meglio, l'eco di un sogno narrato in versi. "Sono sempre stato qui. E puoi anche girarti, lo sai, non mordo mica."
Di nuovo, mi sentii terribilmente tesa.
"Credo sia il caso che voi ve ne andiate." sbottai.
Fortunatamente avevo avuto l'accortezza di tenere i tabi ai piedi e di lasciare che la gonna si bagnasse senza sollevarla, ma ugualmente avevo abbandonato una sopravveste di tralasciabile valore sull'erba insieme a gran parte dei miei fermagli e dei miei gioielli.
Potevano essere rubati, certo, ma improvvisamente mi interessava di più quello che lasciavo scoperto.
Rimanevo lì, immobile e spaventata, stringendomi le braccia per l'improvviso freddo che sentivo -eppure l'acqua gelida non mi aveva infastidito fino a quel momento- e sentendomi come una scimmia in gabbia.
"Ah, io non credo proprio. Prederai freddo ed è divertente vederti tremare."
"Non scherzo affatto. Andateve."
"No. Come ti chiami, hm?"
Mi morsi l'interno della guancia, sentendo un nodo di frustrazione e paura stringermi la gola.
"Andatevene."
Distinsi chiaramente il suono di un passo, poi un'altro. Lo sciaguattio dell'acqua ed una presenza troppo, troppo vicina, abbastanza da essere invadente pur senza sfiorarmi in alcun modo.
Era come leggera aria temporalesca alle mie spalle, il preludio di una battaglia, senza consistenza eppure reale.
"Non ne ho alcuna intenzione." replicò, con quella sua voce flautata.
Era così orribile, quella voce. Piacevole da sentire, certo, ma non ingannava neanche per un momento riguardo colui che la utilizzava.
"Vi devo davvero minacciare?" chiesi, alzando il mento "Vi farò uccidere."
"Ma davvero."
La sensazione delle dita sulla pelle. O era un'illusione?
"Non sto affatto minacciando invano."
Naturalmente dicevo sul serio: mio padre o mio zio avrebbero certo fatto pagare un prezzo molto, molto alto per l'introduzione indebita nella villa, ma Daigo avrebbe preteso la testa di chi osava profanare la mia casa. Avrebbe camminato sul sangue di chi, con il mio onore, rubava anche il suo. Della mia intera famiglia.
Ma tutto questo, al mio strano persecutore, importava poco.
"Oh, ripeti sempre le stesse cose come se avessi la mente offuscata, eppure non è così."
"Cosa dovrei dirvi?" sbottai, sollevando il capo e le spalle. Mi raddrizzai, ricordando d'improvviso il mio rango e il mio potere dinastico. "Se è vero che siete entrato qui, sapete anche come uscirne. Cosa che vi esorto a fare al più presto, prima che si accorgano che vi siete intrufolato dove non vi è permesso."
"Così mi piace di più. Sei educata bene, fiorellino." Di nuovo, ebbi la stessa sensazione che qualcosa mi toccasse la base del collo, spostando di lato i capelli sciolti e resi secchi dal freddo. Ma era suggestione, forse, così come lo era la presenza stessa dello sconosciuto. "In fondo, abiti la mia casa."
Socchiusi le labbra, sorpresa, lasciandomi scappare un 'oh'. Dovevo sembrare molto ingenua.
"Siete lo spirito del lago, per caso?" domandai.
Lui rise e, non so perchè, mi sembrò che scrollasse la testa come per negare.
"No, non lo sono."
"Allora rimanete un intruso."
"Un umile ospite, come lo siete voi." replicò, gentilmente, e di nuovo il tono canzonatorio delle sue parole lasciò il posto ad uno più ammaliante "Non lo siamo tutti, ospiti di un mondo che non lascia spazio alla redenzione e alla salvezza?"
"Jodo." mormorai, stupita.
Era un monaco, forse, o un Budda?
Di nuovo quella risatina, come pioggia.
"Ah, allora sei istruita per davvero."
"Mi offende il fatto che abbiate supposto il contrario." sospirai, piano. "Mi lascereste andare, per favore? Potrete presentarvi alla porta e allora vi accoglierò come si deve, una volta avuto il tempo di sistemarmi."
Improvvisamente la presenza dell'uomo, chiunque egli fosse, si fece più pesante. Più umana, nel caso non lo fosse stato in precedenza.
"Ma io non ti sto trattenendo, fiorellino." disse e, in quell'esatto momento, mi accorsi che era vero.
"Non posso girarmi." mentii "Non sono presentabile e non desidero essere vista. Vi prego, lasciatemi il modo di incontrarvi in una più consona situazione."
"Ti imbarazzo?"
La risposta era naturale, la sapeva perfettamente.
Di fronte a tanta malignità mi fu impossibile nascondere la rabbia.
"Naturalmente sì, è una domanda sciocca."
Anche se dovevo essere sembrata come un cane ringhioso, come una contadina che richiama le oche, poco mi importava: non mi piaceva il gioco dello sconosciuto, non avevo intenzione di prendervi parte.
Improvvisamente, come una frusta che torna indietro dopo aver colpito, la sensazione svanì; ogni singolo filo di tensione creato dallo sconosciuto si rilassò ed io sentii il suono dei suoi passi nell'acqua bassa.
Dovetti resistere alla tentazione di mettermi a ridere per il sollievo, o di lasciarmi cadere in ginocchio; ma -sì- fu difficile non voltarmi. Non volevo vederlo, ma al contempo ero curiosa.
Disgustosamente curiosa.
"A-aspettate."
"Oh. La signorina mi richiama indietro." mi rivolse una risatina aspra che, solitamente, immaginavo accompagnata da una parodia d'inchino "Cosa desideri, fiorellino?"
"Il vostro nome. Così potrò sapere chi siete, e prepararmi a dovere."
Un momento di silenzio, tanto che pensaii che se ne fosse andato.
Sarebbe stato coerente fino in fondo, se non altro, e io avrei forse dimenticato l'accaduto. Ma, naturalmente, nulla andava mai come speravo -e avrei pagato per la mia azione sbadata.
" Shiranui Yabai." rispose.
Fu l'unica parola che mormorò senza flessione nella voce. Nessun sentimento.
Sorrisi tra me e me. Shiranui Yabai; un nome semplice da ricordare, nella sua stranezza.
L'avrei fatto buttare fuori a calci non appena avesse osato mettere piede a Fuyuhara, mi ripromisi, e se fosse stato possibile l'avrei picchiato io stessa.
Ma non avevo mai picchiato nessuno.
Non sentii i suoi passi allontanarsi. Il rumore dell'acqua spostata fu l'unica cosa che mi fece sapere che se ne era andato.
Speravo per sempre.

*

"Wah, Sakakibara-san!"
Mi lasciai sfuggire una risatina nel vedere gli occhioni spalancati di Keisei e le mani che si era automaticamente portata alle labbra.
Mi ero cambiata, poichè le condizioni delle mie vesti e dei tabi erano state subito notate. Di conseguenza, mi avevano spedita in bagno come se fossi stata una bambinetta colta nel mezzo di un dispetto.
"Cosa c'è? Non mi sta bene?" replicai, facendo una mezza giravolta. Risi nel constatare quanto mi fosse facile il movimento: non ero abituata ad indossare un unico strato, tanto meno fatto di normalissimo cotone.
Solitamente mi era permesso indossare la seta anche nelle tenute informali e casalinghe, nonostante i tessuti importati dalla Cina fossero mantenuti unicamente per le occasioni importanti, così come i kimono dai colori più brillanti, quindi non ero affatto abituata alla pesantezza del cotone.
E, mentre le mie cugine l'avrebbero sicuramente ritenuto grezzo, volgare e fastidioso, io mi ci trovavo piuttosto bene; certo, probabilmente mi avrebbe arrossato la pelle, ma trovavo che la seta d'estate diventasse appiccicosa.
O'kaa-san aveva sempre detto che ero seageratamente viziata, e quindi bizzara, e non mi sentivo di darle torto.
Nonostante questo, però, nessuno si era azzardato a muovermi troppe critiche: ero la più grande delle ragazze in famiglia, nonchè l'unica sposata, e quindi mi tenevano in gran conto.
In quindici anni o'kaa-san non aveva saputo mettere al mondo altro che figlie e figli nati morti, ma nessuno l'aveva mai colpevolizzata per questo.
"Non sembrate..." esitò, sfiorandosi il collo con due dita senza smettere di guardarmi. Era bella come diceva il suo nome, Keisei, anche con l'aria stupida. "Ecco, non sembrate nemmeno voi."
Risi leggermente più forte, deliziata.
"Per via dei capelli raccolti?"
"Per tutto." rispose, dopo averci pensato un po' su.
Lanciai un'occhiata allo specchio che tenevo fra le mani ed esso mi restituì l'immagine di una ragazza assolutamente anonima, molto pallida, con due occhi neri troppo affusolati ed i capelli ben stretti in una crocchia fermata da pettini di stoffa colorata. Avevo lasciato scoperto il collo, senza proteggerlo con i soliti strati che arrivavano quasi fin sotto il mento, e faceva capolino solo il colletto d'un rosa slavato.
"Siete sicura che non volete neppure un po' di colore sulle labbra?" continuò Keisei, aggrottando appena le sopracciglia nel vedere che mi pizzicavo le guance per renderle più rosate, ma scossi le spalle come se la questione non avesse importanza.
"No. Per oggi vorrei passare inosservata."
Keisei abbozzò un inchino.
"Come desiderate." mormorò, e io mi chiedessi cosa ne pensasse in realtà.
Posai lo specchio sul tavolo da toeletta. La giada della cornice un suono sgradevole cozzando contro il legno ed entrambe, senza pensare, fissammo per un momento l'oggetto per paura che si fosse rotto. Fortunatamente, non avevo prodotto alcun danno.
Sospirai.
Ero una sciocca, o'kaa-san aveva ragione.

"Non si è presentato nessuno, ancora?" domandai, cercando di allontanare il pensiero di mia madre.
"I vicini sono attesi per domani."
"Nessun'altro?"
Keisei mi guardò, un poco perplessa, sbattendo le palpebre. Non ci pensò su nemmeno un momento.
"No."
Ah.
Così non s'è fatto vedere.
Non lo capivo.
Pensavo che Shiranui, se così si chiamava davvero lo sconosciuto del giardino, avrebbe avuto la faccia tosta di presentarsi alla mia porta nel giro di qualche ora, ma era passata un'intera giornata e non v'era traccia di lui.
Annuii e sorrisi.
Non potevo certo dire di volerlo vedere: egli era un nome, un insulto ed un filo di vento, nulla di più.
"Possiamo andare. Mi prenderesti il parasole azzurro, per favore?"
Keisei si inchinò nuovamente e mi precedette fuori dalla stanza in un tonfo di tabi su legno. Era un bel suono, quello delle persone che camminano sui tatami, rilassante e familiare.
Lanciai uno sguardo fuori dalla finestra, da dove riverberavano i raggi del sole estivo e una minuscola porzione del susino che dominava il giardino, quasi aspettandomi di vedere qualcosa che non fossero le solite foglie e il solito cielo.
Chissà che fine aveva fatto quello Shiranui Yabai.

 

Ad ogni modo, per pensare non mi furono concessi che quei pochi istanti da sola: sentii la voce di Keisei chiamarmi, chiedendomi se vi fossero problemi con i vestiti, e mi affrettai a seguirla fino all'uscita della villa. Mi porse il parasole con gentilezza, aprendolo per me ma lasciandomi l'onere di tenerlo per ripararmi: non desideravo spaventare le persone che avrebbero lavorato per me.
Nel mio piccolo, e naturalmente sotto le direttive di mio Zio, volevo dare un'impronta personale almeno alla presentazione che mi aspettava; per la gestione, poi, potevano sbrigarsela gli uomini della famiglia.
Esattamente come avevo previsto, per le strade di Edo non fui degnata nemmeno di uno sgaurdo: non ero così bella da farmi notare in abiti normali nè così brutta da sfigurarvi.
Vidi, anzi, molte ragazze che per viso e corporatura mi avrebbero potuto essere gemelle e -se la cosa da una parte mi infastidì- sentii di essere al sicuro.
Era come essere un albero nascosto in una foresta, una goccia d'acqua in un oceano: non temevo di essere additata e, una volta tanto, era bello sapere di avere l'opportunità di confondermi fra la gente.
Di tanto in tanto mi capitava di commentare riguardo questo o quel passante e Keisei rideva della mia ingenuità. Non era molto più grande di me, tuttavia aveva vissuto fuori da Fuyuhara abbastanza da farmi arrossire di stupore ed invidia ogni volta che nominava un bagno pubblico o un negozio di dolci.
Aveva visto più cose di quante, probabilmente, ne avrei viste io in una vita intera e sembrava così naturale, così...bello.
Non mi preoccupavo di guardare dove andavo, così mi stupii nel sentire un tonf ovattato e la consistenza di qualcosa di morbido che improvvisamente mi abbracciava la gonna dalle ginocchia in giù.
"Ahhh, gomennasai o'nee-san!"
Automaticamente mi guardai i piedi, sorpesa; avevo appesa alle gambe una scimmietta -no, ecco, una bambina- con il nasino rosso e le guance più paffute che avessi mai visto. Doveva avere al massimo cinque, sei anni, ma lo yukata verde pastello che indossava la faceva sembrare più piccolina.
Ci eravamo scontrate, probabilmente, ma mi rivolgeva un bellissimo sorriso sdentato.
"Oh, scusami tu, imotou." risposi, e mi chinai per scompligliarle i capelli castani. In tutta sincerità, mi sentivo anche un po' in colpa: avrei potuto farle male, con la mia disattenzione, così come avrei potuto rompere lo specchio. "Ti sei fatta male?"
Lei scosse la testa, tendendosi per accettare le mie carezze come un gattino.
"Hm-hm. No."
"Bene." lanciai un'occhiata a Keisei. Se ne stava lì a guardarci con un sopracciglio sollevato e l'ombra di una risata sul viso; anche lei aveva sorelle piccole, per quel che ne sapevo, e probabilmente gliele ricordava. "Keisei, abbiamo con noi dei dolcetti, per caso?"
La domanda parve prenderla in contropiede.
"Eh? N-no."
La bambina si lasciò sfuggire un uggiolio, ma la rassicurai.
"Andiamo a comprarli, ti va?" proposi. Non aveva importanza il negozio, poteva aspettare, e la gioia sul volto di una persona era la cosa più deliziosa che il mondo esterno potesse offrire.
Mi piaceva rifarmi sulle cugine e sorellastre più piccole, maltrattarle e far capire loro qual era il mio posto...ma era anche ben vero che le mie sorelle erano dispotiche e fastidiose, litigavano e spettegolavano. Questa bambina era dolce.
Tuttavia, non avevo considerato che ad una simile età non potesse certo girare da sola. E, subito dopo, fummo richiamate da una voce maschile, profonda.
"Chizuru."
Una sola parola, apparentemente senza significato, ma che mi bastò per alzare gli occhi e comprendere a chi si stesse riferendo: l'intonazione era autoritaria ed amorevole insieme, ben diversa da quella che si sarebbe potuta utilizzare con un cane ma non lontanamente paragonabile all'amore smodato che un uomo prova per il proprio figlio maschio.
Era il padre della bambina.
Un uomo rasato, quindi presumibilmente un medico, dalle vesti informali e lo sguardo color cioccolato.
"O'tousan!" salutò Chizuru, più allegra che mai, e subito si staccò da me per correre incontro al padre. Tuttavia, a metà strada si voltò a guardarmi, congli occhioni carichi di dispiacere e il dito poggiato sulle labbra.
"Scusami, O'nee-san, per i dolcetti. Otousan..."
Le sorrisi.
"Andremo un altro giorno, Chizuru-chan." promisi, gentilmente "Verrò a torovarti."
Una sciocchezza, dal momento che non sapevo dove vivesse.
Ma la cosa le diede conforto, la spinse a volare fra le braccia del padre, e mi parve di aver fatto la cosa giusta. Anche Keisei approvava, a considerare dall'espressione soddisfatta.
"Ci sapete fare con le bambine, Sakakibara-san." si complimentò, con un sospiro, "Se solo foste più attenta a dove andate..."
Risi del suo rimbrotto, sentendomi come se nulla potesse ferirmi, e mi guardai intorno. Non dovevamo essere molto lontane perchè, in effetti, riconobbi il Matsuzakaya dall'altro capo della strada.
Fu così che mi accorsi che il padre di Chizuru non era l'unico ad essersi goduto la scena; non so perchè mi convinsi che si era beato dell'intero siparietto, forse perchè non si degnò di toglierci gli occhi di dosso neanche quando si accorse di essere visto, ma era una sensazione piuttosto imbarazzante.
Era un ragazzo.
...Bene, forse è il caso che ammetta che era più che altro un giovane uomo di bell'aspetto. Se ne stava appoggiato al muro del negozio di kimono con le braccia incrociate ed una gamba piegata, completamente a proprio agio, ed aveva occhi impossibili. Viola. 
Naturalmente doveva essere un gioco di luci, perchè non avevo mai visto con uno sguardo tanto limpido e, nonostante le mie esperienze molto limitate, ero piuttosto certa che non fosse possibile possedere quel colore violetto.
Keisei mi si affiancò.
"Sakakibara-san..." mormorò. Aveva notato a propria volta l'insistenza del ragazzo? O si preoccupava forse del suo bell'aspetto?
Ad ogni modo, mi preoccupai che la mia copertura fosse saltata. Non capivo come, ma non c'erano tante altre spiegazioni.
"Fai finta di nulla, Keisei. Noi non nascondiamo nulla." le dissi, più per rassicurare me stessa.
Un passo.
Non smise di guardarci.
Due passi.
Giurai di averlo visto sogghignare.
Tre.
Quattro.
Iniziai a sospettare che fosse uno di quei tipi che si addormentano con gli occhi perfettamente aperti; però era troppo, ecco, troppo presente.
E, quando fummo abbastanza vicine, ci scoccò un'occhiata divertita.
"Come mai una del vostro ceto gira con abiti così modesti?" domandò, in tono amabile.
Se ne avessi saputo di più ne avrei riconosciuto la sfumatura ironica.
Ad ogni modo, se era un modo per attirarmi nel negozio non stava funzionando; al contrario, arrossii fino alla punta dei capelli per la vergogna di essere stata scoperta.
Ero così prevedibile?
Comunque, non ero abbastanza furba da negare.
"Come ve ne siete accorto?"
Lui rise. Di me, probabilmente.
"E' il mio passatempo e, signora, con tutto il rispetto, io lavoro fra i kimono." replicò, come se ciò spiegasse tutto.
Immaginai che alludesse agli acquirenti del negozio, ma non mi sembrava avesse l'età per lavorare a contatto con le clienti: piuttosto, aveva proprio l'aspetto dell'esca. Lui era bello, davvero bello, e le donne lo notavano.
C'era solo da sperare che, insieme a lui, notassero il negozio.
"Ah. Capisco." sbottai, imbronciata.
"Siete qui per...?"
Comprare, ovviamente avrei voluto rispondergli. Dei, che modi.
"Supervisionare." risposi, invece, gonfiando il petto come un pavone che fa la ruota. Al diavolo anche il piano di segretezza. "Sono Sakakibara Kimiko e da ieri sovraintendo la gestione di questo posto. E voi siete...?"
In un angolino alla mia destra, sentii Keisei sospirare rassegnata, ma non commentò nulla.
Il ragazzo non si scompose minimamente.
"Hijikata Toshizou." rispose, solo, e mi parve di intravedere un certo orgoglio. Inutile, d'altronde, dal momento che la sua famiglia era probabilmente una nullità e lui era il figlio fin troppo fortunato di un contadino. "Vi mostro dentro, Sakakibara-dono. Così potete supervisionare."

Oh, Dei.
Quel ragazzo era in cerca di schiaffi.

 

   
 
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