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Autore: greenslove    04/02/2014    0 recensioni
Hazel ha sedici anni, ma ha già alle spalle un vero miracolo: grazie a un farmaco sperimentale, la malattia che anni prima le hanno diagnosticato è ora in regressione.
Ha però anche imparato che i miracoli si pagano: mentre lei rimbalzava tra corse in ospedale e lunghe degenze, il mondo correva veloce, lasciandola indietro, sola e fuori sincrono rispetto alle sue coetanee, con una vita in frantumi in cui i pezzi non si incastrano più.
Un giorno però il destino le fa incontrare Harry, affascinante compagno di sventure che la travolge con la sua fame di vita, di passioni, di risate, e le dimostra che il mondo non si è fermato, insieme possono riacciuffarlo.
Ma come un peccato originale, come una colpa scritta nelle stelle avverse sotto cui Hazel e Harry sono nati, il tempo che hanno a disposizione è un miracolo, e in quanto tale andrà pagato.
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QUESTA STORIA NON E' MIA. E' UN LIBRO DI JOHN GREEN, PERO' MI E' PIACIUTA COSI TANTO CHE HO PENSATO DI CONDIVIDERE QUESTA MERAVIGLIOSA STORIA ANCHE CON VOI.
Buona lettura
Genere: Commedia, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna, Het | Personaggi: Harry Styles, Niall Horan, Nuovo personaggio
Note: AU, Otherverse, Traduzione | Avvertimenti: nessuno
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 The Faul in Our Stars  (Colpa delle stelle)


 

I libri erano i Mollati supremi: li abbandoni e loro ti aspettano in eterno;
se ti affezioni, loro ti ricambiano per sempre.


- John Green
 



                                                                                              


Capitolo due


Harry Styles guidava in modo raccapricciante. Che si fermasse o ripartisse, era tutto un tremendo SBALLOTTAMENTO.
Finivo in avanti con le cinture di sicurezza che mi segavano ogni volta che posava il piede sul freno del suo SUV Toyota, e il mio
collo veniva sbattuto indietro ogni volta che dava gas. Avrei dovuto essere agitata in fondo ero in macchina con un
ragazzo strano, destinazione casa sua, sapevo bene che i miei polmoni spappolati avrebbero complicato ogni
sforzo di tenere a bada avances indesiderate ma Harry aveva una guida talmente mediocre che non
riuscivo a pensare a nient’altro. Abbiamo percorso forse un miglio in un silenzio imbarazzato prima che Harry
dicesse:
«Mi hanno bocciato tre volte all’esame di guida.»
«Ma non dirmi.» Ha riso e annuito.
«Be’, non sento la pressione nella prostata e non riesco ad abituarmi a guidare con il sinistro. I miei 
medici dicono che la maggior parte degli amputati riesce a guidare senza problemi, ma
be’, io no.  Ad ogni modo, vado a dare l’esame per la quarta volta, e guido più
o meno come adesso.»
Mezzo miglio davanti a noi si è accesa una luce rossa. Harry ha inchiodato, scagliandomi
nell’abbraccio triangolare della cintura di sicurezza.
«Scusa. Giuro su Dio che sto cercando di essere delicato. Insomma, alla fine dell’esame sono
praticamente sicuro che mi bocceranno un’altra volta, ma l’istruttore dice tipo:
Hai una guida sgradevole, ma non tecnicamente insicura. »
«Temo di non pensarla così» ho detto io.
«Sospetto un Premio Cancro.» I Premi Cancro sono le piccole cose che i bambini col cancro ottengono e quelli
normali no: palloni da pallacanestro firmati dagli eroi sportivi, giustificazioni per compiti non fatti,
patenti di guida immeritate ecc.
«Sì» ha detto lui. Il semaforo è diventato verde. Mi sono preparata. Harry è partito a razzo.
«Sai, ci sono le auto con il cambio a mano, per quelli che non possono usare le gambe» gli ho fatto notare.
«Sì» ha detto. «Forse, un giorno.» Ha sospirato in un modo che mi ha indotto a
chiedermi se credesse davvero all’esistenza di un giorno. Sapevo che l’osteosarcoma è altamente curabile,
eppure c’è tutta una serie di modi per stabilire in maniera approssimativa le aspettative
di sopravvivenza di qualcuno senza chiederglielo apertamente. Io sono ricorsa al classico
«E allora, vai a scuola?»
Di solito a un certo punto i tuoi ti tolgono dalla scuola, se si aspettano che tu non abbia speranze.
«Sì» ha detto.
«Vado alla North Central. Sono un anno indietro, però. E tu?»
Per un attimo ho pensato di mentire. Nessuno ama i cadaveri, dopotutto. Ma alla fine ho detto la verità.
«No, i miei mi hanno ritirata tre anni fa.»
«Tre anni?» ha detto, stupito.
Ho raccontato ad Harry del mio miracolo: diagnosi di cancro alla tiroide in fase IV a tredici anni. (Non gli ho
detto che la diagnosi era arrivata tre mesi dopo la mia prima mestruazione.
Tipo: Congratulazioni! Sei una donna. Adesso muori.) Era, ci fu detto, incurabile. Fui sottoposta a un’operazione chiamata
dissezione radicale del collo che è piacevole tanto quanto il nome che porta. Poi radioterapia. Poi provarono
un po’ di chemio per i tumori ai polmoni. I tumori dapprima si restrinsero, poi crebbero. A quel punto
avevo compiuto quattordici anni. I polmoni iniziarono a riempirsi d’acqua.
Incominciai ad avere un aspetto piuttosto mortifero: mani e piedi mi si gonfiarono;
la pelle si screpolava; avevo le labbra sempre blu. C’è un farmaco che allevia il panico che ti prende quando non riesci a respirare,
e me ne iniettarono un bel po’ con la flebo, insieme a un’altra decina e passa di medicine varie. Ma
anche così ti rimane lo stesso un po’ la sensazione di affogare, che non è molto bello, soprattutto quando ce l’hai
ininterrottamente per mesi e mesi. Poi finii all’ospedale con la polmonite, e mia madre in quei giorni stava seduta accanto al mio letto e diceva: Sei
pronta, tesoro? e io le dicevo che ero pronta, e mio padre diceva solo che mi voleva bene con questa voce che non è che stava per spezzarsi, era già
completamente rotta, e ci tenevamo per mano, e io non riuscivo a respirare e i miei polmoni lavoravano disperati,
annaspando, costringendomi a scendere dal letto alla caccia di una posizione che mi permettesse di far arrivare loro più
aria, e io ero imbarazzata per quanto fossero disperati a fare il loro dovere, ma anche disgustata per il fatto che non
mollavano e basta, e ricordo la mamma che diceva va tutto bene, è tutto a posto, starai bene, e mio padre che cercava in
tutti i modi di non singhiozzare, perché quando lo faceva, cioè sempre, era come un terremoto. E ricordo di aver
desiderato di non svegliarmi più. Tutti credevano che per me fosse ormai giunta la fine, ma la mia oncologa Maria
riuscì a estrarre un po’ del liquido dai polmoni e di lì a poco gli antibiotici che mi avevano dato per la polmonite fecero
effetto. Mi svegliai, e fui inserita in una di quelle terapie sperimentali che nella Repubblica di Cancrolandia sono
famose per Non Funzionare. Il farmaco era il *Phalanxifor, una molecola concepita per attaccarsi alle cellule
cancerogene e rallentarne la crescita. Non funzionava in circa il 70 per cento delle persone. Ma nel mio caso
funzionò. I tumori regredirono. E si stabilizzarono. Viva il Phalanxifor! Negli ultimi diciotto mesi le mie
metastasi non sono praticamente cresciute, lasciandomi con due polmoni che come polmoni fanno schifo, ma che
possono tirare avanti a tempo indeterminato con il supporto di inalazioni di ossigeno e di dosi giornaliere di Phalanxifor.
Alla fine il mio miracolo canceristico si era tradotto in un po’ di tempo guadagnato. (Non sapevo ancora quanto.) Ma nel raccontarlo ad Harry Styles 
ho dipinto il quadro più roseo possibile, infiorettando la miracolosità del miracolo.
«Quindi adesso devi tornare a scuola»
ha detto lui.
«In realtà non posso» ho spiegato
«perché ho già preso il diploma di maturità, da privatista. Quindi seguo dei corsi al college locale.»
«Una ragazza da college» ha detto facendo sì con la testa.
«Questo spiega quell’aria sofisticata.» Mi ha guardato sogghignando. Io gli ho dato un colpetto per scherzo sul braccio. Ho sentito il
muscolo sotto la pelle, teso e sbalorditivo.
Ci siamo infilati con uno stridio di ruote in una strada residenziale, piena di case dai muri decorati a stucco. La sua era la prima a sinistra.
Stile coloniale, due piani. Ci siamo fermati nel cortiletto inchiodando. L’ho seguito dentro. All’ingresso, una
targa di legno recava incise le parole ‘’La casa è dove si trova il cuore’’, ma tutte le stanze parevano tappezzate di sentenze
simili. ‘’I buoni amici sono difficili da trovare e impossibili da dimenticare’’, si leggeva in un’illustrazione sopra
l’appendiabiti. ‘’L’amore vero nasce dalle difficoltà’’, prometteva un cuscino ricamato a punto croce nel salotto
arredato all’antica. Harry si è accorto che leggevo.
«I miei li chiamano Incoraggiamenti» ha spiegato.
«Ce ne sono dappertutto.»
Sua madre e suo padre stavano preparando delle enchiladas in cucina (su un vetro colorato sopra il lavandino c’era scritto, a lettere in rilievo,
‘’La famiglia è per sempre’’). Sua madre metteva il pollo nelle tortillas, che suo padre poi arrotolava e sistemava in una terrina da
forno. Non sono parsi troppo sorpresi del mio arrivo, il che aveva senso: il fatto che Harry mi facesse sentire speciale non
indicava necessariamente che lo fossi.
Forse portava a casa una ragazza diversa ogni sera per farle vedere un film e metterle le mani addosso.
«Questa è Hazel Grace» ha detto, per presentarmi.
«Solo Hazel» ho detto io.
«Come va, Hazel?» ha detto il padre di Harry. Era alto quasi come Harry, e magrolino, come di solito non sono le persone
abbastanza anziane da essere genitori.
«Non c’è male» ho detto.
«Com’è stato il gruppo di supporto di Niall?»
«Da non crederci» ha detto Harry.
«Sei un tale disfattista» ha detto sua madre.
«Hazel, a te è piaciuto?»
Ho preso tempo, cercando di capire se la mia risposta doveva piacere ad Harry o ai suoi.
«Sono quasi tutti simpatici» ho detto alla fine.
«È quello che abbiamo constatato anche noi con le famiglie al Memorial, nei momenti più difficili della terapia di Harry» ha detto suo padre.
«Erano tutti così gentili. E forti, anche. Nei giorni più bui, il Signore fa entrare nella tua vita le persone migliori.»
«Svelto, dammi un cuscino e un po’ di filo, perché questo deve diventare un Incoraggiamento» ha detto Harry, e
suo padre è parso un po’ infastidito, ma poi Harry gli ha passato il lungo braccio intorno al collo e ha detto:
«Sto scherzando, papà. Mi piacciono quegli assurdi incoraggiamenti. Davvero. Solo che non posso ammetterlo, perché sono
un adolescente.» Suo padre ha alzato gli occhi al cielo.
«Ti fermi con noi a cena, spero» ha detto sua madre. Era di mezza altezza, bruna e con un sorriso tale e quale a quello del figlio.
«Forse» ho detto.
«Devo essere a casa alle dieci. Inoltre non, ehm, non mangio carne»
«Nessun problema. Ne vegetarianizziamo alcune» ha detto lei.
«È perché gli animali sono troppo carini?» mi ha chiesto Harry.
«Vorrei minimizzare il numero di morti di cui sono responsabile» ho detto.
Harry ha aperto la bocca per rispondere, ma poi si è bloccato.
Sua madre ha colmato il silenzio.
«Be’,mi pare una cosa bellissima.»
Hanno parlato per un po’ di come le enchiladas fossero le famose enchiladas dei Waters, Enchiladas Da Non Perdere,
e di come il coprifuoco fosse alle dieci anche per Harry, e che non si fidavano di nessuno che desse ai propri figli un
coprifuoco diverso dalle dieci, e mi hanno chiesto se andavo a scuola
«Va al college» è intervenuto Harry e hanno detto che il tempo era veramente e
assolutamente straordinario per essere marzo, e che in primavera tutte le cose sono nuove, e non mi hanno chiesto
nemmeno una volta del mio ossigeno o della mia diagnosi, cosa stranissima e
meravigliosa, e poi Harry ha detto:
«Io e Hazel andiamo a guardare V per Vendetta così lei può vedere il suo doppio cinematografico,
la Natalie Portman dei metà anni Duemila.»
«La tivù del salotto è tutta vostra, se volete usarla» ha detto in tono allegro
suo padre.
«Penso che in realtà lo guarderemo di sotto.» Suo padre ha riso.
«Bel tentativo. Ma è meglio in salotto.»
«Ma voglio far vedere a Hazel Grace il seminterrato» ha detto Harry.
«Solo Hazel» ho detto io.
«Allora mostra a Solo-Hazel il seminterrato» ha detto suo padre.
«E poi venite di sopra e guardate il film in salotto.»
Harry ha sbuffato, e tenendosi in equilibrio su una gamba ha ruotato i fianchi, spingendo così la protesi in avanti.
«Va bene» ha borbottato.
L’ho seguito giù per scale su cui c’era la moquette fino a un’enorme camera da letto nel seminterrato. Una mensola ad
altezza occhi correva tutto intorno alla stanza ed era piena di cimeli di pallacanestro: foto, decine di trofei con omini
laccati in oro immortalati a metà salto, o mentre palleggiavano, o lanciati verso un invisibile canestro. C’erano anche un
sacco di palloni e scarpe autografati.
«Giocavo a pallacanestro» ha detto.
«Dovevi essere piuttosto bravo.»
«Non ero male, ma tutte le scarpe e i palloni sono Premi Cancro.»
Si è avvicinato alla tivù, dove una pila enorme di DVD e videogiochi era sistemata in forma vagamente piramidale.
Si è chinato per sfilare V per Vendetta.
«Ero un po’ l’archetipo del ragazzo cresciuto in Indiana» ha detto,
«tutto impegnato nel tentativo di riesumare la perduta arte del tiro in sospensione. Un giorno però ero nella
palestra della North Central ad allenarmi ai tiri liberi, fermo all’altezza della lunetta, quando tutto d’un tratto non
sono più riuscito a spiegarmi perché me ne stavo lì a lanciare metodicamente un oggetto sferico all’interno di un altro
oggetto toroidale. Mi è sembrata la cosa più stupida del mondo. Ho cominciato a pensare ai bambini
piccoli che provano a infilare una forma cilindrica dentro un buco circolare, e a come lo fanno sistematicamente per mesi
e mesi finché non capiscono come funziona, e che la pallacanestro è essenzialmente una versione solo un po’ più aerobica dello stesso esercizio.
Comunque, ho continuato a cercare di infilare un pallone dietro l’altro, ho fatto otto canestri di fila, il mio record di
sempre, ma più andavo avanti e più mi sembrava di assomigliare a un bambino
di due anni. E poi per qualche motivo ho incominciato a pensare agli ostacolisti. Stai bene?»
Mi ero seduta nell’angolo del suo letto disfatto. Non stavo cercando di essere allusiva né niente. È solo che mi stanco
quando sto in piedi per molto tempo. Ero stata in piedi in salotto, e poi c’erano state le scale, e poi ancora lì nel
seminterrato, il che era stare in piedi un sacco, per me, e non volevo svenire. Ero
un po’ una lady vittoriana, rispetto allo svenire.
«Sto bene» ho detto. «Ti ascolto. Gli ostacolisti?»
«Sì, gli ostacolisti. Non so perché. Ho iniziato a pensare a loro e alle corse a ostacoli, in cui saltano sopra questi
oggetti totalmente arbitrari che sono stati messi sul loro cammino. E mi sono chiesto se gli ostacolisti si dicono mai
cose come Faremmo molto più in fretta se solo ci sbarazzassimo di questi aggeggi.»
«Questo è stato prima della tua diagnosi?» gli ho chiesto.
«Be’, sì, c’entra anche quella.» Hasorriso con un angolo della bocca.
«Il giorno dei tiri liberi esistenzialmente pregni è stato anche, casualmente, il mio
ultimo giorno di vita su due gambe. Da quando mi hanno fissato l’amputazione
al giorno in cui è successo è passato un weekend. Il mio personale vago barlume di ciò che sta passando Niall.»

Ho annuito. Mi piaceva Harry Styles. Mi piaceva proprio ma proprio tanto.
Mi piaceva che la sua storia finisse con qualcun altro. Mi piaceva la sua voce.
Mi piaceva che avesse fatto tiri liberi esistenzialmente pregni. Mi piaceva che fosse un docente del
Dipartimento dei Sorrisi Leggermente Truffaldini con una nomina anche presso il Dipartimento dell’Avere una Voce
Che Fa Sentire la mia Pelle come una Vera Pelle.
«Hai fratelli o sorelle?» ho chiesto.
«Eh?» ha risposto, un po’ distratto.
«Hai detto quella cosa sui bambini che giocano.»
«Ah, sì. No. Ho dei nipoti, i figli delle mie sorelle da parte di mio padre. Le mie sorelle però sono molto più grandi.
Hanno...PAPÀ, QUANTI ANNI HANNO JULIE E GEMMA?»
«Ventotto!»
«Hanno ventotto anni. Vivono a Chicago. Sono tutte e due sposate con eleganti avvocati. O banchieri.
Non ricordo. Tu hai fratelli o sorelle?»
Ho scosso la testa per dire di no.
«Allora, raccontami di te» mi ha detto, sedendosi accanto a me a distanza di sicurezza.
«Ti ho già raccontato di me. Mi hanno diagnosticato»
«No, non del tuo cancro. Di te. Interessi, hobby, passioni, feticci strani, e via dicendo.»
«Mmm» ho detto.
«Non dirmi che sei una di quelle persone che diventano la loro malattia.
Conosco così tanta gente di quel tipo. È sconfortante. Come se il cancro fosse la cosa che conta. La cosa che conta più
delle persone. Ma certo tu non hai lasciato che vincesse prematuramente lui, giusto?»
Mi è venuto da pensare che forse invece sì. Mi sforzavo di capire come presentarmi ad Harry, quali
entusiasmi comunicargli, e nel silenzio che è seguito mi è venuto da pensare che non ero interessante.
«Sono piuttosto ordinaria.»
«Questo lo rifiuto in blocco. Pensa a qualcosa che ti piace. La prima cosa che ti viene in mente.»
«Mmm. Leggere?»
«Che cosa leggi?»
«Tutto. Cioè, dai romanzi d’amore stupidi alla narrativa pretenziosa alla poesia. Tutto.»
«Scrivi anche poesie?»
«No.»
«Vedi!» Harry l’ha quasi gridato.
«Hazel Grace, sei l’unica adolescente in America che preferisce leggere poesia invece che scriverla. Questo mi dice
tantissimo di te. Ci scommetto che leggi un sacco di libri con la L maiuscola, vero?»
«Immagino»
«Qual è il tuo preferito?»
«Mmm» ho detto.
Il mio libro preferito era 'Un’imperiale afflizione', ma non mi andava di
raccontarlo in giro. A volte leggi un libro e ti riempie di uno strano zelo evangelico che ti convince che il mondo
frantumato che ti circonda non potrà mai ricomporsi a meno che, o fino a quando, tutti gli esseri umani non avranno letto
quel libro. E poi ci sono libri come Un’imperiale afflizione, di cui non puoi parlare con l’altra gente, libri così
speciali e rari e tuoi che sbandierare il tuo amore per loro sembrerebbe un tradimento.
Non era nemmeno che il libro fosse così bello.
Era solo che l’autore, Peter Van Houten, sembrava capirmi in strani, impossibili modi.
Un’imperiale afflizione era il mio libro, nel modo in cui il mio corpo era il mio corpo, e i miei pensieri i miei pensieri.
Eppure l’ho detto ad Harry.
«Il mio libro preferito probabilmente è 'Un’imperiale afflizione'.»
«Ci sono degli zombie?» mi ha chiesto.
«No» ho detto.
«Soldati speciali?»
Ho scosso la testa.
«Non è quel tipo di libro.»
Ha sorriso.
«Leggerò anch’io questo terribile libro con un titolo noioso che non contiene nemmeno dei soldati speciali»
ha promesso, e ho capito che non avrei dovuto dirglielo. Harry si è proteso verso una pila di libri accanto al
suo comodino. Ha preso un tascabile e una penna. Mentre scarabocchiava
qualcosa sul frontespizio ha detto:
«Tutto quello che chiedo in cambio è che tu legga questa brillante e spaventevole versione romanzata del mio videogioco preferito,
The Price of Dawn». Ho riso e l’ho preso.
Le nostre mani si sono pasticciate un po’ nel passaggio del libro, e poi lui me ne ha presa una.
«Fredda» ha detto, facendo pressione con un dito sul mio polso pallido.
«Non tanto fredda quanto sottossigenata» ho detto.
«Adoro quando mi parli usando il linguaggio medico» ha detto. Si è alzato e mi ha trascinato su con sé, e non mi ha
lasciato andare la mano finché non abbiamo raggiunto le scale.
Abbiamo guardato il film divisi da diversi centimetri di divano. Ho fatto la mossa da scuole medie in cui metti una
mano sul divano a metà strada tra te e lui per fargli capire che va bene se te la
prende, ma lui non ci ha provato. Dopo un’ora di film i genitori di Harry sono entrati e ci hanno servito le enchiladas, che abbiamo mangiato sul
divano, ed erano deliziose. Il film parla di questo tizio mascherato che muore eroicamente per Natalie
Portman, che è davvero brava e molto sexy e non c’entra niente con la mia faccia gonfia di steroidi.
Ai titoli di coda lui ha detto:
«Bello, eh?»
«Bello, sì» ho concordato, anche se non lo pensavo, in realtà.
Era più un film per maschi. Non so perché i ragazzi si aspettano che a noi piacciano i film per loro.
Noi non ci aspettiamo che a loro piacciano i film da ragazze.
«Dovrei andare a casa. Domattina ho lezione» ho detto.
Sono rimasta seduta sul divano mentre Harry cercava le chiavi. Sua madre mi si è seduta accanto e ha detto:
«Quello è proprio bello, non trovi?»
Forse credeva che stessi fissando l’Incoraggiamento sopra il televisore: un disegno di un angelo con la scritta Senza
dolore come possiamo conoscere la gioia?
(È una vecchia argomentazione nel campo della Riflessione sulla Sofferenza, e la sua stupidità o scarsa
sottigliezza potrebbe essere sondata per secoli, ma basterà dire che l’esistenza dei broccoli non influisce affatto sul sapore della cioccolata.)
«Sì» ho detto.
«Un bel pensiero.»
Ho guidato io l’auto di Harry fino a casa, con lui sistemato sul sedile del passeggero. Harry mi ha fatto ascoltare un paio di canzoni che gli
piacevano, di un gruppo chiamato The Hectic Glow, ed erano belle, ma siccome non le conoscevo non erano
belle per me quanto per lui. Ho continuato a lanciare occhiate alla sua gamba, o al posto in cui prima c’era la sua gamba, cercando di immaginare
come dovesse essere quella finta. Non volevo che fosse importante, ma un po’ lo era. Forse per lui era lo stesso col
mio ossigeno. La malattia respinge. L’avevo imparato molto tempo prima, e sospettavo che anche per Harry fosse così.
Quando ho svoltato nel cortile di casa mia, Harry ha spento la radio. L’aria
si è addensata. Probabilmente pensava se baciarmi o no: io lo facevo di sicuro.
Mi chiedevo se lo volevo. Avevo baciato dei ragazzi, ma era stato molto
tempo prima. Pre-miracolo. Ho spento il motore e l’ho guardato. Era
proprio bello. So che i ragazzi di solito non lo sono, ma lui sì.
«Hazel Grace» ha detto, il mio nome
suonava nuovo e migliore in bocca a lui.
«È stato un vero piacere fare la tua conoscenza.»
«Anche per me, signor Styles» ho detto io. Mi intimidiva guardarlo. Non riuscivo a sostenere l’intensità dei suoi occhi verdi kryptonite.
«Ti posso rivedere?» mi ha chiesto.
C’era un tenero nervosismo nella sua voce. Ho sorriso.
«Certo.»
«Domani?» ha chiesto.
«Come corri» ho detto. «Non vorrai sembrare troppo impaziente.»
«È ben per quello che ho detto domani» ha detto.
«Io vorrei rivederti stanotte. Ma sono disposto ad aspettare tutta la notte e molta parte di domani.»
Ho alzato gli occhi al cielo.
«Non sto scherzando» ha detto.
«Non mi conosci neanche» ho detto. Ho preso il libro dal cassetto dell’auto.
«E se ti chiamo quando ho finito questo?»
«Ma non hai nemmeno il mio numero di telefono» ha detto.
«Ho il forte sospetto che tu lo abbia scritto nel libro.»
Si è aperto in quel suo sorriso sbilenco.
«E poi dici che non ci conosciamo ancora.»




- John Green 


****

*Phalanxifor: In questo romanzo la malattia e la sua cura sono trattate in modo fittizio. Per esempio, non esiste niente che si chiami Phalanxifor
  
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